giovedì 30 giugno 2011

Me fortunato


[128] Uno degli aspetti più fascinosi o, come si dice oggi, più 'intriganti' del bird watching è il fatto che certi uccelli, essendo migratori anche a grande distanza, te li ritrovi per esempio vicino casa, poi magari nel nord Europa. E non mi riferisco tanto ai comuni migratori, tipo rondini e rondoni, ma alle pavoncelle, ai nibbi bruni o agli svassi, che pur non essendo delle rarità, non sono in genere osservati dai profani. Ricordo in particolare questi ultimi, gli svassi (Podiceps cristatus), che mi erano noti per averli visti impegnati nei loro rituali nuziali sui piccoli laghi dello Schleswig-Holstein, poi a distanza di molti anni e kilometri, nonché in tutt’altro ambiente, sulla costa marina della costiera amalfitana. Non ho potuto fare a meno di riflettere –come il Leopardi del Passero solitario– a quanto somigliasse il suo costume al mio, italiano nostalgico delle brughiere nordiche quando mi trovavo in Italia, sognatore di paesaggi meridionali quando incontravo i miei svassi a Plön. Ma, me fortunato, non mi sentivo spinto a piangerci su, come spesso il grande poeta, ma ringraziare l’amabile uccello per aver riannodato qualche filo pendente della mia vita.

mercoledì 29 giugno 2011

La grande 101


[127] Da bambino ero appassionato di treni. Ne avevo anche uno, marca Märklin, con una locomotiva a vapore di modello francese, bellissima, potentissima, grigio chiara, lunga (col tender) 59 cm, ma nella realtà le preferivo la tedesca 101, tutta nera e della sagoma più tradizionale. È la locomotiva che tutti gli anni si portava me e mia madre ad Amburgo, dove passavamo i mesi estivi dalla nonna e dagli altri parenti tedeschi. Era per me il periodo più bello dell’anno, specialmente da quando –credo fosse il 1936– mia madre mi parcheggiava dagli zii in una villetta fuori città, mentre lei restava con la nonna in centro. Ma non è di questa vacanza che voglio parlarvi, bensì del viaggio in treno. La tratta italiana fino alla frontiera di Chiasso era elettrificata e per me di scarso interesse. Anche la parte svizzera, parimenti elettrificata mi interessava principalmente per il passaggio delle Alpi e il traforo del Gottardo. Il vero viaggio cominciava quando, a Basilea veniva sganciata la motrice elettrica e attaccata la grande 101, a vapore. Perché questa ingiusta preferenza (forse tutte le preferenze sono ingiuste) quando sapevo che le motrici elettriche sviluppano una potenza molto maggiore che non la locomotiva a vapore? Perché questa potenza non si faceva vedere, a trasmetterla c’era solo un inappariscente filo, mentre tutto nella locomotiva a vapore esprimeva forza incontenibile: dal fuoco al suo interno agli sbuffi di vapore provenienti dalla ciminiera e da tutte le commessure del corpo potente. E poi l’iniziale slittamento delle ruote prima di far presa sulle lucide rotaie e l’evidente sforzo del mostro per vincere l’inerzia della lunga fila di vagoni. Tutto questo era ben visibile ed era bello. Bellezza che nasceva dalla esteriorizzazione della funzionalità. Ce n’era abbastanza da affascinare i sensi di un bambino, come anche di un adulto futurista. Certo, anche le motrici spostavano i vagoni e li facevano correre molto più rapidamente, ma non lo davano a vedere, gelide e impassibili nello svolgere la loro funzione. Oltretutto si sapeva che non erano loro, le motrici, a produrre la forza ma da qualche parte un lontano torrente di montagna. Dubito che gente come Boccioni o Marinetti si sarebbero infiammati per la velocità se a produrla fossero state forze silenziose e occulte.
Ma non era solo la bellezza ‘funzionale’ della locomotiva 101 a eccitare la fantasia di un bambino appassionato di ferrovie, vi contribuivano tutto un contorno di fattori, come il piacere quasi sensuale del ritmico sobbalzo delle ruote sulle commessure dei binari, ogni tanto drammaticamente interrotto dal passaggio su uno scambio o un incrocio, o, più sottile e incisivo, del ‘canto’ delle ruote a una determinata velocità. Ero convinto che quel canto era possibile udirlo solo sulle ferrovie tedesche, in particolare nella Germania centro-settentrionale, una volta raggiunte le brughiere della Lüneburga Heida, alternate a boschi di aghifoglie su cui vedevo aleggiare con volo calmo e maestoso le poiane. Ovviamente, ci aggiungevo molto di mio, però non mi sentirei di escludere che su quel terreno, sabbio e compatto, anche le ruote di un normale treno a vapore potessero ‘cantare’. C’era molto di mitico in quelle sensazioni epidermiche che invano ho ricercato negli anni seguenti e che poi sono i sogni notturni hanno saputo restituirmi.

martedì 28 giugno 2011

Ridondanza


[126] Adesso che abbiamo dato via il pianoforte sotto il grande quadro (di Paola) delle "donne cosmiche", la parete restata vuota è stata riempita da un secondo quadro sullo stesso argomento, ma alquanto più piccolo, quasi uno studio preparatorio per il fratello maggiore. Mi sembra di aver notato, negli ospiti occasionali, ma soprattutto in me stesso, una maggior attrattiva esercitata dall’accoppiamento dei due quadri rispetto a quella di ogni singolo. Mi sono chiesto del perché di questo e la risposta che mi sono dato è: ridondanza. Ridondanza non solo del contenuto ma anche della forma. L’occhio e, per suo tramite, la mente sono portati a soffermarsi sia sulle analogie compositive che sulle differenze dell’uno come dell’altra. Ne consegue un tempo di osservazione più lungo, quindi una maggior consuetudine con le due opere, simili eppur così differenti tra loro. E la maggior consuetudine produce maggior conoscenza o amicizia come accade anche tra persone. Questa catena di effetti è d’altronde ben conosciuta, tant’è che su di essa si basa la pubblicità. La valutazione di un uomo politico si basa sulla ridondanza della sua immagine nei più diversi contesti assai più che sulla conoscenza di ciò che fa e pensa. Occorre un buon grado di autonomia mentale per non lasciarsi convincere da ciò che i mezzi di comunicazione di massa ci dicono e ci mostrano. E la scuola di tutto si occupa meno che dell’autonomia del pensiero.
È strano, ma caratteristico forse di questi postini che spesso imboccano una strada per poi proseguire su un’altra. Per esempio questo è iniziato con una considerazione su due quadri di Paola finendo poi con una scontata critica all’attuale capo di governo e un’altrettanto scontata lamentela sullo stato della scuola.

lunedì 27 giugno 2011

Per via rigorosamente razionale


[125] Ecco cosa succede a lasciare senza guida il pensiero, individuale o collettivo che sia: si finisce nell'astrazione misticheggiante. Questa potrà anche piacere, come piaceva al Wittgenstein del Tractatus, ma sono molti quelli che preferiscono un altro ‘stile di pensiero’. La cosa singolare è che al misticismo si perviene anche per via rigorosamente razionale come lo stesso Wittgenstein e molti altri prima di lui, tra i quali Pitagora, Keplero e lo stesso Newton hanno mostrato. Mentre è assai più difficile per quella via raggiungere la realtà, come vorrebbero –strano accoppiamento– Penrose e Benedetto XVI.

venerdì 24 giugno 2011

Capricciosi itinerari


[124] Il bello di questi postini è che non impegnano l'autore né sul piano formale, né su quello contenutistico, insomma mi lasciano libero di seguire i capricciosi itinerari della mente. Cioè sono io che li seguo, ma ‘io’ non sono la ‘mia mente’? Evidentemente no, perché un momento fa mi sono seduto a questo tavolo con l’intenzione di riflettere su ‘io e questi postini’ e invece mi trovo di nuovo alle prese col problema di sempre: “io e la mia mente, siamo o non siamo la stessa cosa?” Non credo che sia un problema solo per me, quindi lo affido anche a uno di questi postini, rimandando a un altro la riflessione sui postini stessi.
Siamo o non siamo la nostra mente? Si e no: sì in quanto non saprei immaginare qualcos’altro che lo fosse, né perché; sono io a guidarla o a esserne guidato, vuol dire che non siamo la stessa cosa. Il cavallo e il cavaliere non coincidono anche se vanno nella stessa direzione. Ma se dell’uno facciamo un due è facile che un due diventi un quattro e poi un otto e l’io vada in briciole. “Poco male –dirà qualcuno– visti i disastri che produce…”. Con l’io –dirà qualcun altro– scomparirebbe però la vita cosciente e forse la vita stessa, privata così del suo fattore evolutivo”. Appena abbandoniamo l’unicità dell’uno-tutto parmenideo, cadiamo nella pluralità innumerabile dell’atomismo o dell’insiemistica (gli insiemi ricavabili da un insieme sono sempre più numerosi degli elementi che lo compongono).
Scegliamo quindi una delle due opzioni, ‘io e mente coincidono’ –l’altra (‘io e mente non coincidono’) l’abbiamo di fatto già discusa–, e inseguiamone le conseguenze.
Se il nostro io altro non è che la nostra mente, tutto ciò che la mente fa e pensa lo ritroviamo riflessivamente in noi, anzi, più precisamente, è parte inseparabile di noi stesso. Noi siamo ciò che facciamo e pensiamo. Molto di ciò che facciamo en pensiamo, ci viene però dall’esterno –di questo siamo coscienti–; ora però è nostro e interessa solo gli storici del pensiero rintracciarne le origini. In altre parole la mente è come un buco nero: trattiene tutto ciò che riceve, compreso l’io che riceve della riflessione. Una minima parte ‘evapora’, cioè si perde per alimentare, forse un’altra mente. Il grosso si accumula però a formare l’immensa riserva del ‘pensiero umano’.

giovedì 23 giugno 2011

Amicizia (II)

Bilinguismo

mercoledì 22 giugno 2011

Un punto nel tempo e nello spazio


[123] Molti indizi ci riportano al passato.
È inusuale parlare di indizi riferendoci a un passato ben conosciuto perché noi stessi l'abbiamo vissuto.
Ma che cosa abbiamo vissuto? Quale passato? Il nostro. Ma il nostro esaurisce tutti i passati? E, se non è così, chi ci garantisce che il nostro assomigli, seppure alla lontana, con un qualsiasi altro. Alcune azioni le compiamo tutti quotidianamente, ma non è a questo che ci riferiamo quando parliamo di un tempo per noi significativo, sia esso passato, presente o futuro. Anzi, il tempo è per noi nient’altro che un indicatore, e ciò che indica e per noi conta, è un evento, un fatto, un’esperienza che fa di un punto nel tempo –e nello spazio– appunto un indicatore. Tutti i punti dello spazio-tempo sono potenzialmente degli indicatori, ma ciò non li distinguerebbe gli uni dagli altri se non fosse per l’evento di cui li abbiamo detto indicatori. La loro intrinseca natura temporale resta per noi insignificante finché non interviene la funzione indicatrice che dall’evento, non dal tempo riceve il suo significato. Di più, è l’evento che investe del suo significato anche il tempo. Senza il riempimento dell’evento il tempo non sarebbe. Perché parlarne allora come se fosse lui a dare presenzialità alle cose?

lunedì 20 giugno 2011

Corsi e ricorsi


[122] Ieri pomeriggio ho ricevuto la visita di un giovane musicista in procinto di dare l'esame di maturità, per la cui prova libera aveva scelto come argomento gli anni Settanta. Lui intendeva specificatamente la musica d’avanguardia di quegli anni, e per prima cosa mi ha chiesto degli Area e di John Cage. Quanto agli Area, non ho saputo ovviamente dirgli nulla, non avendoli mai sentiti –credo che la cosa abbia scosso, e non di poco, la mia credibilità; quanto a John Cage sono stato io a meravigliarmi che lui lo conoscesse. Evidentemente i nostri UCL erano meno lontani di quanto immaginassi. Ho provato con Strawinsky: sì, un altro punto di contatto; risposta negativa invece con Hindemith e Luigi Nono. La conversazione si è allontanata poi dal terreno musicale volgendo verso il politico, il sociale. Sono così riaffiorati vecchi stereotipi come gli opposti estremismi, gli anni di piombo, stereotipi figli anch’essi di un clima ideologico non meno sclerificato di quello che con quegli slogans si intendeva condannare. Qui tuttavia il mio giovane ospite sembrava più informato, segno che la scuola aveva affrontato in qualche modo questi temi, più invero come nozioni di storia che nella loro perdurante attualità.
Dagli anni Settanta a oggi sono passati dai tre ai quattro decenni che per me e per un ragazzo non ancora ventenne hanno un sapore profondamente diverso: di perdurante attualità e di archiviazione nei polverosi scaffali di un passato irrecuperabile. Il mio interlocutore che invece, a quanto pare, era interessato al recupero di quegli anni, ha cercato, per questo suo interesse un fondamento filosofico plausibile citando una formula di più antica data: i corsi e ricorsi della storia. Negli ultimi secoli i temi tra un corso e un ricorso storico si sono andati esponenzialmente accorciando: il Rinascimento ha ripreso la classicità a quasi due millenni di distanza; il Neoclassicismo sette-ottocentesco ha aspettato meno di quattro secoli per ripresentarsi; quello novecentesco sì e no un secolo. Di lì in poi le varie correnti corrono parallelamente l’una all’altra ed è come se la storia convivesse con se stessa in vari strati di contemporaneità. Gli anni Settanta sono, possono essere ancora i nostri, così come i decenni, i secoli, i millenni che ci hanno preceduto. Il tempo, siamo noi a costruirlo, sta a noi decostruirlo. A questo servono il pensiero, l’arte.

sabato 18 giugno 2011

Kovancina


[120] Ieri sera ho visto alla televisione la Kovancina. Non la conoscevo mentre si può dire da sempre conosco e amo il Boris nelle sue varie versioni. A un primo ascolto non posso dire che la Kovancina mi abbia colpito con la forza del Boris. Forse il proposito dell’autore non era quello di sconvolgere l’ascoltatore con la singolarità di una tragedia che, pur riflettendosi in una dimensione sovraindividuale, resta pure sempre la tragedia di un individuo condannato dal suo stesso potere. Nella Kovancina è la tragedia impersonale di un popolo o, se si vuole, dell’intera umanità privata dalla sua autonomia decisionale e tradita dalla sua stessa fede. Non so se il parallelismo grammaticale qui istituito tra potere e fede sia analiticamente corretto. Conosco troppo poco la Kovancina e il suo retroterra politico-culturale per difendere un’interpretazione costruita su un semplice ascolto e la lettura dei sottotioli apparsi sul display. Vorrei tuttavia aggiungere qualche riflessione da musicista –quale sono– senza però pretendere maggiore credibilità data le mie difficoltà auditive e la mia abituale lentezza nell’afferrare l’inconsueto.
Nei confronti dell’opera sorella ho percepito una minor caratterizzazione degli episodi, nulla per esempio di paragonabile all’incisività della scena dell’incoronazione o a quella dell’allucinazione nel Boris e neppure allo scontro tra l’innocenza infantile e la colpevolezza della condizione adulta. La tenuta stilistica ed espressiva della Kovancina sembra rispondere a un diverso progetto compositivo, per così dire orizzontale, egalitario. Il ruolo del recitativo, a metà strada tra la ritualità del canto ortodosso e una melodicità ariosa unifica di fatto i personaggi e i molti interventi corali pur mantenendo una variabilità e una duttilità che ritroveremo più tardi sul Pelléas et Mélisende.
Ancora più accentrata che nell’opera precedente ritroviamo qui il rifiuto pressoché totale della piacevolezza delle tradizionali forme chiuse come anche del potere unificante del Leitmotiv wagneriano. Se qualche affinità è riscontrabile, è piuttosto col Verdi della maturità, a cominciare dal singolare parallelismo, forse casuale tra la scena di predizione sulla Kovancina e nel Ballo in maschera.

venerdì 17 giugno 2011

Qualcuno finirà per dare l’allarme


[120] Le mosche ieri pomeriggio hanno invaso la mia stanza –ne ho contate più di una cinquantina– non hanno niente a che fare, né nell'aspetto né nel comportamento, con la mosca domestica, nostra abituale quanto indesiderata compagna di un tempo. Sono anni che osservo la progressiva sostituzione delle due specie, ma finora non ho letto nulla in proposito. Non sono un buon conoscitore di ditteri, quindi non so pronunciarmi in proposito. Può darsi si tratti di un normale avvicendamento tra specie dominanti localmente o di un sintomo più significativo concernente a cambiamenti climatici. Qualche cosa di simile lo si può osservare anche tra le varie specie di zanzare, alcune delle quali, come la ben nota Culex pipiens, sembra oggi in calo a fronte di altre, come la cosiddetta zanzara-tigre, dalle abitudini diverse.
Di questi cambiamenti alla fauna entomologica non ci rendiamo conto, neppure quando, come sta accadendo, riguarda la sparizione dell’intera classe degli insetti. Forse il giorno in cui a sparire sarà la specie homo sapiens, qualcuno finirà per dare l’allarme. Mosche e zanzare l’avevano dato quando si era ancora in tempo.

giovedì 16 giugno 2011

Un oggetto non localizzabile?


[119] Anche i Greci erano molto diffidenti del concetto di infinito, che viceversa è stato accolto con disinvoltura dalla cultura cristiana e da molte altre senza badare alla svalutazione, anzi nullificazione che ne deriva per molti altri concetti essenziali della nostra esistenza.
Anzitutto la localizzabilità nel tempo e nello spazio. Un luogo fluttuante in un tempo-spazio infinito è per definizione un non luogo (u-topia); e non ha senso parlarne. Ma un oggetto non localizzabile –per principio e non per insufficienza tecnica– non ha senso affermare che esista, sempre che alle parole e ai concetti che vi si collegano vogliamo attribuire un senso (cioè ci servano per comunicare).
L’esistenza non potrebbe però essere immateriale, non dotata di altra realtà che mentale? Così i numeri, compresi gli infiniti non sarebbero localizzabili (come invece voleva Platone), ma solo pensabili… Tutto bene, se concordiamo che il pensiero o non ha una sua realtà o ne ha una molto diversa da una sedia. Abbiamo allora più di un tipo –forse infiniti– di realtà
È ingeneroso comunque pretendere da uno di questi postini delle risposte a questo genere di quesiti. Chiedete ad altri, meglio se a voi stessi…

mercoledì 15 giugno 2011

Sognare che stiamo sognando


[118] È un'esperienza che credo tutti abbiamo fatto, quella di sognare che stiamo sognando e che, anche per svegliarci, dobbiamo farlo in due tappe. È come se vivessimo in tre universi paralleli e per raggiungere il pieno stato di veglia avessimo bisogno di due discontinuità, l’una per passare dal sogno sognato alla veglia sognata, l’altra da questa a quella percepita come reale. Ma chi ci garantisce che lo sia e che il numero degli stati onirici non sia maggiore e non comprenda anche lo stato di veglia? Mi sembra di averne parlato già in un altro postino, o forse l’ho solo sognato.
La ricorsività –come la riflessività in IMC– tende all’infinito, se non interviene un più o meno arbitrario arresto. Così riteniamo infinita la serie dei numeri naturali, anche se nessuno lo ha mai dimostrato. A meno che per dimostrare non s’intenda l’iterabilità di un’operazione come +1, iter abilità che viene tuttavia presupposta, annullando così il valore dimostrativo dell’operazione.

martedì 14 giugno 2011

... un potenziale nemico...


[117] Nel numero precedente ho abbozzato un improbabile itinerario di ricerca per cui ritengo che non ci siano da nessuna parte i presupposti attuativi. La parificazione tra le culture, premessa indispensabile per una corretta analisi metaculturale non è allo stato attuale neppure pensabile. Semmai sarebbe proprio l’attuazione di quel programma a rendere possibile la parificazione come conseguenza del momento riflessivo che esso comporta. Ma l’interesse del singolo come della comunità va in tutt’altra direzione che quella del riconoscimento reciproco. Il diverso continua a essere percepito come un potenziale nemico, se non come un inferiore da sfruttare. E anche se ci si rivolge a lui con comprensione, è sempre la comprensione di chi sta più in alto e pensa di doverla al suo vicino meno fortunato. Il punto di vista metaculturale presuppone invece una già avvenuta equiparazione e la promozione di quel punto di vista attraverso la rivisitazione suggerita dal nostro utopico programma potrebbe agire retroattivamente dandolo per acquisito.

lunedì 13 giugno 2011

La revisitazione meta della cultura umana

Illustrazione dell’Enciclopedia di Diderot - d'Alembert

[116] Programma per i prossimi cento anni. Quasi una riproposizione dell’Enciclopedia di Diderot - d'Alembert in chiave metaculturale.
Scopo: promuovere la reciproca conoscenza e stima tra le culture opportunamente relativizzate, soprattutto la nostra.
L’opera dovrebbe comprendere varie decine di volumi (forse centinaia) ed essere affidata a équipes di specialisti preparati per una trattazione metaculturale. Questa dovrebbe strutturarsi come un ipertesto su almeno tre dimensioni (o gruppi di dimensioni) tra loro ortogonali: l’una cronologica, la seconda geografica, la terza tipologica ( in versione cartacea si ricorrerà a un sistema di link). Verranno considerate anche le varianti locali e le ‘modulazioni’ tra tipi culturali diversi. Le trattazioni delle varie culture seguiranno anche itinerari fin dove possibile paralleli per facilitare il riconoscimento di analogie e differenze. Verrà evitato qualsiasi giudizio di valore ma non si cadrà neppure nel puro e semplice descrittivismo.

domenica 12 giugno 2011

Feldenkrais e IMC


[115] Non ricordo se in questi postini ho già parlato del metodo Feldenkrais, nel quale mi sto esercitando sotto la guida di Valentina. Penso, pensiamo che potrebbe essere interessante, utile forse tentare una ‘modulazione culturale’ tra il Feldenkrais e IMC. Di primo acchito non se ne vede l’affinità, il primo sostanzialmente un modello di fisioterapia, l’altra un’ipotesi cognitiva, tutt’al più un atteggiamento mentale. Durante il lavoro tuttavia questa affinità è apparsa con crescente evidenza, al punto che vorrei proporre al Centro Metaculturale lo studio di un’integrazione tra le due attività, anche a fini formativi.

IMC si occupa della mente, il Feldenkrais del corpo, ma attraverso la consapevolezza mentale indotta dal corpo. È come se anche il corpo pensasse, come se mente e corpo fossero una cosa sola, cosa che di fatto è, se consideriamo la corporeità del cervello, diversa da quella dello stomaco solo per la funzione esercitata ai fini della sopravvivenza.

Ecco alcune affinità riscontrate durante la pratica:
• la scomposizione analitica del movimento (del pensiero),
• la sua successiva ricomposizione (sintesi),
• la ricerca di un livello di scomposizione ‘elementare’,
• la relatività del concetto di ‘elementare’,
• il minimo dispendio di energia a parità di risultato,
• la razionalizzazione del movimento,
• la conquista propriocettiva di questa razionalizzazione,
• la reversibilità dell’abitudine,
• la ricerca delle alternative,
• l’apprendimento attraverso la sperimentazione,
• l’autonomia della scelta,
• l’apertura al diverso,
• la disponibilità alla relativizzazione del sapere,
• la ricerca dell’equilibrio,
• la valorizzazione degli squilibri,
• la critica al concetto di autorità,
• la responsabilizzazione dell’individuo,
• la relativizzazione della sua cultura.

sabato 11 giugno 2011

Parabola


[114] L'ape era incappata nella tela di un grosso ragno e, più si dimenava, più i fili le si appiccicavano addosso, ma anche maggiore era il danno per la tela. Per limitare questo danno il ragno propose all'ape:
“Se la smetti di agitarti, in un attimo ti libererò. Devi però promettermi di non far uso del tuo pungiglione.” L’ape promise e il ragno si avvicino come per strappare i fili che la tenevano prigioniera. Ma l’ape, credendosi più furba, non appena il ragno le capitò a tiro sguainò la sua arma, finendo così i suoi giorni appesa alla rete di un morto.

venerdì 10 giugno 2011

Legittima difesa

[113]
Distinguere offesa da difesa!
Se la difesa offende, è pur legittima
perché così la vuol chi si difende

(antico madrigale)

Anche il Führer fece invadere la Polonia per legittima difesa. E così Bush l’Iraq. E chiunque, sempre per legittima difesa, potrà rompere il naso al vicino di casa, che potrebbe voler rompere il suo.

giovedì 9 giugno 2011

Che cosa intendiamo per violenza?


[112] Che cosa intendiamo per violenza?
Un leopardo che sgozza una gazzella?
Un leone che atterra un bufalo?
Un branco di leoni che assale un bufalo?
Un gatto che mangia un topo?
Un cervo che atterra un rivale?
Un uccello che lotta per il territorio?
Un lupo che lotta per il predominio nel branco?
Una femmina di mantide che divora il maschio dopo o durante l’accoppiamento?
Una vespa che paralizza un bruco per farlo mangiare vivo dalla sua prole?
Un ragno che immobilizza una mosca nella sua rete?
Un parassita che invade il corpo della sua vittima?
Una popolazione di formiche che ne soggioga un’altra?
Una specie animale che ne soppianta un’altra?
L’assalto di un gruppo di umani a un gruppo rivale?
Una guerra di conquista?
Una guerra di liberazione?
Una legittima difesa?

mercoledì 8 giugno 2011

Senescenza



[111] Spesso le parole si impongono –a chi scrive e parla– come per forza propria, senza che noi le scegliamo ma neppure che ci siano abituali. Così recentemente, nello scrivere La relazione d'aiuto, mi si è imposta la parola 'senescenza', che probabilmente non avevo mai usata. Perché? Non avrei potuto scrivere ‘invecchiamento’, ‘declino’, ‘indebolimento’, ‘tramonto’?

martedì 7 giugno 2011

Allsympathie


[110] Ogni mattina, se il tempo lo permette –ma quest'anno è piuttosto restio-, mentre faccio colazione sul terrazzino del soggiorno, osservo una coppia di lucertole sul tronco screpolato della vecchia robinia di fronte alla casa. Ma perché dico ‘coppia’ e non semplicemente ‘due lucertole’? Che indizi ho che formino una coppia?
Piccolette tutte e due, l’una è però meno piccola dell’altra. Che sia il maschio?
Per ora sembrano ignorarsi, anche perché tra le due ci corrono almeno un paio di metri di superficie irregolare da cui spuntano qua e là dei ramoscelli che certamente impediscono la vista alle lucertole. Inoltre queste si muovono con circospezione ma senza una direzione precisa, ogni tanto ritornando sui propri passi senza apparente ragione, ora restando immobili per qualche minuto. Ecco che si avvicinano… ma no… l’una si allontana e l’altra non sembra interessarsene. Poi, d’improvviso, uno scatto: quella più grande –il maschio?– si getta sulla più piccola, la scavalca e prosegue la sua corsa dietro di lei, come se neppure si fosse accorto di averle camminato sopra; e neanche l’altra di esser stata brutalmente calpestata. Il gioco –se di gioco si tratta– prosegue per una mezza oretta. Sto per alzarmi e andar via, quando mi accorgo che l’una ha azzannato l’altra alla base della coda e la sta strattonando come per staccargliela. Un brivido percorre il corpo della malcapitata – e se fosse un brivido di piacere? La coda resiste, l’assalitrice abbandona la presa. “Ora è il momento di mettersi in salvo in una crepa della corteccia” pensa, ma l’azzannata la pensa diversamente e non si muove. Un secondo assalto è diretto un poco più in alto, circa a metà corpo. Il brivido si ripete, ma molto più intenso. Le zampe si staccano dal supporto e le due lucertole cadono nell’erba sottostante, dove un fulmineo inseguimento le fa sparire ai miei occhi.
I sauri sono certo filogeneticamente assai lontani da noi. Le pratiche sessuali ce li avvicinano però notevolmente. Per un attimo ho immaginato la voluttà di azzannare il partner alla base della coda.
- - - - -
Ha senso paragonare le sensazioni di una lucertola alle nostre? Delle sue non sappiamo nulla, mentre le nostre le conosciamo di prima persona.
Ma è proprio vero che delle sue non conosciamo nulla? Noi e le lucertole non ci parliamo da molti milioni di anni, eppure il brivido della lucertola azzannata come anche l’impeto dell’azzannatrice mi è sembrato di capirli molto bene, meglio che se ce li avvessero descritte. Forse non è la parola lo strumento principe della comunicazione, forse è la ‘simpatia universale’
Allsympathie.

domenica 5 giugno 2011

Un posto al tavolo della vita


[109] "Largo ai giovani!! Si sente spesso ripetere, anche da coloro che non hanno nessuna intenzione di farsi da parte. E perché dovrebbero? E chi allora dovrebbe? Coloro che hanno speso una vita per guadagnarsi un posto al tavolo della vita? Che espressione insopportabilmente retorica!
Quanti, che hanno speso la loro vita a un posto del genere non l’hanno mai ottenuto!
Forse la retorica sta proprio nel pensare che esista qualcosa come un ‘diritto alla vita’, per giunta con un contorno di altri diritti che ci sarebbero connaturati come braccia e gamba. L’idea stessa di ‘diritto naturale’, che ci spetterebbe solo per la circostanza di essere nati, non trova riscontro in nessun fatto di natura, dove la stragrande maggioranza degli individui serve solo per nutrirne degli altri.
E allora? Vuol dire che non esistono diritti?
Forse, più che ‘esserci’, i diritti siamo noi a fabbricarli, e allora cerchiamo di fabbricarli in modo che garantiscano lo spazio necessario alla vita di tutti noi, cosa che le attuali ‘tavole dei diritti umani’ sono ben lontane dal fare.

sabato 4 giugno 2011

Amicizia

venerdì 3 giugno 2011

Un poco di pazienza


[108] Un altro vantaggio dell'invecchiamento: cala il debito che abbiamo con la vita. Qualunque cosa ci abbia dato o tolto, poco resta che possa ancora pretendere, e ciò che resta è interamente nostro: per esempio la vita vissuta, nella misura in cui ci piace ricordarla. E se della vita vissuta non ci piacesse ricordare nulla? Basterebbe avere un poco di pazienza.

giovedì 2 giugno 2011

La mente ci guadagna sempre...


[107] Non c'è dubbio che invecchiando si perdono molte facoltà fisiche e mentali. Tra queste la memoria, in particolare quella a breve termine. Se poi anche in giovane età la memoria è stata debole, da vecchi è un vero disastro: si dimenticano cose programmate due minuti prima, anche quelle che si pensavano saldamente ancorate ad artifici mnestici di comprovata efficacia, dal nodo al fazzoletto agli abbinamenti con esperienze della quotidianità. Capita però che assieme alla cosa da ricordare sparisca dalla memoria anche quella che avrebbe dovuto ricordarcela. La perdita non è tuttavia sempre un fatto negativo. Così per esempio una seduta dal dentista può essere utile dimenticarla, specie se se ne prevedono delle altre. Inoltre ogni cosa che esce dalla memoria lascia il posto libero per un’altra da ricordare, e il cervello resta in azione quanto più spazio ha ancora da occupare. Noi uomini abbiamo inoltre il vantaggio di poter disporre, fuori dal nostro cervello, di illimitati spazi di memoria, da quelli tradizionali offerti da carta e penna a quelli recentemente conquistati con l’informatica. Pochi di noi però fanno uso di questi spazi, forse nella convinzione che poco o nulla valga la fatica di occuparli. O è semplicemente la pigrizia che ci trattiene dal fissare per iscritto i nostri pensieri, fosse anche attraverso i testi di un computer, o è la paura di esporsi? o quella di non trovarsi d’accordo con se stessi?

Sia come sia, la vecchiaia, con la sua perdita di memoria, ci offre l’occasione di rinnovare il guardaroba delle idee acquisite, addirittura di far posto ad altre che potrebbero presentarsi inattese e insperate. Perché la mente ci guadagna sempre, anche quando perde.

mercoledì 1 giugno 2011

Raffica di postini (e v)


[106e] Le massime sul concetto di verità sono troppo a buon mercato perché valga la pena di prenderle in considerazione. La verità è che a essere a buon mercato non è la massima, ma il concetto stesso di verità. Ma anche questa è una massima sul concetto di verità.

Fine raffica

Raffica di postini (iv)


[106d] Talora chi non crede nella verità di ciò che gli viene detto finisce per farsene paladino allo scopo di dimostrarne l'inconsistenza. E così la surclassa a ipotesi.

Raffica di postini (iii)


[106c] Talora la menzogna si ammanta di verità e lo fa così bene che chi la contraddice crede di mentire.

Raffica di postini (ii)


[106b] Perché abbiano le sue autorità, le massime non vengono considerate come una perla di verità, ma come un'ostrica in grado di produrla, a patto che vi entri un granello di menzogna.

Raffica di postini (i)


[106a] Chi scrive massime non è affatto detto che voglia ammaestrare qualcuno. È spesso probabile che voglia solo cercar di capire.