mercoledì 3 giugno 2015

Tratta XXXIV – De senectute – XXXIV.1



[Non sono particolarmente interessato agli aspetti autobiografici della vecchiaia quale la sto vivendo da parecchi anni. Posso solo dire che, almeno nella forma in cui mi si è presentata, è tollerabile. Di più, è a tratti piacevole, anche se non credo per chi mi sta intorno. Non per Paola per esempio, su cui grava più che su di me il peso dei miei anni. Che in realtà non sono poi molti, stando allo straordinario allungamento della vita media verificatosi negli ultimi anni. E non è tanto l’allungamento in sé il fatto positivo quanto il miglioramento della qualità di vita che l’attuale medicina e farmacologia consentono alla vecchiaia di oggi rispetto a quella del passato. Anche i servizi assistenziali e l’attenzione che la società presta all’anziano gli rendono questa fase estrema dell’esistenza, tutto sommato, forse meno ostile delle precedenti. Sottratto al pungolo degli obblighi, alla pressione della concorrenzialità, alle responsabilità verso gli altri e verso se stesso, l’individuo assapora qualcosa come la libertà fittizia di chi non può più nulla e, se qualcosa ancora conta, è solo per ciò che ha fatto. Da lui non ci si aspetta nulla se non che muoia. Per alcuni è una condizione pesante di frustrazione, per altri di leggerezza insostenibile, alcuni infine vi si accomodano senza problemi. Penso che, perdurando, addirittura aggravandosi la situazione economica mondiale, i problemi saranno per chi verrà dopo di noi, figli, nipoti, pronipoti. A questi il nostro egoismo di cittadini ‘arrivati’ non ci ha pensato ne ci vuole pensare. La nostra vecchiaia trascorre ancora sull’onda di un passato welfare. Si è garantiti a sufficienza dai tracolli futuri. Ha chiuso gli occhi davanti a chi non poteva garantirsi, e oggi assiste, protetta, ai primi di quei tracolli. I vecchi di oggi portano la responsabilità di quello che sarà domani il fallimento biologico di Homo sapiens. Anch’io sono tra quelli.]