venerdì 31 dicembre 2010

2. I postini costituiscono ‘un genere’?

Fotografia di Mirta Rotondo (2007)

− Non credo che lo costituiscano, credo però che appartengano a un genere letterario molto antico e diffuso: quello della letteratura gnomica e sentenziosa.
− Ma non ne hanno l’apparenza: non sputano sentenze e non danno consigli. Molti sono addirittura umoristici.
− Diffidate dai moralisti dichiarati, più ancora da quelli che negano di esserlo.
− È un consiglio?
− Appunto. Diffidate.
− Ci consigli di diffidare dei postini?
− Attenzione ai ‘buchi neri’ della logica.
− Come sarebbe?
− Se ti consiglio di diffidare dei consigli, tu che fai?
− Sarebbe questa, l’indecidibilità, la caratteristica dei postini?
− Non di certo. Sarebbe saggio che nessuna decisione forse irrevocabile?
− Un altro consiglio?
− Vedi un po’ tu ...

martedì 28 dicembre 2010

1. Che cosa distingue i ‘postini’ dai ‘non postini’?

Un esempio paleolitico di illusione ottica, dal sito de Canecaude
Si riesce a distinguere il 'mamut' dal 'non mamut'?
Grazie a che cosa?

(dialogo)
− Di primo acchito direi: nulla se non la brevità.
− Ma anche gli attuali ‘messaggini’ sono per lo più brevi, se non brevissimi
− Allora diciamo che i postini non sono che dei messaggini un poco più curati del solito
− Cosa vuol dire più curati?
− Meno sciatti perché sono destinati a una lettura non semplicemente informativa.
− Che vuoi dire?
− Se le scrivo che Gigi è arrivato puntualmente non faccio che informarti di un fatto, se invece ti comunico una mia riflessione sull’attuale situazione politica, sollevano un problema e implicitamente ti invito a pensarci anche te.
− E per indurmi a pensare devi scrivere meglio?
− Non necessariamente. Se mi scrivi sciattamente di un argomento che so che ti interessa, mi induci a riflettere sul perché della tua sciatteria.
− Ecco forse ciò che distingue un postino da un convenzionale messaggino: quel che dice, il postino vorrebbe che fossi tu a dargli un significato.

domenica 26 dicembre 2010

Postini su come si scrivono i postini

"Manos" de Maurits Cornelis Escher (1898-1972)

Oggi iniziamo una nuova serie di 19 postini (perché 19? perché i quaderni dove scrive Boris hanno venti righe per pagina! una per il titolo e altre 19 per pianificare la serie) per gli amanti della scrittura ... e della ricorsività.

Ecco i titoli di questa serie di postini-dialogo ...

1. Che cosa distingue i ‘postini’ dai ‘non postini’?
2. i postini costituiscono un ‘genere’?
3. L’argomento
4. La trattazione
5. L’espressione
6. La varietas
7. La ripetizione
8. La parola
9. L’essenzialità
10. Il ritmo
11. La fonicità
12. La rarità
13. La comprensibilità
14. La delectatio
15. La forma
16. La concatenazione dei postini
17. I destinatari
18. La funzione (le funzioni)
19. I postini nella scuola

A presto!

giovedì 23 dicembre 2010

Uno sconosciuto

Disegno di L. Kupelwieser, 1813

Può una cosa essere di uno proprio perché è di tutti?
Può una cosa essere di tutti proprio perché è di uno?
Può l'originalità preesistere a sé stessa? coincidere con ciò che abbiamo sempre saputo, senza saperlo?

Leggere di più ...

Si sedette al pianoforte. Le sue dita si muovevano con la sicurezza di chi per suonare non aveva che da interrogare la memoria. Eppure i suoni che ne uscivano erano nuovissimi. Gli ascoltatori riconoscevano ciò che ascoltavano per la prima volta. Prevedevano l'imprevedibile. Il futuro era presente in un passato sconosciuto.


“Perché ripetere il già detto?”
“Per sottrarlo al tempo, alla storia. Perché il ripetuto è l'eternità.”
(Per un attimo sembrò somigliare a un antico busto di Parmenide, poi, lentamente, mutò sembiante: baffi neri, incolti, selvaggi, occhi incavati, neri penetranti. Quindi si rimise al pianoforte con il suo consueto, insignificante aspetto di pianista miope, da birreria.)


Molti l'avevano visto al pianoforte. Molti conoscevano e amavano i suoi Lieder. Pochi avevano ascoltato qualcuno dei suoi splendidi lavori strumentali. Pochissimi, forse nessuno aveva capito chi era Franz Schubert.

lunedì 20 dicembre 2010

Giacinti

La morte di Giacinto, di Jean Broc (1771-1850) - Museo Rupert de Chièvres di Poitiers

Vedo le sue foglie, lunghe e verde scuro, spuntare a novembre, quando tutt’intorno ci si sta ancora preparando all’inverno. Ai primi di gennaio la pianta è in pieno rigoglio e certi rigonfiamenti terminali preludono… no, sono già i germogli della meraviglia a venire. Questa esita ancora qualche settimana poi, a fine gennaio-primi di febbraio, eccola sbocciare in racemi di fiori blu, di un blu cilestrino che non ha l’eguale nei nostri campi, così come non ha l’eguale il loro profumo, intenso e delicato a un tempo.
È pieno inverno, non di rado sui giacinti posa la neve o li scuote la grandine: quelli però non si scompongono, anche se le foglie cedono al peso e li lasciano offrire ai pochi visitatori alati il loro colore e profumo. Leggere di più ... Tutto questo per quei pochi –qualche piccolo imenottero o dittero–, cui forse si aggiunge un occasionale visitatore umano – che però non li aiuta nell’impollinazione, anzi li coglie per farli isterilire in un vasetto nel soggiorno.

La natura, si sa, non è economa, e resta indifferente allo spreco dei giacinti. Può capitare tuttavia che non restino indifferenti alcuni dei visitatori occasionali, così per esempio colui o coloro che, molti secoli fa inventarono il mito di Apollo e Giacinto, poi ripreso da Ovidio nelle Metamorfosi e fatto oggetto, in tempi a noi vicini, di numerose opere pittoriche. Mozart undicenne ne mise in musica una versione modificata (Salisburgo, 1767).

Ecco la vicenda secondo il mito:

Il giovinetto Giacinto, figlio di Amicla e Diomede, per altri di Pierio e Clio era amato da Zefiro e da Apollo (gli antichi, in fatto di sessualità, non andavano troppo per il sottile). Sembra che Apollo fosse il favorito, giacché accompagnava Giacinto ovunque egli andasse. Zefiro era ovviamente geloso e un giorno che i due avevano dato inizio a una gara di lancio del disco deviò la traiettoria di Apollo facendo sì che il suo disco andasse a colpire la tempia di Giacinto, ferendolo mortalmente. A nulla valsero le arti mediche del dio che, a perenne memoria dell’amico morto, lo trasformò in un fiore dall’intenso colore rosso, come il sangue da lui versato (i giacinti possono essere di vari colori).

– – – – – – –

Nelle religioni animiste, politeiste, generalmente in tutte quelle non facenti capo a un Dio unico, il rapporto uomo-divinità-natura è assai più stretto che non in quelle monoteiste, soprattutto se ‘rivelate’. La ‘rivelazione’ infatti presuppone l’uso di un linguaggio che esprima –per lo più un linguaggio verbale– con tutti i limiti che tale esprimibilità comporta. Anche il mito si tramanda attraverso la parola, ma non è questo il suo linguaggio. Ipotesi: il linguaggio del mito è il mito stesso, il cui significato non è esprimibile in altro modo (seppure con altre parole). Così come si osserva nella musica.

domenica 19 dicembre 2010

L'epidemia (II)



Si manifestò in una cittadina ai piedi dei Pirenei con un topo trovato morto in un vicolo. Qualche giorno più tardi di topi morti o moribondi se ne trovavano dappertutto. La prima vittima umana si ebbe dopo dieci giorni, presto seguita da molte altre. Non c’era più dubbio: era la peste, anche se a quel tempo si dava questo nome genericamente a varie forme epidemiche. Leggere di più ...

Questa si manifestava con vomito e diarrea o anche con insopportabili cefalee, sangue nelle urine o difficoltà respiratorie. Quali che fossero i sintomi, la morte sopraggiungeva dopo una settimana al massimo. La gente era spaventata e correva in chiesa a chiedere aiuto al Signore. Visto però che l’aiuto non arrivava, pensò di rivolgersi ai gradi intermedi, lì rappresentati dal locale vescovo. Questi però era momentaneamente fuori sede, richiamato –si disse– dal Papa a Roma per urgenti comunicazioni. Al suo posto era rimasto un sostituto, un ometto più spaventato di tutti, che si dichiarava incompetente in fatto di epidemie. Intanto i cittadini continuavano a morire.

Tra questi c’era un giovane, particolarmente sveglio e buon osservatore. Si accorse infatti che molti topi avevano preso a nutrirsi di una certa erba che cresceva sui muri delle vecchie case. Ne catturò alcuni e constatò che, per quanto mostrassero anch’essi, ma più deboli, i sintomi del male, se nutriti con la stessa erba dopo qualche giorno erano guariti. Non solo, ma apparivano più aggressivi e mordaci di prima. Tentò allora un audace esperimento. Fece mordere dai topi un certo numero di malati a vari stadi di sviluppo del morbo. A eccezione di quelli terminali, gli altri si salvarono tutti. Qualche risultato, ma di gran lunga inferiore, l’ottenne anche facendo mangiare ai pazienti l’erba ricercata dai topi. Ne dedusse o che la sostanza benefica dovesse essere iniettata direttamente nel sangue (come accadeva attraverso i denti dei topi), o che fosse necessaria una sua elaborazione ad opera di un organismo animale. Fatto sta che cominciarono ad aversi delle guarigioni, di cui fui informato il vescovo. Temendo per il prestigio suo e della chiesa, costui fece arrestare il giovane che, minacciato di tortura, non ebbe difficoltà a dichiarare la complicità del diavolo, testimoniata dagli occhi rossi e dal ghigno satanico dei topi. Fu condannato al rogo, ma la notte prima dell’esecuzione si presentò a lui il vescovo in persona: “È un paio di giorni che ho un terribile mal di testa. Fammi mordere da uno dei tuoi topi e ti lascerò andare, con in più dieci luigi d’oro se prometti di sparire e di non farti più vedere”. Il giorno dopo si disse che il condannato era stato portato via dal diavolo. Al suo posto fu bruciato un fantoccio di paglia. I topi provvidero a diffondere la loro cura mordendo chiunque gli capitasse a tiro. Il giovane aprì una modernissima farmacia a Parigi.

La neve è arrivata ...

giovedì 16 dicembre 2010

Sante acrobazie


"Nella musica significato e significante non si dispongono su due versanti, distinti ma interconnessi, bensì abitano le stesse strutture e funzioni, abitano lo stesso discorso e in esso coincidono."
Boris Porena, Musica-Società, 206 [1975].

Non solo nella musica!!!

martedì 14 dicembre 2010

Passi da goliathus


Due maschi del genere Goliathus, del Congo (sinistra G regius, destra G orientalis)*, 
riposano solenni nella scatola A12 della collezione Porena

Passi da gigante, veramente, nel progetto di tutela della collezione di coleotteri di Boris. Anzitutto, una splendida spinta fotografica merito di Lucia, rivelatasi vera e propria beetlewoman - risulta stimolante remare nella stessa sua barca, perché assieme alla sua dedizione e intelligenza fotografica possiamo contare anche sulla sua continua emozione estetica davanti alle belle bestiacce. Grazie a lei, abbiamo già una prima descrizione fotografica di massima di due terzi delle 149 scatole d'esibizione.

Ma non ci siamo fermati lì. Per la totalità delle scatole, al macrolivello famiglie-tribù, abbiamo inventariato i contenuti e dato una rinfrescatina al loro posizionamento tassonomico, aggiornando la nomenclatura dove necessario. Sono cambiati un sacco di cose nell'entomologia, in questi ultimi anni! e non tutti a piacimento di Boris!

Finalmente, per un campione di una manciata di scatole abbiamo approfondito l'inventario fino al livello genere-specie, il ché ci ha servito per definire i criteri che seguiremo nell'esecuzione di questo inventario.

Prossimi passi:
- completare l'approfondimento dell'inventario per tutta la collezione, idealmente almeno a livello genere,
- riettichettare le scatole di esibizione con etichette stampate, aggiornate seguendo la nomenclatura ad oggi consolidata,
- avvalerci di una consulenza specializzata per chiarirci le idee con riguardo alla (piccola) frazione della collezione ancora sotto classifica incerta,
- fotografare (con una lente micro) una selezione degli esemplari più interessanti,
- completare gli archivi con note di campo riguardanti i tratti scientificamente più rilevanti dell'esemplare (data, situazione e circostanze della cattura, abitat ecc.),
- ...

L'obiettivo, al di là del divertimento personale e totalmente edonistico, consiste nel dare pieno valore scientifico a questa (modesta, a dire di Boris) collezione di paleocoleotterologia (eh sì, tanta roba contenuta qui dentro è ormai quasi estinta, o forse senza il quasi), e metterla quindi a disposizione dei ricercatori interessati, attraverso l'informazione che l'inventario potrà offrire.

Vi terremo informati ...

* Correzione alla determinazione gentilmente apportata da Massimo Raffaele (14.4.2014)

domenica 12 dicembre 2010

Chi può dirsi poeta?



Chi può dirsi poeta?
Chi si ferma a guardare una rosa, un sasso, un grumo di terra?
Chi ti parla di una rosa, un sasso, un grumo di terra?
Chi te ne parla in endecasillabi sciolti?
Chi te ne parla in rima?
Chi non te ne parla affatto ma punta il dito?
sulla rosa, sul sasso, sul grumo di terra?

Chi può dirsi poeta?
Chi è al suo quinto volume di versi?
Chi al suo primo verso, che però non gli è riuscito?
Chi di versi ne ha pensati tanti, scritti neppure uno?
Chi di versi ne ha pubblicati dieci libri, tutti vuoti?
Chi di versi ne ha pubblicati dieci libri, ma detesta la poesia
e a chi gli chiede perché, non sa rispondere?

Chi può dirsi poeta?
Un boia in pensione?
Un pentito di mafia?
Un macellaio che si è amputato una mano?
Una madre cui hanno seppellito il figlioletto?
Una prostituta che non rimedia più, o il protettore
che vuole scaricarla?

Forse chi è tutto questo e molto altro ancora, come
vi suggerisce la seguente

Leggere di più ...Parabola del poeta

Aveva una incredibile abilità di verseggiatore, sapeva comporre un intero poema stando ritto su un piede solo (l’iperbole non è nuova). Un versaiolo da strapazzo, diranno i lettori. E invece no! Trattava estemporaneamente in versi i più riottosi argomenti di fisica, dalla teoria della relatività al principio di indeterminazione e oltre, ai quark, alle stringhe, ai twistor. Argomentava in versi anche di logica, filosofia, teologia. I suoi versi d’amore commuovevano gli ascoltatori fino alle lacrime, quelli umoristici suscitavano incontenibile ilarità. Spesso gli venivano proposti gli argomenti più astrusi –come una volta sulla raccolta differenziata dei rifiuti– per mettere alla prova la sua bravura di poeta. E non poetava solo nella sua lingua madre, ma anche nelle principali lingue europee e in swahili.

Già si pensava di assegnarli il Nobel per la letteratura, quando un fatto inaspettato fece cambiare idea alla commissione. Si scoprì che non era lui l’autore degli incredibili versi, ma un computer di inaudita potenza, capace di assemblare in forme sintatticamente corrette (ancorché audacissime) espressioni tolte dai più diversi ambiti culturali e rigorosamente testate nella loro momentanea validità. Niente più che un gioco era poi la loro traduzione in versi e l’affidamento alla voce o alla scrittura umana.

Vinse sì il Nobel, ma per l’informatica, mentre fu abolito, nonostante qualche iniziale dissenso, il premio per la letteratura.

mercoledì 8 dicembre 2010

Zio cane ...

martedì 7 dicembre 2010

U-t-o-p-i-a


IMC e Utopia. L’orizzonte di IMC è utopico?
Se per orizzonte di IMC prendiamo UMC, questo non ha davvero carattere utopico. È peraltro vero che IMC –se la si accetta– rende possibile la costruzione di UCL con carattere di utopia. Sta a noi ricercarli o costruirli.
L’assenso generale alla democrazia dipende dal fatto che l’immagine mentale di essa ognuno se l’arrangia come gli pare. Di comune a tutte non c’è che la parola (Paola Bučan).
Possiamo aderire a un’utopia –per esempio all’idea comunista– senza sposarne le realizzazioni storiche.
Queste si coniugano con altri ingredienti… – che con l’utopia hanno poco a che fare. Può aderire all’utopia chi non a che fare con il potere, il guadagno, il vantaggio (Paola Bučan).
Dell’utopia mi interessa il processo non la realizzazione, il cammino non il punto di arrivo. Quest’ultimo, ovunque si trovi, non appartiene all’utopia (Paola Bučan).
La conoscenza come ‘processo’, come cammino verso … o anche come cammino da …
La conoscenza come utopia.

Da IMC, Libro II, Esercizi Speculativi, Boris Porena 1999

domenica 5 dicembre 2010

Riconosco, distinguo (ii)


Due giorni fa, la teoria. Oggi la pratica - con una delle esercitazione che ci piacciono di più ai bimbi. Scoprite scoprite (cliccandoci sopra, la si ingrandisce) il cervo che c'è in questo bel paesaggio. Qui la soluzione ...



Nella parte inferiore, leggermente sulla sinistra del centro, sporge la testina della creatura. Complimenti!

venerdì 3 dicembre 2010

Riconosco, distinguo


Pseudocreobotra wahlbergii, fotografata da Fred Turck

Il piacere del riconosco e del distinguo. Il piacere di un’attività mentale non finalizzata ad altro che al godimento di se stessa – ça existe.

Inquisizioni Musicali II - Musica-Società - Testi di inessenzialità, 70
Boris Porena [1975]

giovedì 2 dicembre 2010

Rompendo ... ehm, deconstruendo le scatole - Cerambycidae

Cosa viene fuori da una scatola chez Porena quando la deconstruiamo?





In questo caso, due tribù della famiglia delle Cerambycidae: quella delle Cerambicinae e quella delle Callichromatinae, con graziosi rappresentanti di entrambe.

[Crediti: immagini estratte da BioLib e musica da Porena stesso suonata da I Solisti Italiani]

Della fallibilità umana



Daje, daje, che stavamo diventando troppo seri ...

mercoledì 1 dicembre 2010

Epistole politiche, politiche epistole

Si trova vicina alla pubblicazione, curata da Edizione Van der Mispel (e grazie al contributo di un valente gruppo di amici, grazie Eva, grazie Letizia, grazie Oliver, grazie Francesco, forse dimentichiamo qualcuno), una nuova opera di Boris Porena, intitolata Epistole Politiche. Nel medesimo stile comunicativo delle Metaparole, Boris utilizza a modo suo la forma epistolare, dirigendosi politicamente, appunto, ad una serie di interlocutori probabili o improbabili.

I frequentatori di questo oblò hanno già avuto occasione di leggere qualcuna delle ben 85 epistole composte da Boris tra Maggio e Ottobre 2009.

Si raggruppano in una serie di argomenti, che potremmo distinguere approssimativamente così:

epistole ai prossimi (a Eva, ai cantalupani, a Carlo, Rinaldo e Roberto, a Ida, a Sergio, ad Angelo, a Miele, a Mario Verdone, a Enrico Migliaccio, a Zbigniew Kuligowski, a Pietro Cosimi), e anche ai prossimissimi (a Paola, ai genitori, a Thomas Sebastian –ben due, in momenti e da prospettive diversi–, a sé stesso, ai fratelli),

epistole ad attori politici della contemporaneità (al Partito Democratico, al Ministro della Pubblica Istruzione, a Michail Gorbaciov, a Enrico Berlinguer, all’America di Obama, alla Chiesa cattolica, alla democrazia, al 'muro' di Berlino, a Serge Latouche, ai fondamentalisti, al Sessantotto)

epistole dirette a ‘interlocutori’ in astratto (al pensiero matematico, al capitalismo, alla filosofia, alla pace, alla morale, all’arte, alla donna, al pensiero magico, al latino, a Gesù, a un mondo globalizzato, all’Homo sapiens, alla politica, alla logica)

epistole ai pensatori –soprattutto germanici– che con i frutti delle modalità di pensiero della loro predilezione hanno conformato al Porena che conosciamo (a Thomas Mann, a Bach, a Mozart, a Kafka, a Einstein, a Konrad Lorenz, a Beethoven, a Goethe, a Piero della Francesca, a Mahler, a Schönberg, a Dante, an Wittgenstein, an Wagner, an Nietzsche, a Bertolt Brecht, an Schubert, a Darwin, a Borges, a Strawinsky, a Haydn)

epistole alle questioni del proprio diletto (al Centro Metaculturale, a Rigobaldo, ai coleotteri, alla musica, all’operatore metaculturale, al suo armadio, alle avanguardie musicali, a Musica-società, ai ragazzi di Venezia, agli allievi di composizione, all'Ipotesi Metaculturale)

finalmente, epistole ad alcune tribù culturali (agli Africani, agli omo- e transessuali, agli italiani, alla Germania, alla Francia, ai 'normali', ai pedofili, agli psicologi e affini, all’Europa).

Naturalmente che esisterebbero altri modi di vederle – tante sono interpretabili da più punti di vista. Esercizio comunicativo di pensiero metaculturale, testimonianza politica di sé stesso e delle proprie relazioni col mondo, si collegano fortemente, a trentacinque anni di distanza, con uno dei primi scritti di Boris (al quale dedicano, come forse avrete notato, una epistola): niente meno che Musica-Società.

Chi le leggerà? Si cercano volontari … anche per continuare a scriverle.

sabato 27 novembre 2010

Musica e letteratura nell'opera di Thomas Mann


Thomas Mann con su familia en Nidden, 1931 (fotografia de Wikimedia)

Ieri abbiamo menzionato l'articolo di Boris del 1958 ... ma chi lo va a cercare in biblioteca, anche sapendo che è stato pubblicato in Letteratura, rivista di lettere e di arte contemporanea, N. 31-32, Anno VI, Gennaio Aprile 1958, pagine 42 a 53? Risolviamo il problema di brutto. Eccolo qua e buona lettura!


Se il moralista (questo termine in nulla si opponga a quello di artista) Thomas Mann accoglie con tanta larghezza e per di più riconosce, si vanta di accogliere nella sua prosa tanto dello spirito e della tecnica musicale, ciò avviene perché per Mann, ancor più che per Nietzsche, l’incontro con quest’arte è avvenuto proprio sul terreno dell’etica, è stato cioè l’incontro di un grande moralista con l’arte che egli considerava moralmente più ambigua o, più semplicemente, con l’arte che egli considerava più morale. Giacché morale è per Thomas Mann tutt’altro che virtù, non si identifica cioè con i valori moralmente positivi, ma comprende in sé ogni momento anche i loro contrari, vive anzi proprio di questa intima antitesi, i cui termini si confondono talora, ma non si fondono mai in quella sintesi che sarà riservata solamente al concetto di umanità, trascendente la stessa morale.

Che un’arte, non dico quella di un determinato artista, per la quale già una simile valutazione sembrerebbe, a lume di talune moderne tendenze filosofiche, non essere accettabile, ma che tutta un’arte, il concetto stesso di questa venga chiamato a giudizio dal tribunale della morale, può apparire anacronismo, roba da riforma e controriforma, o al massimo da ottocento romantico e reazionario.

Leggere di più ...A questo punto si potrebbe però osservare che, se nella sua indagine sulla crisi del mondo contemporaneo Thomas Mann ne indica costantemente l’origine in quel periodo della storia della cultura tedesca in cui la musica era realmente intesa volta per volta come una filosofia, come una forma della morale, come una espressione del Germanesimo, addirittura come una religione, ciò vuol dire che per lui le cose stanno assai diversamente. Se e vero che Thomas Mann fa assai spesso uso del concetto che della musica aveva elaborato il romanticismo tedesco, è anche vero che in quest’uso si rispecchia proprio l’atteggiamento critico dello scrittore. Più giusto che parlare della musica ‘come l’intende Thomas Mann’, sarebbe dunque parlare della musica ‘come Thomas Mann se ne serve’; ma, giacché solo quest’ultima ha per noi una realtà, mi si perdoni talvolta l’improprietà dell’espressione.

Comunque le considerazioni sui valori morali e positivi e negativi della musica vanno intese nell’opera di Thomas Mann soprattutto in relazione al significato simbolico, più generalmente umano che esse assumono, e non quindi secondo l’orizzonte un po’ ristretto di chi voglia vedere in queste considerazioni una sorta di intrusione del nebbioso mondo della morale nella limpida e cristallina sfera della contemplazione estetica. Anzi, quando ci si convinca finalmente a vedere anche nella filosofia null’altro che una forma di espressione del pensiero umano, valida in sé come espressione e non in rapporto ad una ipotetica verità assoluta, una filosofia sorella dell’arte, da cui si distingua solo per una maggiore accentuazione dell’aspetto speculativo dei problemi di fronte a quello contemplativo, quando infine si voglia includere nella storia del pensiero anche il pensiero degli artisti, e, reciprocamente, considerare anche il pensiero filosofico alla stregua di un’intuizione artistica, allora forse l’idea di un’arte che non viva in un inafferrabile quanto ozioso limbo, sulla cui natura nulla ci è dato di sapere all’infuori di ciò che esso non è, l’idea di un’arte che sia invece nella realtà e viva in una sintesi di tutto ciò che è umano, potrà avere una sua rinnovata attualità, apparirà anzi una necessità assoluta per la sopravvivenza, che altro non si oserebbe sperare, dell’arte stessa.

Più che con il pensiero di Schopenhauer, il quale aveva una grande fiducia nella funzione catartica dell’arte, l’atteggiamento moralistico di Mann nei riguardi della musica ricorda da vicino quello di Nietzsche; solo che Mann era forse di tanto più moralista di Nietzsche di quanto Nietzsche era più musicista di Mann. Durante la travagliata vita del poeta-filosofo dell’ultimo ottocento la musica, pur rimanendo sempre al centro della sua problematica, viene ora esaltata come l’arte suprema, liberatrice dello spirito, ora condannata come arte anticlassica, decadente, moralmente sospetta, e questo in un susseguirsi di alti e bassi, di difese e tradimenti, che lasciano intendere quanto poco anche per lui, Nietzsche, la musica vivesse confinata nel limbo dell’estetica. Egli divideva, del tutto nello spirito del suo tempo, una musica dell’Ethos (prima di Beethoven) da quella del Pathos (dopo Beethoven, raggiunge il suo culmine con Wagner). La prima rifletteva gli stati d’animo nella loro astratta genericità, la seconda i moti dell’animo, le passioni, nelle loro determinazioni individuali. Una vera problematica, una morale nella musica esiste già per Nietzsche in fin dei conti solo in questa seconda fase; e giustamente, perche solo con il Romanticismo questa problematica prende coscienza di sé, si pone come tale, in definitiva solo con esso comincia ad esistere.

Abbiamo già notato come anche per Thomas Mann la musica come problema coincida con la musica romantica; così anche per Mann la valutazione morale, ora positiva ora negativa, della musica segue le tappe della sua critica al Romanticismo tedesco, o, più generalmente, al Deutschtum. A differenza però di Nietzsche, quando Thomas Mann arriverà con il «Doktor Faustus», a tirare le somme della sua critica, non tenterà più di trovare una scappatoia alla musica, un Bizet da opporre ad Adrian Leverkühn, ma travolgerà tutto, musica, tradizione romantica e Deutschtum, nell’apocalittico incendio del suo ‘Crepuscolo degli dei’.

Fin dal suo primo apparire nell’opera di Mann, la musica sta nel segno dello spirito, incapace, nella sua aristocratica solitudine, di riconoscersi alla vita, è cioè l’espressione di quell’estremo raffinamento spirituale che accompagna ogni processo di decadenza. Nella storia dei Buddenbrooks la musica è legata al nome del piccolo Hanno, cui manca ormai ogni forza vitale, che sa di essere l’ultimo e vuole anche esserlo; e prima ancora alla sfuggente figura della madre di Hanno, Gerda, che è come il simbolo della sottile forza disgregatrice che agisce nella famiglia di Thomas Buddenbrook.

Ma spirito, si è detto, è incapacità di vivere; lo spirito si manifesta quindi nella vita come debolezza, come anormalità, come malattia. Così un altro elemento fondamentale, ambiguo forse ancor più dei precedenti, viene ad unirsi alla musica, o, ciò che è lo stesso, all’arte, in quel sistema di relazioni concettuali che forma la «kleine Welt» del giovane Thomas Mann. Oltre la malattia, anche l’elemento erotico ne è fin da principio parte integrante. Così in un punto della storia dei Buddenbrooks, quando il piccolo Hanno si trova a suonare davanti a tutta la famiglia la sua Fantasia per pianoforte con la cadenza finale alla Wagner: quella sottile e trepida voluttà che lo pervade nei pochi istanti in cui la tensione armonica raggiunge il suo culmine e Hanno riesce a prolungarla ancora di una frazione di secondo sul tremolo dell’accordo estremo... non ha forse un carattere tipicamente erotico, di un erotismo infantile, inconsapevole, che tende a risolversi in se stesso, come ciò che Felix Krull bambino chiamerà «die grosse Freude»?

Ma solo con la novella «Tristan» musica malattia ed erotismo si fondono in un unico clima decadentistico, da cui però Thomas Mann stesso rimane, non in ultimo grazie alla estrema sorvegliatezza del suo stile, criticamente distaccato. La funzione erotica che la musica del Tristano, del resto in pieno accordo con la sua natura, esercita sulla coppia Detlev Spinell - Gabriele Klöterjahn, o meglio la funzione di simbolo per il loro Eros, sembra già rivestire un carattere moralmente negativo. La musica è sì ancora e sempre dalla parte dello spirito contro la vita, ma qui anche lo spirito non viene risparmiato dalla pungente ironia di Mann, che in questa novella si compiace di colpire indistintamente ambedue le forze rivali, quasi con questa critica abbia voluto prepararsi il terreno per la sintesi futura.

Nelle «Betrachtungen eines Unpolitischen» Mann tenta, parallelamente alla grande battaglia di ritirata del Deutschtum di fronte alla politica e alla democrazia, anche l’ultima difesa dello spirito contro la vita; ma, proprio combattendo per quelle idee che lo avevano accompagnato durante tutto il suo sviluppo dalla prima gioventù fino alla maturità, egli giunge a superarle.
E la musica? È singolare come la musica non segua il destino dell’arte letteraria, ma rimanga tra le cose che Thomas Mann ha superato, o crede di aver superato, con le «Betrachtungen». Già in queste è detto: «Das Verhältnis der Musik zur Humanität ist so bei weitem lockerer, als das der Literatur, dass die musikalische Einstellung dem literarischen Tugendsinn mindestens als verdächtig erscheint»[1]. Ancora naturalmente l’animo dell’autore e per la musica, avverso al «literarischer Tugendsinn», per l’etica contro l’estetica, e infatti: «...ist sie (die Musik) nicht wirklich die eigentliche moralische Kunst, welche Kunst ist eben dadurch, dass die Moral in ihr zur Form wird, und die vorzugsweise der Deutsche von jeher ‚als eine Tugend und Religion’ getrieben hat — das deutsche ‘l’art pour l’art’?»[2] . Ma morale non è virtù: lo spirito non vuol aver nulla a che fare con la humanitas: «Geist ist vielleicht nichts als Hass und keineswegs Humanität, Solidarität, Fraternität»[3], l’arte nulla con la virtù: «... die Kunst steht mit der Tugend auf keinem guten Fuß»[4]. Solo alla luce della sua posteriore conversione ad un ideale di humanitas, queste e simili affermazioni si intendono nel loro preciso valore morale: la humanitas di Thomas Mann sarà le mille miglia distante dalla piatta retorica della virtù, quale egli la deride nel Zivilisationsliterat; sorgerà invece da una profonda e complessa esperienza morale che ha voluto accogliere anche e soprattutto ciò che e moralmente ambiguo o addirittura negativo. Ma il progressivo distacco dal mondo della musica, cioè del romanticismo, dell’intimismo tedesco, della decadenza, della nostalgia di morte, sembra essere per Mann più che un ripudio, una rinuncia in senso goethiano; e la forza moralmente positiva si rivela proprio in questa rinuncia.

Nello «Zauberberg» compare ancora la musica; ma, nonostante le bellissime osservazioni su singole opere musicali, l’arte dei suoni è messa chiaramente in rapporto con un mondo moralmente assai dubbio. Per l’illuminista Settembrini essa è: «... das halb Artikulierte, das Zweifelhafte, das Unverantwortliche, das Indifferente ...»[5]; e non suonano quasi un lontano preannuncio del «Faustus» queste parole di Settembrini: «Die Kunst ist sittlich, sofern sie weckt. Aber wie, wenn sie das Gegenteil tut? Wenn sie betäubt, einschläfert, der Aktivität und dem Fortschritt entgegenarbeitet? Auch das kann die Musik, auch auf die Wirkung der Opiate versteht sie sich aus dem Grunde. Eine teuflische Wirkung, meine Herren! Das Opiat ist vom Teufel, denn es schafft Dumpfsinn, Beharrung, Untätigkeit, knechtischen Stillstand ... Es ist etwas Bedenkliches um die Musik, meine Herren. Ich bleibe dabei, dass sie zweideutigen Wesens ist?»[6]

Certo la figura di Settembrini e derivata da quella dello Zivilisationsliterat delle «Betrachtungen», cioè dell’antagonista di Mann in quel periodo. Tuttavia gli anni che separano le «Betrachtungen» dall’apparizione dello «Zauberberg» hanno mutato l’atteggiamento di Mann verso il Zivilisationsliterat dall’avversione alla comprensione, dal sarcasmo all’ironia.

Così ora Thomas Mann non è più del tutto dalla parte della musica contro il Zivilisationsliterat. Egli comprende la sua antipatia per la musica perché ne comprende le cause. Ancora una volta Thomas Mann mostra la singolare tendenza a lasciare immutata la posizione reciproca degli oggetti della sua indagine critica, ma a spostare gradualmente il suo punto di vista lungo tutto un semicerchio, sino a fargli raggiungere il punto opposto a quello di partenza. La musica infatti, nonostante il giudizio morale su di essa sia già alquanto cambiato, rimane sempre legata ai concetti di romanticismo, di conservatorismo, di Deutschtum, alla Stimmung di malattia, decadenza e morte, in breve a tutto ciò che costituiva fin dall’epoca dei «Buddenbrooks» la «kleine Welt» del primo Mann. Il «Lindenbaum» di Schubert, di cui si parla più di una volta nell’ultima parte del libro, e si «eine Lebensfrucht», un frutto della vita, ma «vom Tode gezeugt und todesträchtig»[7]. Mann riconosce ora, e non lo avrebbe riconosciuto all’epoca dei «Buddenbrooks» e nemmeno delle «Betrachtungen», che la malattia, la decadenza e la morte, di cui in quel Lied è come il presentimento, debbono diventare oggetto di superamento, di «Selbstüberwindung». «Ja, Selbstüberwindung, das mochte wohl das Wesen der Überwindung dieser Liebe sein»[8]. Nella «Selbstüberwindung» Mann riconoscerà d’ora in poi la grande lezione morale di Nietzsche. Simbolo del mondo da superare è la musica, la musica romantica, qui un piccolo Lied di Schubert, altrove l’imponente opera di Richard Wagner. Thomas Mann non smentirà mai il suo amore per questo mondo; anzi, quanto più la sua coscienza glielo mostrerà nell’incerta luce del dubbio e anche il suo amore gli apparirà quasi una colpa, tanto più egli sentirà di essere legato ad esso, tanto più avvertirà la propria corresponsabilità, e così anche in quel tremendo atto di accusa che è il «Doktor Faustus» egli preferirà coinvolgervi se stesso, piuttosto che rinnegare quel mondo.

Nelle Storie di Giuseppe la musica non può trovar posto. Nonostante le ovvie ragioni storiche, si sarebbe tentati di porre in relazione questo con il fatto che nel Giuseppe Thomas Mann è forse meno moralista che altrove, giacché questa sua opera vive in una atmosfera di altissima umanità, al di là della stessa morale.

Ma quando, con incredibile trapasso, il clima tra apollineo ed ermetico, come distaccato dalla realtà storica contingente, del Giuseppe, si trasmuta in quello demoniaco e storicamente scottante del «Doktor Faustus», la musica e con essa il problema morale tornano a campeggiare sulle rovine di un ideale di umanità distrutto da un mondo incapace di intenderlo.
Lo spirito, che si era unito alla vita nella sublime sintesi intravveduta da Castorp e realizzata da Giuseppe e dal Goethe del «Lotte in Weimar», rinnega ancora una volta in un infinito peccato di superbia la sua compagna. Ma una negazione delle forze positive della vita può tramutarsi in una affermazione delle forze negative di essa: così si rende possibile il patto con il diavolo. La musica, che sta oggi sotto il segno dello spirito, è divenuta impossibile, è il simbolo della impossibilità di vita per lo spirito orgogliosamente chiuso in se stesso. Anche la musica per esistere ha bisogno di legarsi alle forze della vita.

Mann dà una sola soluzione: quella di Leverkühn. La musica di Leverkühn sta in un rapporto colpevole con la vita; è legata alle forze che la negano, alla morte; nascerà in collaborazione con il demonio. Adrian Leverkühn cerca la redenzione da questa sua colpa in una estrema intellettualizzazione della musica, nella sottomissione totale dei suoi mezzi di espressione al potere ordinante dell’intelletto. Ma quanto più egli confida nelle sole forze dello spirito, tanto più il suo legame con le potenze negative della vita si stringe. Il «Weheklag Doktor Fausti» sarà l’opera che, al di là della razionalizzazione integrale del suo linguaggio, avrà riconquistato la libertà dell’espressione; sarà il lamento di un uomo che ha finalmente realizzato il «Durchbruch», ma il «Durchbruch» verso la negazione, verso la morte, e fissa ora lo sguardo disperato nell’eterno nulla.

Che non sia Thomas Mann a vedere così il problema dei rapporti tra spirito e vita e dimostrato in primis dalla ben diversa soluzione datane nel Giuseppe e nel «Lotte in Weimar», in secondo luogo dal fatto che egli nel «Doktor Faustus» analizza proprio le conseguenze di un tal modo di vedere e non esita a condannare il suo protagonista. Ma, se l’analisi critica si rivolge di fatto a tutta la cultura tedesca romantica e postromantica, non appartiene forse Thomas Mann stesso a questa cultura? Non ha difeso egli, in tempi passati certo, ma con opere che sarebbero vissute bene a lungo oltre quei tempi, lo spirito, la musica, l’idealismo romantico, in una parola il Deutschtum? E tuttora, non è forse il Faustus un monumento, una celebrazione senza precedenti della problematicità tedesca, quand’anche sotto forma di accusa, anzi, proprio grazie a questa forma, anche un riconoscimento della natura profondamente morale (morale non e virtù) di questa civiltà? E Adrian stesso non ha forse molti caratteri comuni con Thomas Mann, tanti quanti ne ha il buon Zeitblom? Infine il libro stesso non ha in tutto e per tutto la forma estremamente intellettualizzata delle opere di Leverkühn? Non è Mann colpevole dello stesso egocentrismo?

Qui si rivela l’aspetto più profondo di Thomas Mann moralista: in questa tendenza a comprendere tra gli oggetti della sua analisi critica anche la propria opera e se stesso in una specie di pubblica resa dei conti, in un gesto di Ecce homo. Così il «Doktor Faustus» ha anche una sua funzione pedagogica: come nel Giuseppe l’umanità è raggiunta attraverso la chiarificazione del mondo dell’inconscio alla luce della ragione e della coscienza, così nel Faustus la salvezza, se salvezza ci può essere al di là di ogni speranza, si identifica proprio con la assoluta consapevolezza del peccato. Nel «Doktor Faustus» non vi è nichilismo, come talvolta e stato detto; i concetti di Dio, amore e grazia non vengono eliminati con frivoli sofismi, bensì sottoposti alla radicale critica del nostro tempo, della nostra cultura. È chiaro che una parte di questa critica è anche quella di Thomas Mann: ma le conseguenze di essa sono nella loro terribilità la migliore prova della sua colpevolezza di fronte alla morale e alla umanità. Il libro ci si presenta quindi anche come una severa critica all’ipercriticismo del nostro tempo.

Che la musica appartenga per sua natura in gran parte al regno dell’irrazionale, che cioè abbia in sé una forza che sfugge al controllo della ragione, è stato espresso più volte e in vari modi da Thomas Mann fin dall’epoca delle «Betrachtungen eines Unpolitischen». Ora la sua ambiguità viene per così dire oggettivata, da un lato nella completa razionalizzazione dei mezzi tecnici, dall’altro nella irrazionalità dei risultati espressivi, simboleggiata dal patto con il diavolo. Pur essendo più che mai la musica partecipe del mondo della morale, la valutazione morale di essa oscilla sempre più verso il polo negativo.
Adrian Leverkühn mostra fin da giovanissimo un critico disprezzo per il rapporto diretto che la musica ha con i sensi, per questo suo «calore vaccino», e invoca a raffreddarlo il potere ordinante della ragione. L’arte che sente i suoi legami con il sensibile come una colpa e che aspira a purgarsene in una ascetica spiritualità (la stessa vita di Leverkühn sarà quella di un asceta) è quindi ancora l’arte di cui è detto nelle «Betrachtungen» «dass die Moral in ihr zur Form wird», l’arte morale appunto perché sintesi di peccato e penitenza. In questa sintesi, così diversa da quella luminosa del Giuseppe, è un aspetto fondamentale del «Doktor Faustus».

Essa ci riporta ad un’epoca in cui i concetti di peccato e penitenza, merito e grazia, condanna e redenzione, paradiso e inferno. Dio e diavolo erano al centro del pensiero degli uomini e ne dirigevano le azioni. Non più il mondo mitico della Bibbia tanto lontano nel tempo da non aver quasi più un suo tempo, bensì il mondo relativamente recente del medioevo e della Riforma protestante, trasportato per giunta nell’epoca nostra, rivissuto alla luce dell’esperienza romantica e contemporanea. Il binomio musica e morale si trasforma qui, coerentemente al carattere trascendente del pensiero medioevale e luterano, in musica e teologia e anche nel suo contrario, musica e demonologia. Ma teologia e demonologia subiscono ora un processo di secolarizzazione, si direbbe di riassorbimento nella sfera dell’umano, sotto l’azione di quel fermento tutto moderno che è la psicologia. Eppure nel libro ben poco è rimasto del potere di redenzione che Thomas Mann aveva altre volte riconosciuto alla psicoanalisi di Freud. Come nel Giuseppe, così anche nel «Doktor Faustus», Mann scende profondamente nel mondo dell’inconscio: ma questa volta il tentativo di conquistare all’umanità quel mondo non porta alla salvezza, ma alla perdizione. Adrian è la controfigura di Giuseppe. Un nuovo mito viene creato ed interpretato ad un tempo: il mito dello spirito che nel suo sfrenato orgoglio vuole affermare se stesso oltre i limiti che separano l’umano dall’extraumano; il mito di un superuomo che per superbia rifiuta il concerto di grazia e di perdono e sfida l’eterna bontà a misurarsi con il suo incommensurabile peccato. Adrian Leverkühn giunge così sino a voler accentrare su di sè tutte le colpe del suo popolo e, ancor più, di tutta l’età sua. La figura mitica del capro espiatorio ha una sua nuova incarnazione: infatti Adrian ha molti tratti in comune con Gesù Cristo, quand’anché per il tramite di Nietzsche. Il «Durchbruch» di Adrian dalla solitudine dell’io all’umanità si compie proprio al momento in cui egli diviene pienamente consapevole di questa sua funzione mitica e prorompe in un lamento che è anche il lamento dell’umanità del suo tempo, del nostro tempo.

Nel libro assistiamo al confluire e al confondersi di valori moralmente positivi e valori moralmente negativi, sì che spesso gli uni trascolorano nei loro contrari ed alcuni concetti, come quelli di grazia e di tentazione, assumono un significato del tutto insolito, si direbbe opposto al loro significato abituale. Così anche la musica, che secondo Lutero era «Un dono di Dio, bello e generoso, affine alla teologia» e che ancora nelle «Betrachtungen eines Unpolitischen» è considerata, se non come un dono divino, tuttavia come una «espressione in suoni dell’etica protestante», nel «Doktor Faustus» è ormai vicina alla demonologia, è anzi legata in un patto metafisico con il diavolo.

Quando Adrian, abbandonata la via laterale della teologia, sta per darsi interamente alla musica, egli scrive all’amico e maestro Kretzschmar: «Sie halten mich für berufen zu dieser Kunst und geben mir zu verstehen, ‚dass der Schritt vom Wege’ zu ihr gar groß wäre. Mein Luthertum stimmt (monosillabo) dem dazu, denn es sieht in Theologie und Musik benachbarte, nahe verwandte Sphären, und persönlich ist mir obendrein die Musik immer als eine magische Verbindung aus Theologie und der so unterhaltenden Mathematik erschienen. Item, sie hat viel von dem Laborieren und insistenten betreiben der Alchimisten und Schwarzkünstler von echemals, das auch im Zeichen der Theologie stand, zugleich aber in dem der Emanzipation und Abtrünnigkeit, nicht vom Glauben, das war gar nicht möglich, sondern im Glauben; Abtrünnigkeit ist eine Art des Glaubens, und alles ist und geschieht in Gott, besonders auch der Abfall von ihm»[9].

Ho riportato per intero questo passo, perché lo considero estremamente indicativo per intendere i rapporti tra teologia, demonologia e musica, come si configurano nel «Doktor Faustus» di Thomas Mann. Di qui al patto con il diavolo non è che un passo. Le parole decisive sulla musica oramai non saranno più dette da Adrian stesso, ma dal suo diabolico interlocutore ed alter ego.

In che rapporti sta il diavolo con la musica? A metà circa del suo colloquio con Adrian in casa Manardi egli prende a parlare di problemi musicali, dapprima in veste di critico e teorico, analizzando con acume e conoscenza la odierna crisi del linguaggio musicale.. Ma ben presto egli scopre le carte: «Eine hochtheologische Angelegenheit, die Musik −wie die Sünde es ist, wie ich es bin ... Nein, musikalisch bin ich schon, lass das gut sein. Und da hab ich dir nun den armen Judas gesungen von wegen der Schwierigkeiten, in die, wie alles heut, die Musik geraten. Hätt ich es nicht tun sollen? Aber ich tat es doch nur, um dir anzuzeigen, dass du sie durchbrechen, dass du dich zur schwindlichten Bewunderung deiner selbst über sie erheben und Dinge machen sollst, dass dich das heilige Grauen davor ankommen soll»[10].

Ecco la promessa, la vera promessa del demonio: non il tempo, i ventiquattro anni, semplici e vuoti, ma un tempo infernale in cui egli, e il diavolo solo lo può, gli renderà possibile l’impossibile. La musica di Adrian nascerà dal faustiano patto con il diavolo. Ma il diavolo non è il signore della critica, per quanto dimostri di saperla esercitare assai bene, forse anche meglio di Mefistofele; egli è il signore dell’entusiasmo, dell’ebbrezza, della rinnovata barbarie, che è barbarie due volte perchè viene dopo l’estrema raffinatezza, una barbarie che s’intende di teologia, conosce la passione mistica, ha il gusto dell’avventura proibita, una barbarie che nasce da una cultura decaduta dal culto, che ha creduto poterlo rimpiazzare con il culto di se stessa ... Qual è la contropartita che il diavolo chiede, o meglio che ha già chiesto e ottenuto da Adrian Leverkühn? Naturalmente, secondo la buona tradizione, la sua anima. Ma il demonio è geloso, aggiunge al patto una clausola del tutto nuova e antitradizionale: Leverkühn non dovrà amare. Il perché di questa clausola: il patto è stato contrassegnato proprio da un atto di amore, non il sangue è stato il suo suggello, ma il sottile veleno di una malattia erotica. Tornano in questo particolare del patto altri due dei motivi fondamentali dell’opera di Mann: la malattia e l’erotismo, ancora una volta uniti alla musica. Così il microcosmo, la «kleine Welt» del giovane Mann è di nuovo al completo, ma sì presenta ora con una ricchezza di intrecci e di interrelazioni tra i suoi elementi, quale non era stata in alcun altra sua opera. Tutto il libro è una grandiosa ‘ripresa variata’, composta sotto la spinta di una straordinaria coscienza critica e autocritica; in particolare il discorso del diavolo è uno dei momenti più alti, per arte e per potenza di pensiero, di tutta l’opera manniana, raggiunto con una elaborazione nuovissima di motivi vecchi ormai di parecchi decenni.

Nel «Doktor Faustus» la musica è più che la sola espressione della intima tragedia di Leverkühn; essa è, o meglio la maniera come Adrian l’intende è il simbolo, l’essenza del suo peccato e del patto diabolico. Ogni altra rivelazione della demonicità di Leverkühn è in fin dei conti secondaria: così il destino di Ines, così la morte di Rudi, così la straziante fine del piccolo Echo. È vano rilevare la irrazionalità di certi rapporti tra i personaggi (in più punti del «Doktor Faustus», infatti, l’irrazionale affiora alla superficie, nonostante la severa razionalità della costruzione), giacché questi rapporti vanno considerati come una proiezione sul piano della realtà di ciò di cui la musica è la rappresentante sul piano del simbolo, quasi una sorta di esemplificazione. La musica è il vero peccato di Adrian, perche per essa egli ha rinnegato la sua umanità.

L’atteggiamento di Thomas Mann nei riguardi della musica è, come abbiamo visto, di natura più etica che estetica. E questo non solo nel periodo giovanile della sua produzione, ma anche al tempo del grande romanzo della vecchiaia. La straordinaria padronanza che egli ha della materia, la conoscenza precisa delle difficoltà intime tra le quali la musica conduce oggi la precaria sua vita, non impedisce che il suo interesse sia sempre rivolto ad una sfera di superiore umanità. Così, a loro volta, le verità morali ed umane che si fanno strada in una lotta difficile e quasi disperata attraverso tutto il libro, potrebbero essere di valido aiuto anche per la vita ulteriore, se non per la rinascita, della musica. Siamo infatti giunti ad un punto dove non è più possibile andare avanti con sole considerazioni estetiche. Oggigiorno un’arte che si perda nell’idea di un’estetica disinteressata e che quindi voglia vivere solo di se stessa e solo in se stessa, una tale arte soffocata da un’aria che essa stessa ha reso irrespirabile, è non solo moralmente ma anche fisicamente perduta. In un primo momento l’arte, conquistata con l’idealismo romantico la sua indipendenza, ha celebrato i suoi trionfi in un titanismo ingenuo e narcisistico. In seguito, occupandosi sempre più di se stessa e dei suoi problemi, e divenuta critica, ipercritica, ed ha perso la sua ingenuità. Il moderno Faust è Adrian Leverkühn, lo speculatore dello spirito.

Come potrà la critica ridiventare arte? Come potrà avvenire il «Durchbruch» dell’arte verso l’umanità? Mann ci dà una soluzione negativa: la musica di Adrian è «eine christliche Kunst mit negativem Vorzeichen», il suo rapporto con il mondo è la negazione di esso. Questa via conduce alla rovina, alla morte. È stata la soluzione data in politica dal nazismo ed è ancor oggi una soluzione accettata implicitamente da molti circoli artistici d’avanguardia. Il «Doktor Faustus» è l’atto di condanna per essa. Un’arte morale con il segno positivo non compare nel libro; ma, tenuissimamente, come la speranza oltre l’ultima nota del violoncello nell’opera disperata, risplende anche nel «Doktor Faustus» una luce: essa, nel momento in cui Adrian Leverkühn in tutto ciò che non ha fatto riconosce il futuro di un’arte riconquistata all’umanità, ci fa intravvedere per un attimo la via della liberazione e della salvezza. Lasciamo ancora una volta la parola al grande scrittore: «Die ganze Lebensstimmung der Kunst, glauben Sie mir, wird sich ändern, und zwar ins Heiter-Bescheidenere, − es ist unvermeidlich, und es ist ein Glück. Viel melancholische Ambition wird von ihr abfallen und eine neue Unschuld, ja Harmlosigkeit ihr Teil sein. Die Zukunft wird in ihr, sie selbst wird wieder in sich die Dienerin schon an einer Gemeinschaft, die weit mehr als ‚Bildung’ umfassen und Kultur nicht haben vielleicht aber eine sein wird. Wir stellen es uns nur mit Mühe vor, und doch wird es das geben und wird das Natürliche sein: eine Kunst ohne Leiden, seelisch gesund, unfeierlich, untraurig-zutraulich, eine Kunst mit der Menschheit auf du und du... » .


NOTE
[1] Betrachtungen eines Unpolitischen (S. Fischer Verlag, 1919) pag. l1. «Il rapporto della musica con la humanitas è tanto più labile di quello della letteratura, che la posizione della musica appare al letterario senso della virtù almeno come sospetta».
[2] Ib., pag. 308 «... non è essa (la musica) forse in verità l’arte più propriamente morale, che e arte appunto in quanto in essa la morale diventa forma, e che particolarmente il tedesco ha sempre praticato ‘quasi una virtù e una religione’: ‘l’art pour l’art’ dei tedeschi?».
[3] Ib. pag. 319. «Spirito non è forse altro che odio e per nulla affatto umanità, solidarietà, fraternità ».
[4] Ib.. pag. 395. «... l’arte non su in buoni rapporti con la virtù ».
[5] Der Zauberberg (S. Fischer Verlag, 1950). pag. 156. «... qualcosa dì semiarticolato, di dubbio, di irresponsabile, di indifferente ...».
[6] Ib,, pag. 158. «L’arte è morale in quanto sveglia. Ma come se essa fa il contrario? Se stordisce, addormenta, si oppone all’attività e al progresso? Anche questo sa fare la musica, anche degli effetti degli oppiacei essa s’intende in fondo. Un effetto diabolico, miei signori! L’oppio è del diavolo, perché genera ottusità, inerzia, inattività, immobilità servile... È qualcosa che dà da pensare, la musica, miei signori. Io rimango della mia opinione, che essa sia di natura equivoca».
[7] Ib., pag. 931. «Generato dalla morte e pregno di morte».
[8] Ib., pag. 931. «Sì, autosuperamento, questa era forse l’essenza del superamento di questo amore».
[9] Dottor Faustus (Suhrkamp Verlag 1947) pag. 208-209. «Lei mi ritiene chiamato a quest’arte e mi fa intendere che la deviazione non sarebbe poi tanto grande. Il mio luteranesimo è d’accordo con lei, poiché vede nella teologia e nella musica territori vicini e molto affini, e oltre a ciò la musica è sembrata sempre a me personalmente un’unione magica di teologia e di matematica divertente. Essa contiene inoltre una parte considerevole di quell’insistente sperimentare e indagare a cui si dedicavano gli alchimisti e i negromanti di una volta che pure stavano sotto le insegne della teologia, ma nello stesso tempo sotto quelle dell’emancipazione e dell’apostasia: era infatti apostasia, non già dalla fede, che sarebbe stato impossibile, ma nella fede. L’apostasia è un atto di fede e tutto è e accade in Dio, anche il distacco da lui» (Traduzione di Ervino Pocar).
[10] Ib. pag. 384-85. «Faccenda molto teologica, la musica, come lo è il peccato, come lo sono io ... Oh, in quanto a essere musicale, lo sono, sta’ pur tranquillo. Ecco, ora ti ho recitato la parte del povero Giuda, per via delle difficoltà nelle quali, come tutto il resto, è incappata oggi la musica. Non avrei forse dovuto farlo? Eppure l’ho fatto, soltanto per annunciarti che tu le devi infrangere, queste difficoltà, che devi sollevarti fino alla vertiginosa ammirazione di te stesso e comporre cose tali da suscitare in te un sacro orrore». (Traduzione di Ervino Pocar)

Ancora il Doktor Faustus

Gustav Mahler, fotografiado en la playa del Zuiderzee, cerca de Valkeveen, en los Países Bajos (marzo 1906)

Come ben sapete, Boris sente una enorme ammirazione per Thomas Mann e specialmente per il Doktor Faustus, al quale già dedicasse quasi sessanta anni fa la sua tesi di laurea (a proposito, qualcuno l'ha vista? diremo -non senza rubore- che è andata persa degli archivi Porena ormai un po' di anni fa).

Questo interesse poreniano continua a stimolare ricerche e studi. Il più recente, un articolo di Dario Peluso su
Testo e Senso, Il romanzo della musica: Arnold Schönberg e Gustav Mahler nel Doctor Faustus di Thomas Mann. Siccome Dario ha lavorato anche con Boris durante la sua ricerca, abbiamo pensato di lasciargli la parola, affinché lui stesso vi racconti come è andata la vicenda.

Su invito di Fernando proverò a raccontare come l'incontro con Boris abbia fortemente condizionato il mio modo di leggere l'opera di Thomas Mann e di ascoltare la musica di Gustav Mahler: rinuncio fin da subito ad essere sintetico, l'argomento merita un saggio a sé, quindi siate tolleranti per favore! Leggere di più ...
«“Il romanzo della musica”: Arnold Schönberg e Gustav Mahler nel Doctor Faustus di Thomas Mann» è un saggio uscito sulla rivista online Testoesenso.it nei primi di settembre, e a cui ho iniziato a lavorare qualche mese fa, nel periodo in cui frequentavo il corso di «Metodologia e storia della critica letteraria» tenuto dal prof. Raul Mordenti con la collaborazione della prof.ssa Elisabetta Orsini, persone affabili e decisamente molto pazienti, che mi hanno sostenuto durante tutto il periodo della stesura. È stata proprio la prof.ssa Orsini a passarmi «Musica e morale nell'opera di Thomas Mann», un saggio del 1958 in cui Boris affronta alcune questioni cruciali del Doktor Faustus in modo estremamente originale. Nelle linee generali lo scritto accetta la lettura, assai diffusa in quegli anni, secondo cui la vicenda di Adrian Leverkühn, il protagonista del romanzo, sarebbe paradigmatica del declino della Germania verso il nazismo e la barbarie, e rappresenterebbe il rifiuto delle avanguardie schönberghiane da parte di Thomas Mann; anche se la ritengo una lettura parzialmente inesatta, ciò non toglie nulla alla bontà delle singole intuizioni di Boris.

Innanzitutto, egli coglie (anticipando di almeno dieci anni l'importantissimo saggio Asor Rosa, Thomas Mann o dell'ambiguità borghese) l'attitudine manniana a rappresentare l'ambiguità della borghesia tedesca, riferimento morale dell'Ottocento europeo eppure allo stesso tempo assediata dall'incombente barbarie nazista: perciò, secondo Boris, l'incontro di Mann con la musica (romantica, aggiungo io), arte tedesca per eccellenza, è stato

«l'incontro di un grande moralista con l'arte che egli considerava più ambigua o, più semplicemente, con l'arte che egli considerava più morale. Giacchè morale è per Thomas Mann tutt'altro che virtù, non si identifica cioè con i valori moralmente positivi, ma comprende in sé ogni momento anche i loro contrari, vive anzi proprio di questa intima antitesi, i cui termini si confondono talora, ma non si fondono mai in quella sintesi che sarà riservata solamente al concetto di umanità, trascendente la stessa morale».

E ancora:
«Non è forse il Faustus un monumento, una celebrazione senza precedenti della problematicità tedesca, quand'anche sotto forma di accusa, anzi, proprio grazie a questa forma, anche un riconoscimento della natura profondamente morale (morale non è virtù) di questa civiltà?».

Con la Prima Guerra Mondiale il borghese -che per Mann rappresenta più di una categoria: la borghesia tedesca di fine Ottocento è lo spirito tedesco– ha varcato un confine invisibile, oltre il quale l'ambiguità inesorabilmente cristallizza, sterile, nell'ideologia.
Boris scrive dell'ultima opera di Leverkühn, la Lamentatio Doctoris Fausti:

«Sarà il lamento di un uomo che ha finalmente realizzato il “Durchbruch” [generalmente tradotto con «irruzione»], ma il “Durchbruch” verso la negazione, verso la morte, e fissa ora lo sguardo disperato nell'eterno nulla».

Eppure, riconosce un bagliore di speranza nel conclusivo sol dei violoncelli, nella Lamentatio, che apre a un «mondo di temerario sentimento nuovo». Ora, come avevo scoperto tempo prima, leggendo il Mahler di Adorno, questo sol è programmaticamente estratto da Mann dal finale della Settima di Mahler, e non è difficile notare una certa affinità tra l'ambiguità della musica mahleriana e l'atteggiamento manniano – lo stesso Thomas Mann espresse la sua ammirazione per l'arte del compositore viennese: quando andai a trovarlo a Cantalupo, Boris ammise sinceramente di non aver mai riflettuto su questa vicinanza spirituale tra Mann e Mahler di cui gli parlavo, inoltre era passato molto tempo e la tesi di laurea era andata perduta (per due volte..!), ma fu d'accordo con me nel constatarla e si rammaricò di non aver conosciuto la musica di Mahler al tempo in cui scriveva la tesi su Thomas Mann. Fu un grande incoraggiamento, che mi spronò a continuare su quella strada, e ritengo tuttora il saggio un lavoro efficace.

Un'ultima annotazione: oltre all'osservazione sull'ambiguità borghese, che non so se fosse originale o di seconda mano, un altro passo del saggio di Boris –forse anch'esso di seconda mano? - è confluito nel testo di Alberto Asor Rosa.

Scrive Boris:
«La musica di Adrian nascerà dal faustiano patto con il diavolo. Ma il diavolo non è il signore della critica, per quanto dimostri di saperla esercitare assai bene, forse anche meglio di Mefistofele; egli è il signore dell'entusiasmo, dell'ebbrezza, della rinnovata barbarie» (p. 51).

Scrive invece Alberto Asor Rosa:
«L'elemento demoniaco dell'arte moderna non consiste a suo avviso [di Thomas Mann] in un'accentuata predisposizione alla critica. La critica, per quanto corrosiva, è un prodotto dell'intelligenza umana e quindi un elemento solare, che porta con sé luce. Il Diavolo al contrario, dà quel sovrappiù di calore nell'ispirazione, ­ “la trionfante superiorità, la brillante mancanza di scrupoli”, senza il quale l'arte moderna non potrebbe mai trovare il coraggio d'uscire dalla sua nicchia silenziosa e di arrivare fino al punto di generare» (p. 151).

Dario Peluso, Novembre 2010

venerdì 26 novembre 2010

Come favorire un pensiero autonomo?


Una
Plathemis lydia perde per sempre la sua autonomia, ahilei, sotto la ferocia di una Trioria interrupta - sempre una meravigliosa fotografia di Thomas Shahan

I dubbi su cose che si pensavano risolte una volta per tutte rinascono per così dire a ogni passo. Così come l’altra volta quelli sulla democrazia. Ed eccomi ancora a chiedere il vostro parere sulla necessità di coniugare democrazia e autonomia del pensiero. È possibile l’una senza l’altra?

E come conservare questa autonomia nell’era del trionfo mediatico?

Siamo stati formati in tal senso a fronte dei continui attacchi mossi attraverso i media da gruppi di potere economico, politico, ideologico, religioso?

Chi dovrebbe favorire, se non garantire, lo sviluppo generalizzato di un pensiero autonomo, e come? Credo che il problema meriti qualche riflessione.

giovedì 25 novembre 2010

Non sono un politico né un giornalista

Due splendidisimme Cicindela Scutellaris, completamente incuranti della notizia, il gossip e Sanremo, si rifocillano autonome, allegre e colorate - immagine di Thomas Shahan, scattata a Oklahoma

Non sono un politico né un giornalista, tante cose quindi faccio fatica a capirle. Così per esempio sento quasi tutte le forze politiche rifarsi al concetto di democrazia senza mai chiedersi se, perché questa diventi effettiva, non siano necessari alcuni prerequisiti, come una –relativa– autonomia del pensiero individuale. E, ancora, se questa autonomia può sopravvivere nel nostro universo mediatico basato sulla notizia, il gossip, Sanremo. Che cosa significa il consenso, altra parola chiave della politica, quando a ottenerlo è sufficiente un Berlusconi?