venerdì 30 luglio 2010

Progresso e IMC



Riprende la riflessione su progresso, crescita infinita e sopravvivenza, con la proposta di una possibile via di uscita.
Di che si tratta?

giovedì 29 luglio 2010

Transessualità

Ancora una metaparola, questa volta con illustrazione veneziana.



(Gender Obsolescence - Human Installation #1 - di Kyrahm e Julius Kaiser - Venezia 2009)

I transatlantici ci portano da una sponda all’altra del Atlantico.
Le transazioni ci fanno superare le barriere di un contenzioso.
La transessualità ci fa superare il limite del sesso.
Perché ci sentiamo respinti dalla transessualità?

Perché è ‘contro natura’. Ma non sono poche le specie animali ermafrodite o di sesso variabile nel tempo.
E, se il fenomeno non è raro anche nella specie umana, perché dichiararlo ‘contro natura’? Chi può arrogarsi il diritto di giudicare ciò che è naturale e ciò che non lo è?

Solo chi fosse fuori dalla natura. Ma chi lo è?

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Lasciamo quindi perdere il tema della ‘naturalità’ e ammettiamo che il nostro rifiuto sia essenzialmente culturale. Possiamo senza difficoltà immaginare una cultura non ostile verso la transessualità (come verso la omosessualità, addirittura verso la pedofilia), in altre parole una cultura disinibita sessualmente, senza tabù. Forse ci stiamo avviando verso una tale cultura. Per raggiungerla dovremmo però liberarci dai ‘padroni del sesso’, le religioni (almeno alcune) e le morali.

Ma transessualità non è solo un problema di codici (morali, religiosi, civili); è anzitutto un problema di identità. Ma uno è ciò che è, mescolanza variabile di elementi maschili e femminili. In questo senso ognuno di noi è in qualche misura transessuale. E, se è più femmina che maschio o più maschio che femmina è semplicemente un dato che lo riguarda e non qualcosa da valutare positivamente o negativamente. Semmai una mescolanza dei caratteri può risultare più vantaggiosa nell’affrontare la complessità delle situazioni reali che non una ‘monosessualità’ esclusiva.

C’è comunque la questione fisiologica, indubbiamente la più difficile da affrontare e risolvere, quando è possibile. La chirurgia plastica ha fatto certamente grandi progressi negli ultimi anni, grazie anche alla sperimentazione cui molti transessuali si sono sottoposti, più o meno volontariamente; ma i risultati parziali ottenuti sono ancora lontani dal corrispondere alle attese dei richiedenti, troppo definitivi sono i caratteri sessuali primari nei mammiferi.

È abbastanza strano che l’opinione comune accetti con commiserazione la malformazione di un braccio o di una gamba e rifiuti quasi come scandalosa una malformazione dell’apparato sessuale. La cosiddetta ‘malformazione’ –che altro non è che una ‘formazione’ meno probabile– può anche non riguardare la forma esteriore dell’individuo ma solo la distribuzione interna degli ormoni ed ecco i fenomeni dell’omosessualità, transessualità come anche tutte le gradazioni intermedie della normalità. E tanto meno si giustifica l’ingerenza della morale e delle religioni in questioni che riguardano unicamente l’Io individuale. Ma se è proprio questo Io a sentirsi scisso, a non riconoscersi pienamente, e questo perché gli manca il riconoscimento esterno, non dovrebbero proprio la morale e la religione per prime offrigli questo riconoscimento allo stesso titolo che a qualunque altro?

Se la transessualità è una malattia, chi è il malato, il transessuale nella sua ‘naturalità’ o chi di questa sua ‘naturalità’ non si accorge?

martedì 27 luglio 2010

Gerarchia - Livelli

Proponiamo oggi per i nostri amici e lettori un'altra Metaparola della recente opera omonima di Porena.



Illustrazione concettuale cortesia di The Daily Wh.at

È la caratteristica strutturale di molti sistemi o forse è meglio dire che è un modello di struttura che siamo soliti proiettare sugli insiemi ottenendone spesso dei risultati razionalmente comprensibili e operativamente utili. Le strutture gerarchizzate implicano dei livelli composti da elementi di livello inferiore ma con in più una proprietà 'emergente' che non si riscontra singolarmente in nessuno dei componenti. Gli esempi classici sono tolti dalla biologia come la serie cellula-tessuto-organo-organismo, oggi estendibile nei due sensi fino ai quark da una parte e la biosfera dall'altra. Questi livelli, ordinati in base al criterio di complessità crescente vengono da noi valutati in genere dal meno al più secondo questo stesso ordine –e non per esempio in ordine inverso–, con la strana eccezione che molte religioni pongono al primo livello (fondante) la struttura più complessa di tutte: la divinità creatrice. Per IMC questo ordinamento è culturale e un livello fondante non è raggiungibile razionalmente. In tempi recenti questo modello strutturale per livelli è stato riconsiderato proprio alla luce del concetto di 'complessità'. I livelli non sono caratterizzati più solo dagli elementi (strutture di livello inferiore) che li compongono, ma anche dalle relazioni che li tengono uniti o li separano, e queste relazioni possono ritrovarsi, identiche o quasi, in alcuni o tutti gli altri livelli: è la 'ricorsività' che lega tra loro i vari livelli e che è probabilmente responsabile e delle 'emergenze' di cui si diceva e della solidità interna (‘organicità’) dei livelli superiori.

Ai fini della sopravvivenza tutti i livelli e i modelli relazionali –ricorsivi e non– che ne uniscono gli elementi sono pariteticamente necessari ed è l'implicito riconoscimento di questo fatto ciò che rende le società degli insetti più solide e affidabili della nostra.

domenica 25 luglio 2010

Sei suoni con molta eco (Claudio Maioli)

Pubblichiamo oggi un contributo dell'amico Claudio Maioli

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Poor Echo. Like a computer, she could only repeat what she’d been told.

Perhaps her doomed love affair with Narcissus is the ultimate metaphor for the relationship between Man and Machine.

- Sei pronta?
- Sì.
- Allora leggi.

Ha il foglio in mano e lo terrà fino alla fine, non deve sfuggirle niente, fa parte del gioco. Legge.

“Arpeggio mi4 mi3 si3 la3 mi4 si3, tutti bemolli, sapore di quarta sospesa, la quarta è il la, che compare una sola volta ma l’arpeggio è riverberato, direi tra Room e Hall, suoni sostenuti, passano alcuni secondi prima dell’estinzione e in quei secondi il la3 riesce a dare il sapore di quarta. La terza è assente, lo considero maggiore. Sono ottimista?”

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- Bene, e allora?
- Hai qualche idea?
- Ci sono i nomi delle note musicali, li ho imparati a scuola e me ne hai parlato spesso, senza i numeri però. Perché ci sono i numeri? Anche arpeggio e accordo mi dicono qualcosa ma non ricordo. E poi dovevamo continuare con il computer, che c’entrano le note?
- Un po’ di pazienza e ci arrivo.

L’arte di divulgare, di dire tutto a tutti, impone un paio di gesti, il primo è mettersi nei panni di un interlocutore ideale di riferimento presumendone le competenze. A volte resta tutto in famiglia: mamme, zie, nonne (l’editore Ponte Alle Grazie ha pubblicato nel 2002 il divertente e prezioso Internet spiegato a mia nonna di Francis Mizio nella traduzione di Fabrizia Parini), altre a avere fortuna si trova una persona come M., l’amica curiosa. Il secondo gesto, che ha senso solo dopo compiuto il primo, consiste nell’espandere i termini supposti criptici, oscuri per l’interlocutore dato.

Ecco dunque una frase criptica per molti che descrive un piccolo evento sotto le orecchie di tutti o più esattamente di molti. Fatto inevitabile, vuoi perché l’orecchio non ha palpebre vuoi perché spesso non c’è altra scelta: strapotere delle multinazionali!

M. è in conflitto tra l’impazienza e il piacere dello svelamento progressivo, per dirla con la parafrasi involontaria (?) del titolo di un film di Alain Robbe-Grillet. Ne approfitto e riprendo prolungando l’attesa.

- Giusto, sono note. A essere precisi 6 note tra le più ascoltate nel mondo, non chiedermi chi sia l’autore né se prenda i diritti. I numeri ti dicono dove trovarle nel campo di variazione delle frequenze. Qualche anno fa ti feci osservare il pianoforte, ricordi? La successione di 3 tasti bianchi interrotti da 2 neri e di altri 4 intramezzati a 3 neri, una successione che si ripete sette volte lungo tutta la tastiera. Sette ottave, ognuna di 12 note, che moltiplicate per sette fanno 88, il numero dei tasti di un normale pianoforte. Da sinistra a destra le note diventano sempre più acute e quasi tutte si ripetono sette volte (solo 4 di loro otto volte). Per distinguerle si mettono i numeri e più alti sono i numeri più acute sono le note. Ci siamo?
- Perché hai detto “tra le più ascoltate nel mondo”?
- Senti.

Suono al pianoforte le sei note l’una staccata dall’altra e guardo M. Me le fa ripetere. Le ripeto ancora staccate, M. è ancora perplessa, guarda il foglio con le frasi criptiche, qualcosa non le torna.

- Ancora.

Obbedisco. Non voglio abusare della sua pazienza così suono tenendo premuto il pedale destro, quello che lascia tutte le corde libere di vibrare. M. si illumina, mi sorride, torna al foglio.

- Che cosa vuol dire “riverberato tra Room e Hall”?
- Vuol dire “con riverbero”. Il riverbero è un fenomeno acustico. I suoni sono fatti di molecole d’aria che eccitate, importunate da un oggetto in vibrazione vanno avanti e indietro, non l’hai dimenticato, vero? L’oggetto per vibrare deve essere elastico, cioè fatto in modo che se lo sposti da dove sta tende a tornare dove stava, un po’ come quando a letto abbiamo ancora sonno e qualcuno cerca di scuoterci per farci alzare. L’aria è elastica, chi non ci crede prenda una siringa, la tappi dalla parte in cui si infila l’ago e provi a spingere o tirare lo stantuffo. Se l’aria non fosse elastica non udiremmo alcun suono, come accade dove l’aria proprio non c’è (a esempio nello spazio cosmico o sotto una campana di vetro da cui sia stata estratta).
Che vuol dire “riverberato tra Room e Hall”?
[M. è sempre M., quasi fosse una sfida sembra modulare la sua curiosità sul mio accanimento didattico (a proposito: le ho spiegato la modulazione?)]
- Ci arrivo, ancora un po’ di pazienza. Dunque i suoni sono fatti di molecole d’aria che spingono avanti e indietro altre molecole d’aria. Quando sentiamo un suono vuol dire che un bel po’ di loro ha colpito i nostri timpani e li ha scossi con più fortuna di chi voleva farci scendere dal letto. Ma l’aria quando c’è è dovunque, per questo il suono si sposta, si dice che si propaga, si diffonde dappertutto e abbastanza in fretta. Molto meno della luce, s’intende, ma molto più di noi anche quando corriamo al massimo: un atleta riesce a fare 100 metri in meno di 10 secondi, il suono ne fa 343 in un secondo.
- Va bene, i suoni sono fatti di aria che si spinge, ma qui c’è scritto Room e Hall, stanza e sala, CHE ACCIDENTI VUOL DIRE?



J.W. Waterhouse – Echo and Narcissus (1903)

- Ci siamo, ci siamo quasi. Ecco. Anzi: eco, che cos’è l’eco?
- Non sono io che faccio le domande?
- Giusto. I suoni fatti di aria sbattono contro tutto quello che trovano sul loro cammino, cioè in tutte le direzioni. Sei all’aperto, molto all’aperto, hai davanti una vallata con montagne, cacci un urlo: che succede?
- Che sento l’eco.
- Perché?
- Ancora domande! Il suono rimbalza, no?
- Già, rimbalza a esempio su una parete lontana di roccia. Se invece l’urlo lo cacci in una stanza (possibilmente vuota, se è piena di oggetti a forza di sbattere contro tutti loro il suono si spezzetta, i rimbalzi sono troppi, si annullano tra loro e non li senti) e se la stanza è abbastanza grande …
- Ho capito, senti come un rimbombo.
- Esatto, quel rimbombo, che è la somma di tanti echi o tante Eco … sai chi era Eco?
- Lo so, era una gran pettegola, una ninfa, finisci per favore.
- Quel rimbombo si chiama riverbero.
- E si chiama Stanza se è piccolo e Sala se è grande?
- Più o meno: Room e Hall sono due modi di chiamare i riverberi artificiali, realizzati elettronicamente. Se vuoi…
- Uh, tu guarda che ora si è fatta! Scusami, è tardi, ora devo proprio andare. Poi mi spieghi la faccenda dell’ottimista e del sapore di quarta. Ciao, alla prossima.

L’arte del divulgare impone un terzo gesto, utile sempre anche in teatro e spesso nella vita: sapere come e quando uscire di scena.

In questo caso non prima di un invito: per chi non avesse capito, ecco quali sono molto probabilmente i 6 suoni tra i più ascoltati del mondo.


venerdì 23 luglio 2010

'Mercato'




Per parlarne tecnicamente –e forse è questa l’unica maniera ‘seria’ di parlarne– occorrerebbe avere delle competenze specifiche che nessuno di noi del CMC possiede. Ne consegue che faremmo bene a tacere sull’argomento. Poiché tuttavia il modello mercato pervade ormai quasi tutti gli aspetti della quotidianità e di questa siamo tutti partecipi, si deve riconoscere a ognuno il diritto di parteciparvi non solo come elemento passivo utile al funzionamento del modello, ma anche come osservatore critico in cerca di alternative.

Non parleremo quindi del mercato dal punto di vista tecnico (dove non saremmo ‘seriamente’ credibili), accenneremo soltanto ad alcune ‘condizioni al contorno’ che ci sembrano accessibili anche a chi non se ne intende.

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Il mercato è oggi quasi sinonimo di concorrenza e si presenta sostanzialmente come uno strumento di crescita produttiva provvisto di un meccanismo di retroazione che ne impedisce l’esplosione incontrollata. Questo meccanismo, il cui funzionamento è peraltro ostacolato da altri meccanismi al servizio di interessi particolari (come per esempio il costituirsi di situazioni di monopolio), non mira all’omeostasi, cioè al consolidarsi di un equilibrio stabile nel tempo, ma all’omeoresi, cioè a un accrescimento frenato ma non impedito. Ci dicono gli studi ecologici (sull’ambiente) che già il permanere dell’attuale condizione produttiva sarebbe insostenibile per il nostro pianeta oltreché per buona parte dei suoi abitanti (umani inclusi); un’ulteriore crescita, soprattutto sperequata come oggi la vediamo, ci avvicinerebbe a un punto di non ritorno, al di là del quale l’estinzione –forse non solo nostra– sarebbe solo questione di (poco) tempo. Non possiamo essere certi che questa valutazione colga nel segno; potrebbero per esempio prodursi innovazioni tecnologiche che allunghino (di quanto?) i tempi di ulteriore crescita della produttività. Vogliamo correre il rischio?

Le alternative sono due

· accontentarci dello status quo, cioè dell’omeostasi,

· rassegnarci a una contrazione della produttività, alla sua decrescita.

Nella prima –il perseguimento dell’omeostasi– il problema principale sarebbe la redistribuzione della ricchezza e del welfare, cosí da agganciare l’omeostasi produttiva alla parificazione dei diritti (una sorta di società comunista).

Nella seconda –la decrescita produttiva– il problema principale consisterebbe nel convincere chi produce a produrre –e quindi a guadagnare– di meno senza scaricare il mancato profitto sulle spalle di chi profitto non ne ha.

Per ambedue le alternative è necessaria una ‘rivoluzione culturale’ incruenta, da iniziarsi sui banchi di scuola, una rivoluzione che sposti l’asse educativo dalla ‘patrimonializzazione del sapere’ all’esercizio –altrimenti indirizzato– della mente. Rivalutazione del sapere come motore del pensiero; non concorrenzialità tra i cervelli, ma sinergia ai fini della sopravvivenza.

mercoledì 21 luglio 2010

L'analogia nella costruzione di UCL, ovverossia come lo Scarites venne pescato con la Pimelia


Scarites Buparius fotografato da Beppe Miceli fotografo naturalistico


Credo di aver già ricordato in questi postini l'episodio della cattura di un certo numero di Scarites buparius a Ostia, più di sessanta anni fa. Gli ho letteralmente 'pescati' da un tombino con l'aiuto della cinghia dei pantaloni e della pinzetta, su cui avevo infilzato una malcapitata Pimelia come esca. Qui mi interessa rilevare come il cervello agisce di fronte a un problema per il quale non esiste nell'Universo Culturale Locale (UCL) una procedura risolutiva.

Per prima cosa mi sono affidato alle mie conoscenze entomologiche e all'osservazione diretta del coleottero da catturare: un grosso carabide carnivoro dalle imponenti mandibole simili a quelli dei cervi volanti.

Poi ho rilevato la posizione reciproca mia e degli Scarites nel tombino e ho registrato l'analogia con la posizione del pescatore e del pesce.

Quindi ho tentato di riprodurre rozzamente lo strumento che l'UCL mette a disposizione del pescatore: essenzialmente lenza (cintura), amo (pinzetta), esca (Pimelia).

Infine ho dedotto dall'osservazione della struttura corporea dello Scarites e da quello che sapevo sul suo comportamento ciò che avrebbe fatto vedendosi penzolare davanti alle mandibole una bella e grossa Pimelia. Molte incognite erano rimaste aperte: la Pimelia avrebbe potuto divincolarsi o insabbiarsi, lo Scarites avrebbe potuto insospettirsi e lasciare la presa nel sentirsi trascinare in aria dalla preda ecc. Quella volta tutto andò bene -per me- non per la Pimelia e neppure per gli Scarites catturati.


Pimelia bipunctata (sempre dalla citata risorsa di Beppe Miceli)


Ho riproposto l'insolita scenetta per trarne un modello analogico di problem solving che ha probabilmente una larga applicazione quando manchi un procedimento risolutivo specifico. Anche questo peraltro avrà avuto una sua fase costruttiva nella quale è probabile che l'analogia abbia giocato un qualche ruolo non secondario. Ovviamente, nel porre l'analogia come uno degli strumenti costruttivi -non l'unico- degli UCL, va tenuto conto altrettanto delle differenze che non solo accompagnano, ma possono mettere in forse la validità degli stessi strumenti utilizzati. E' quindi della massima importanza conoscere fin dove possibile sia la situazione in quale vorremmo servirci del modello analogico, sia le varianti di dettaglio che la situazione richiede.

martedì 20 luglio 2010

Scomposizione analitica


Originale inedito di Paola Bučan, 2004


Un modello di problem solving ampiamente diffuso penso che sia quello analitico, consistente nello smembramento di un problema complesso in componenti più semplici e di questi in altri più semplici ancora e così via. La soluzione definitiva non sarà tuttavia ottenibile direttamente dalle soluzioni parziali, ma una funzione di queste, la cui complessità potrebbe essere solo di poco inferiore alla complessità del problema di partenza. Questo, naturalmente, per ogni livello attraversato dalla scomposizione analitica.

lunedì 19 luglio 2010

Sguardo retrospettivo


Originale inedito di Paola Bučan


[Ancora una volta scritto piuttosto che parlato - un momento autobiografico ]

Da qualche mese sto lavorando a questi postini. E' il puro e semplice passatempo di un anziano signore che ritiene di avere esaurito la sua riserva di cose da dire, ma non si rassegna al silenzio, oppure vi si nasconde la speranza che il cervello possa ancora dargli qualche ragione di vita? Queste ragioni non gli sono certo mancate nel corso degli anni, sia che il cervello le abbia maturate dal di fuori (il più sovente), sia che le abbia prodotte dal suo interno (molto più di rado). Mi domando comunque se, nel caso del cervello la distinzione fra 'dentro' e 'fuori' abbia un senso. Per circa sessanta anni sono stato un compositore, ho scritto musica. Non so se buona o cattiva, o meglio la cosa, da un certo punto in poi, mi è stata del tutto indifferente, e penso che questa indifferenza estetica coinvolga anche l'ascoltatore, che è implicitamente invitato ad astenersi dall'usare la categoria del 'bello'. Quale altra categoria dovrà usare allora?

Le stesse che guidano il nostro cervello quando ne viene sotratta la categoria estetica. A molti questa sottrazione apparirà intollerabile, mentre altri le troveranno dei sostituti nella comprensione razionale o nella speculazione logica. Personalmente non sono affatto insensibile al 'bello', che peraltro non riesco ad applicare a nessun oggetto musicale prodotto dopo la metà del secolo scorso. E allora mi sono ridotto a rinunciarvi anche come stimolo produttivo, scrivendo sotto la spinta di altri interessi, logico-strutturali soprattutto. Cosiché, stremizzando un poco, posso dire che della musica da me composta, quasi nessuna 'mi piace' come il più modesto dei Lieder di Schubert, quasi tutte, però, le considererei con interesse se non fossero mie.

Questo mio particolare interesse per la struttura ai suoi vari livelli, da quello lessicale alle grammatiche, alle forme, ha trovato il suo naturale campo applicativo nella didattica, in ciò che si può 'imparare' anche se nessuno te l'insegna: autodidattica.

Nessuno però, né tu né altri, può insegnarti a diventare Schubert. Ho quindi messo da parte l'estetica, concentrandomi sulla didattica. Di qui alla pedagogia il passo è breve, e posso dire di averlo compiuto senza sforzo, ma con il grande piacere di trovarmi davanti un paesaggio assai più ricco delle "questioni grammaticali e sintattiche" che avevano alimentato le mie ricerche precedenti. Un altro passo ancora e sono passato ad altri interessi, da tempo latenti, e come inibiti dalla mia scelta musicale: interessi sociali, culturali, ecologici, filosofici. E a questi sto dedicando da una quindicina di anni la maggior parte delle mie energie produttive, un po' alla volta sottraendole all'attività compositiva cui ero legato professionalmente. Sono infatti convinto che, se qualcosa di generalmente utile avevo da dire -e dovranno essere altri a pronunciarsi su questo punto-, non è con i suoni musicali che sono stato capace di dirlo, ma con le parole.

domenica 18 luglio 2010

Pausa



[Stasera, per una volta, postino scritto piuttosto che filmato - come addobbo di questa toccante fotografia di Andrew Zuckerman]

Non c'è un piano che regoli la produzione di questi postini, produzione che verosimilmente continuerà fino all'esaurimento fisico o mentale del produttore. Poiché del prodotto non c'è richiesta in quanto il mercato non ne ha preso notizia, pensiamo che, a essere ottimisti, dovremmo trovarci circa a metà strada di un ipotetico percorso totale. Quotidianamente il camino si fa più faticoso e il piacere di scriverli -i postini- diminuisce.

Scrivo adesso (15.7.10) questa Pausa riservandomi il diritto di spostarla, avanti o indietro, secondo necessità (più probabilmente indietro) per mantenerle la posizione centrale che credo le spetti.

sabato 17 luglio 2010

Trilogia Berlusconiana - Parte Terza



Domo-komo, del manoscritto Bakemono Zukushi, del periodo Edo (XVIII-XIX secolo), artista ignoto




Il ‘caso’ Berlusconi pone alcuni interrogativi.
1. È veramente un ‘caso’ o una forma , seppure aberrante, di normalità?
2. Se è una forma di normalità, è propria dell’Italia, di determinati popoli, o è a diffusione più o meno generalizzata?
3. È un problema culturale?
4. È un problema connesso con la salvaguardia della specie?
5. Il modello sociale che ne deriva è adeguato alla situazione attuale?
6. Se non lo fosse, cosa si può fare?

***

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[Le seguenti ‘risposte’ rispecchiano solo un punto di vista personale.]

1. Non lo ritengo un ‘caso’. Troppe volte lo si è verificato dal tempo dei romani a oggi. Credo che rientri in una ‘normalità comportamentale’ riscontrabile fino nelle ‘ dominanze animali’.

2. Non credo che il fenomeno della ‘sudditanza’ –e, reciprocamente della ‘dominanza’– sia tipicamente italiano, né limitato ad alcuni popoli, anche se certe condizioni economiche e culturali lo favoriscono.

3. Nell’ottica ‘metaculturale’ che mi è abituale, il problema della ‘dipendenza’, originariamente psicologico e individuale, a livello di comunità si fa sociale, politico. Non è facile segnare una demarcazione tra le due dimensioni. Se nella dipendenza si vede una negatività –cosa non sostenibile per il mondo animale– il problema va affrontato fin nella prima infanzia promuovendo l’autonomia individuale.

4. Probabilmente nelle altre specie è così, se anche nella nostra il frequente riaffiorare di questo modello fa pensare che non sia pregiudizievole per la nostra sopravvivenza, nonostante i guasti che produce sia all’individuo che alla collettività siano incalcolabili.

5. Credo che la situazione attuale, proprio perché la sua instabilità raggiunge i livelli primi della sopravvivenza, richiede, più che una leadership mondiale, una presa di coscienza sia individuale che collettiva, tale da escludere per principio il berlusconismo e affini.

6. Credo che il modello economico sociale qui considerato –nient’altro che una delle infinite varianti del capitalismo– non sia più sufficiente garante di sopravvivenza. Che cosa fare allora?

La nostra proposta –non più di piccolo centro metaculturale, ma di vero e proprio Movimento per la Sopravvivenza– è ormai nota e informa di sé anche questi postini: LAVORARE CON TUTTI I MEZZI DI CUI DISPONIAMO ALLA TRANSIZIONE DALL’ERA DELLA PLURALITA’ CULTURALE A UN ERA METACULTURALE.

mercoledì 14 luglio 2010

IMC DEFINIZIONE PRIMA



Boris ci illustra una delle definizioni dell'Ipotesi Metaculturale.
Guardate, meditate e...commentate!!!

domenica 11 luglio 2010

Il progresso



"Non ti va bene il progresso?"
"Assolutamente no!"...

venerdì 9 luglio 2010

Trilogia berlusconiana - Parte seconda



Hajikkaki, del manoscritto Bakemono Zukushi, del periodo Edo (XVIII-XIX secolo), artista ignoto


Ci sono diversi modi di valutare una persona. Alcuni riguardano la persona stessa, ciò che dice e fa, il suo comportamento, altri ciò che dicono e fanno le persone a lui vicine o da lui condizionate, questo tanto più quanto maggiore è il suo potere. Nel caso in questione, essendo il potere di Berlusconi notoriamente tra i maggiori in Europa come uomo economico e capo di governo, la sua influenza su quanto lo circonda è particolarmente grande. Posso quindi dal minuscolo osservatorio di uno di questi postini, trascurare ciò che dice e, fino a un certo punto, anche ciò che fa, per dedicare qualche riflessione alle cose che avvengono per la sua presenza.

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Il mio lavoro di formatore mi porta a contatto con molte persone, soprattutto giovani, delle più diverse condizioni sociali, e solo raramente mi sono imbattuto in persone che si riconoscessero in Berlusconi e nel suo operato. I ripetuti risultati elettorali non erano però in accordo statistico con quanto rilevato dai contatti personali. Mi è sembrato di vedere due modi diversi di pensare, l’uno per così dire pubblico, l’altro privato, questo normalmente intelligente, quello indisponibile a fare uso dell’intelligenza. Un effetto–massa che si riscontra anche tra gli altri animali e che rinuncia a servirsi delle autonome capacità decisionali per seguire un trend collettivo spesso contrario ai propri interessi. C’è da domandarsi come può un solo individuo produrre un simile trend. Forse non è sufficiente invocare il potere mediatico del ‘nostro' né la sua capacità di corruttore sostenuta da ingenti disponibilità finanziarie; occorre una sotterranea sintonia con lo ‘spirito del tempo ’, analoga a quella posseduta dal fascismo e che accecò interi popoli trascinandoli nella –fino ad allora– più terribile catastrofe prodotta dall’uomo. Non ritengo sensato un parallelo tra l’odierna destra berlusconiana e la destra di allora. C’è di mezzo la shoah, e non è cosa che si possa dimenticare. Un’altra considerazione le divide. Il nazifascismo si proclamava –ed era– sostanzialmente autarchico, e questo ne decretò la rapida fine. Il berlusconismo vive di un potente appoggio esterno. La sua politica non è autarchica, ma si identifica a grandi linee con quella in atto nei paesi occidentali, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Più in là ancora, il berlusconismo ripropone, non senza apportare una riverniciatura tecnologica, la politica di aggressione e conquista che aveva contrassegnato fin dagli inizi l’ascesa degli Stati nazionali. Oggi le conquiste non sono più territoriali, ma di mercato; la ricchezza non è più localizzabile, è diffusa ovunque il denaro lo richieda e il potere non ha bisogno di strutture fisse o di una sede unica.

Queste cose Berlusconi le ha capite benissimo ( né ci voleva molto), ma le ha capite anche la gente che non a caso lo segue. Ciò che né l’uno né gli altri mostrano di aver capito, forse per la scomodità delle scelte che ne deriverebbero, è che il modello di accrescimento perseguito soprattutto in Europa, ma oggi dilagante per tutto il genere umano, è divenuto insostenibile per l’uomo come per il pianeta Terra. L’argomento è all’ordine del giorno su riviste specializzate e non, ma compare regolarmente anche sui quotidiani e perfino nei programmi televisivi. Stranamente, però, non ce ne è traccia nei programmi dei partiti politici, tutti –anche quelli dell’opposizione– improntati a un’ idea di crescita –più o meno felice– dell’economia, del welfare, del benessere, quando è evidente –e non potrebbe essere diversamente– il contrario. Nessuno vuole essere portatore di cattive notizie e si preferisce che le portino gli altri e, poiché viviamo in un periodo di permanente clima elettorale, finisce che veniamo a sapere di quel che ci aspetta soltanto quando ci stiamo dentro fino al collo, mentre uno sforzo unitario, senza vani infingimenti, ci renderebbe più sopportabile l’inevitabile. Aveva visto giusto già nel 1977 Enrico Berlinguer con il suo progetto di ‘austerità’, che, in quanto scelta politica condivisa, avrebbe forse causato meno scontento di un’ ‘austerità’ imposta, che, allo stato attuale, tocca la maggior parte della popolazione, mentre una minoranza è perfettamente in grado di adeguare i suoi redditi all’aumento dei costi. Si va in tal modo ricostituendo quella divisione in classi che si pensava in via di superamento. Sintomo di questo regresso sociale è anche il ritorno a vele spiegate della ‘meritocrazia’, che non mira più alla valorizzazione di ogni individuo, ma di premiare il più forte –indipendentemente dalle circostanze che l’hanno reso tale– sia economicamente che in termini di potere.

È democrazia questa?

Per alcuni, evidentemente sì, altri ne avrebbero sognato una realizzazione diversa.

martedì 6 luglio 2010

Vita da spettatori



Vediamo solo cio' che vogliamo vedere o cio' di cui abbiamo cognizione?
Guardare significa partecipare attivamente. Questo è un implicito invito a guardare il postino e a partecipare attivamente lasciando un commento!

Trilogia berlusconiana - Parte Prima



Oyajirome, del manoscritto Bakemono Zukushi, del periodo Edo (XVIII-XIX secolo), artista ignoto

In genere non mi piace parlar male dei miei simili, anche quando non posso dirmi soddisfatto di questa somiglianza. È il caso di Silvio Berlusconi. Voglio ammettere anche un certo grado di buona fede che andrebbe comunque detratta dal suo intuito politico, per altri versi notevole. Ritengo sia stato una iattura per l’Italia, come a suo tempo Benito Mussolini, e non tanto per quello che ha fatto, ma per come ha pensato e tuttora pensa. Se il suo stolto modo di pensare fosse rimasto solo suo, niente da dire: ognuno pensa come gli pare. Ma, proprio grazie al suo rozzo intuito politico –e alla sua truffaldina abilità di convincere gli ingenui e di associarsi ai potenti– gli è riuscito di conquistare lui stesso un potere senza precedenti. Gli va anche riconosciuta l’intelligenza di aver saputo investire questo potere nello strumento più idoneo ad accrescerlo, lo strumento mediatico.

Leggere di più ...Ma qui finisce l’elenco dei suoi ‘meriti’ e si apre l’elenco dei danni che lui e il suo governo hanno causato all’Italia tutta e singolarmente ai suoi abitanti. Non sono in grado di esibire questo elenco per mancanza di una credibile competenza politico-economica. Del resto altri lo stanno facendo da anni, con risultati che in qualsiasi altro Paese sarebbero stati determinanti per mandare a casa lui e il suo governo. Anche fatti ovunque considerati inammissibili, come il conflitto di interessi o le leggi ad personam, sono stati acquisiti con una scrollatina di spalle o addirittura come segno di una superiore capacità politica, mentre perfino l’Unione Europea, forse per non mettere in difficoltà la propria coesione interna, faceva finta di niente.

Tutto questo, come è stato possibile?

Proprio grazie al maggiore e più devastante dei guasti operati dal signor Berlusconi a cominciare dal suo primo apparire sul panorama internazionale: il ben pianificato, costante inquinamento dei cervelli di ogni classe sociale, di ogni settore lavorativo, di ogni orientamento politico. Sì, anche dell’opposizione, trascinata suo malgrado su un terreno, quello capitalistico-mercantile, che non le è certo congeniale e la trova in minoranza non solo a casa nostra.

Ancora una volta tocca riconoscere al ‘nostro’ –come a suo tempo all’altro ‘nostro’–, l’intuito di aver colto la tendenza politica del momento e di essersene fatto interprete a tutto campo. Le sue ricchezze, impiegate in un settore riconosciuto come d’avanguardia e ottenute sempre ai limiti della legge, hanno fatto di lui un modello, se non da imitare –ché forse non ovunque sarebbe stato possibile– certo da guardare con curiosità mista ad interesse (comunque sarà lui a rischiare ...). Per un popolo come il nostro, abituato per cultura a farsi gioco delle leggi e a considerare la furberia politica un’indispensabile qualità di un uomo di potere, Berlusconi non poteva che esercitare un fascino irresistibile ... per il piccolo borghese che grazie a lui si sentiva un po’ meno piccolo, per l’arrivista che toccava con mano come si fa ad arrivare, per l’intellettuale che stava revisionando il suo ruolo sociale, infine anche per l’operaio cui il capitale e la tecnologia stavano sottraendo rappresentatività politica. Era lui, per molti, l’uomo nuovo, cui sacrificare anche un’importante fetta di democrazia, tanto più che, a sentirlo, ne era lui il forte difensore contro il dilagante livellamento comunista. Sembrava che, con la caduta del regime comunista ci fossimo liberati anche del suo fantasma, mentre, per merito dell’uomo di Arcore, Stalin era ancora tra noi, pericolo incombente se non avessimo avuto il nostro imbattibile protettore.

Ripeto: come è stato possibile che un simile mucchio di fandonie attecchisse nella civilissima Europa, madre di tutte le culture superiori (a suo dire) e per di più in Italia, che ne è stato il centro diffusore ...

Forse sarebbe bene che anche noi non aggiungessimo fandonie a fandonie. Se ci troviamo nell’attuale situazione di crisi forse irreversibile, è proprio per insufficienza culturale: siamo incapaci di uscire dalla nostra presunzione di primi della classe, giustamente inorgogliti da ciò che alcuni di noi hanno saputo dare al mondo, ma incapaci a vedere che cosa hanno dato gli altri e soprattutto incapaci di vedere il mondo stesso che mostra di non volerci sopportare più a lungo: noi che, convinti di poterlo capire fino in fondo, mostriamo ad ogni passo quanto poco lo conosciamo.

E quanto poco conosciamo la nostra stessa natura umana, illusi che scienza e cultura possano salvarci quando, se qualcosa potrà farlo, sarà solo la relativizzazione metaculturale di noi e di tutte le nostre culture.

Siamo in molti, oggi, a pensare così.

domenica 4 luglio 2010

Un inutile rompicapo



Domande da logici!

sabato 3 luglio 2010

La gara



C'era una volta (ma non credo che fosse molto tempo fa) un
ingegnere che progettava robot, poi li faceva costruire e li teneva
presso di sé per studiarne le reazioni.Leggere di più ...I suoi robot erano di gran lunga i più perfezionati tra quanti ve ne fossero sulla terra. Non tanto per quello che facevano (in genere non si curava molto delle loro capacità di movimento) quanto per quello che riuscivano a pensare.
Uno in particolare, l'ultimo (perché poi non ne fece costruire più, come vedremo), lo teneva occupato da mattina a sera.
La complessità del suo cervello artificiale era tale che l'ingegnere non riusciva a trovare un problema, un calcolo, un'equazione che quello non sapesse risolvere in quattro e quattr'otto. Molte delle soluzioni avanzate dal robot non erano però delle vere e proprie soluzioni, ma delle abilissime riformulazioni dei problemi, cosicché toccava ora all'ingegnere tentar di risolverli.
Era una sfida.
Una sfida che l'ingegnere accolse con coraggio, anche con paura: gli sembrava fosse in gioco non solo la sua personale intelligenza, ma quella del genere umano tutto. Non ci dormiva la notte e al mattino riprendeva la gara stanca ancora del giorno prima. Il robot dal canto suo non provava alcuna emozione. Non aveva bisogno di riposare e pensava anche di notte. Mentre il robot accumulava vantaggio su vantaggio, l'ingegnere deperiva di giorno in giorno, nonostante le cure cui si era sottoposto. Sempre più spesso gli capitava di sbagliare e di farsi correggere dal robot, che invece sembrava incapace di commettere il più piccolo errore.
E venne una sera che l'ingegnere pensò: "Non ce la faccio più. Domani mi arrendo".
Vinse però l'ingegnere pur perdendo la gara. La mattina dopo andò infatti dal robot e gli disse: "Non ce la faccio a vincere la tua intelligenza con la mia. Quale intelligenza potrebbe riuscirci e come?"
Il robot, senza paura, risolse il problema autodistruggendosi. "Io al posto tuo - pensò l'ingegnere - avrei avuto paura e avrei preferito perdere la gara, come del resto l'ho persa adesso".
E smise di costruire robot.

venerdì 2 luglio 2010

Never More




"Perchè morire, come nascere, fa parte della vita. E va bene così..."