lunedì 26 gennaio 2015

Tratta XXX.3 – Parmenidea, immutabile alterità



[Dialogante 2]  Stiamo girando intorno all’argomento annunciato come vespa intorno a un pezzo di carne. È ora che lo affrontiamo – l’argomento, non il pezzo di carne – , anche se, come sempre, non ne abbiamo la necessaria competenza pur ritrovandoci nel cranio un cervello di medie dimensioni e prestazioni
[Dialogante 1]  Cominciamo con l’identificare l’argomento tramite il termine generalmente creato per esso: il Disegno intelligente. Questo termine sta un po’ alla volta sostituendo, presso gli avversari dell’evoluzionismo, l’altro, ormai fuori moda: ‘creazionismo’ (quello del vecchio barbuto per intenderci).
[Dialogante 2]  Nella nuova dizione manca qualsiasi riferimento diretto ad un ‘creatore’. Si parla impersonalmente di un ‘disegno’ senza mai nominare un ‘disegnatore’.
[Dialogante 1]  E fin qui possiamo anche dirci d’accordo. Quello che infastidiva in precedenza era l’umanizzazione dell’atto creativo che ci riportava indietro ai tempi di Senofane di Colofone (V secolo A.C.) che criticava i suoi contemporanei per aver pensato gli dei in sembianze umane, da cui conseguirebbe che i cavalli li pensano in sembianze equine.
[Dialogante 2]  Un vistoso resto di umanizzazione si trova comunque nell’aggettivo ‘intelligente’. Perché il ‘disegno’ dell’universo dovrebbe essere ‘intelligente’?
[Dialogante 1]  Perché noi lo possiamo capire.
[Dialogante 2]  E perché lo dovremmo capire? In sottofondo resta inespressa l’ipotesi che qualcuno avrebbe fatto il mondo così com’è per farcelo capire.
[Dialogante 1]  Ma noi non lo capiamo affatto, o meglio cerchiamo solo di capire l’immagine che volta per volta ce ne facciamo.
[Dialogante 2]  Oppure, se mai lo capiamo, è perché siamo fatti come lui, siamo dalla stessa parte.
[Dialogante 1]  Ritengo però poco probabile che la nostra comprensione aggiunga noi e lui, a meno che l’essere non si identifichi con il conoscere.
[Dialogante 2]  Anche questa è una vecchia ipotesi, avanzata più di quarant’anni fa in Musica-società[1], ma poi non più inseguita.
[Dialogante 1]  ‘Intelligente’ potrebbe voler dire semplicemente che vi riconosciamo una qualità che lo accomuna a noi, così come ci accomuna la materia di cui siamo fatti.
[Dialogante 2]  Tu parli dell’universo, mentre il tema è il ‘disegno’. E un ‘disegno intelligente’ dev’esserlo stato fin dall’inizio; i disegni o lo sono o non lo sono. Non ‘evolvono’ verso l’intelligenza.
[Dialogante 1]  Vuoi dire che l’ipotesi è statica come quando si credeva che le specie animali fossero state create come le vediamo oggi, immutabili nel tempo, e che quelle che non si trovano più – di gran lunga la maggioranza – , fossero semplicemente estinte senza lasciar una discendenza.
[Dialogante 2]  Quindi l’intelligenza sarebbe un a priori dell’essere, distribuito a caso tra le sue varie forme. Mi sembra impossibile che degli esseri che, a detta loro, l’avrebbero ricevuta in dote – parlo dell’intelligenza – , non sappiano vederne anzitutto la modalità e la condannino all’immutabilità di un a priori.
[Dialogante 1]  Ma hai mai pensato che una certa dose di immobilismo ce l’hai anche tu?
[Dialogante 2]  E in che cosa ce l’avrei?
[Dialogante 1]  Nel fatto che non riesci a leggere dietro la formula del disegno intelligente altro da ciò che le parole strettamente significano. Una lettura metaforicamente più disponibile avvicinerebbe forse quella forma a un modo di pensare affine al nostro.
[Dialogante 2]  Spiegati meglio.
[Dialogante 1]  Supponiamo che, come esistono molteplici forme animali diverse fra di loro – e su questo punto non possiamo che convenire – , esistano forme di intelligenza anch’esse intelligenti, senza che tra loro ci sia un legame genetico (e fin qui potrebbe esserci l’accordo). L’espressione ‘disegno intelligente’ potrebbe quindi definirsi cumulativamente a vari tipi di intelligenza. Non si vorrebbe in sostanza dire altro che l’essere, parallelamente alle sue manifestazioni, diciamo così, ‘materiali’, altre ne esibisce che potremmo attribuire a una polimorfa qualità che chiameremmo ‘intelligenza’. E la parola ‘disegno’ potrebbe indicare l’universo nella sua parmenidea, immutabile alterità.


[1]             Vedi n. 266, pag. 131 sg. (in tedesco), in [1] Musica-società nel Volume I – Prodromi delle Indagini metaculturali.

domenica 25 gennaio 2015

Tratta XXX.2 – Qualsiasi altra avventura della mente…



[Dialogante 2]  Il cervello umano credo anch’io sia il più potente strumento d’indagine che la selezione abbia prodotto e la logica la sua più alta manifestazione, ma ora la domanda è: il cervello è la logica, o è solo uno strumento d’indagine?
[Dialogante 1]  Mi fa piacere che te lo domandi e che implicitamente lo domandi anche a me. Il cervello umano ha probabilmente ‘inventato’ la logica ma non si esaurisce in questa. Lo dimostra il fatto stesso che, pur avendo inventato o ‘scoperto in se’ stesso’ la logica binaria – quella di comune applicazione, per intenderci – ne ha ben presto segnato i limiti, per poi oltrepassarli con altri tipi di logica e, non da ultimo, con IMC.
[Dialogante 2]  È come se il cervello si autoalimentasse di contraddizioni, a ogni sua affermazione opponendo una negazione, mantenendo tutte e due in una condizione di permanente instabilità e creando per questa condizione un apposito universo: UMC.
[Dialogante 1]  Una volta creato UMC, la porta resta aperta per qualsiasi altra avventura della mente.
[Dialogante 2]  Un momento: ma di UMC si parla solo di qualche decennio, mentre la creatività umana è all’opera da centinaia di migliaia di anni.
[Dialogante 1]  Se a UMC vogliamo dare una consistenza che per altro non ha, diremmo che il nome è recente, ma il concetto funziona in incognito da quando è in funzione la vita, o addirittura l’essere.
[Dialogante 2]  Vedo che distingui pulitamente la vita dall’essere.
[Dialogante 1]  Sì, se necessario, altrimenti no.
[Dialogante 2]  Qui potrebbe essere non necessario, in quanto, più che questa distinzione, ci interessa il grado di consistenza concettuale di UMC.
[Dialogante 1]  Perché, i concetti hanno diversi gradi di ‘consistenza’?
[Dialogante 2]  Ci siamo già posti altra volta questa domanda. Un bel giorno ci toccherà inventare anche una risposta.
[Dialogante 1]  La chiederemo ad UMC.

sabato 24 gennaio 2015

Tratta XXX.1 – Culturalità di ogni nostra espressione …



[Dialogante 1]  Non si parla più di Creazionismo. L’idea, veramente insensata, di un vecchio barbuto che avrebbe creato il mondo, compresi il cielo, il sole, le stelle e tutti gli esseri viventi, sembra essere definitivamente tramontata…
[Dialogante 2]  … sostituita peraltro, da quella meno assurda, di una grande esplosione (big bang), avvenuta nel nulla, dal nulla, fuori dal tempo e dallo spazio.
[Dialogante 1]  Anzi, questo big bang avrebbe ‘creato’ – e siamo di nuovo alla creazione e siamo ancora senza vecchio barbuto – una sorta di materia primordiale non ancora differenziata…
[Dialogante 2]  … da cui per successive differenziazioni si sarebbe prodotta ogni cosa, morta o viva che fosse.
[Dialogante 1]  E per quest’ultima categoria, delle cose vive o della ‘vita’ tout court – avrebbe provveduto, a detta di un altro barbuto, la ‘duplicazione con errori casuali’, associata alla ‘selezione del più adatto’, cioè la selezione darwiniana.
[Dialogante 2]  Mi sembra più credibile della storia del vecchio.
[Dialogante 1]  Senz’altro; una volta avviato, il meccanismo può funzionare anche da solo, ma il primo avvio chi glielo ha dato?
[Dialogante 2]  Ma è strano che me lo chieda tu, abituato come sei a riconoscere la culturalità di ogni nostra espressione. Qui la tua – troppo ingenua – domanda presuppone il principio (culturale) di causa: se c’è un meccanismo, qualcosa deve averlo avviato. È la stessa – indebita – applicazione di quel principio che troviamo nei creazionisti.
[Dialogante 1]  Perché dici ‘indebita’? Per il nostro cervello è più che lecita. E il cervello della specie umana è probabilmente il più potente strumento analitico-conoscitivo che l’evoluzione darwiniana abbia prodotto.


domenica 18 gennaio 2015

Tratta XXIX.6 – La forza del mito …



[Dialogante 1]  Fatti e immagini che ricordiamo spesso non sono nostri personali, ma comuni a più persone, a interi popoli.
[Dialogante 2]  Anzi su questi ‘ricordi’ fondano addirittura la loro identità.
[Dialogante 1]  Perché rilevi la parola ‘ricordi’? Come si ci avessi messo le virgolette?
[Dialogante 2]  Perché pochi o nessuno se li ricorda singolarmente, ma fanno parte di una memoria collettiva…
[Dialogante 1]  … come la storia di Ercole e del leone di Menea da lui ucciso a mani nude nella prima della sue “dodici fatiche”…
[Dialogante 2]  … dopo di che girava sempre vestito dalla leonté, la pelle del leone, forse per non dimenticare di averlo fatto.
[Dialogante 1]  I posteri tuttavia non l’hanno dimenticato, per secoli, visto che l’iconografia di Ercole ce lo rappresenta sempre con la leonté.
[Dialogante 2]  La forza del mito è tale che tutti se lo ricordino, anche senza che vi siano testimonianze dirette…
[Dialogante 1]  … mentre non di rado ci dimentichiamo perfino delle cose di cui noi stessi siamo stati testimoni.
[Dialogante 2]  Probabilmente il mito, a differenza della memoria testimoniata, è una costruzione più o meno arbitraria, il cui scopo non è un’attestazione di verità, ma il rafforzamento di un potere.
[Dialogante 1]  Lo stesso vale per le religioni.
[Dialogante 2]  Vi sono però anche memorie documentate da oggetti, edifici…
[Dialogante 1]  o altre, stabilmente insediate nella nostra mente con dovizia di particolari.
[Dialogante 2]  Sapresti estrarmene una che ritieni particolarmente stabile?
[Dialogante 1]  Certamente!
[Dialogante 2]  Bene, raccontacela!
[Dialogante 1]  ……… così, sul momento non ricordo………

sabato 17 gennaio 2015

Tratta XXIX.5 – Tutti gli uomini sono uguali



Disegno di Paola Bučan

[Dialogante 2]  L’ovvietà della chiusa della tratta precedente mi conferma l’opinione, talvolta espressa, che “tutti gli uomini sono uguali”.
[Dialogante 1]  Ma come se proprio quella chiusa afferma che noi non siamo Goethe?
[Dialogante 2]  Vero, ma spesso conviene trarle anche da argomentazioni contrarie conclusioni che rinforzino una nostra opinione.
[Dialogante 1]  Ma come questo è possibile?
[Dialogante 2]  Grazie a IMC, che non farebbe altro che spostare il nostro punto di osservazione…
[Dialogante 1]  … consentendoci di ‘localizzare’ (cioè di riferire ad un determinato UCL) la nostra opinione e quindi di farla coesistere con altre.
[Dialogante 2]  Hai colto nella coesistenza l’apporto essenziale di IMC.
[Dialogante 1]  Quindi, cambiando il punto di osservazione, Goethe è uguale a ognuno di noi, per esempio un medico la vedrebbe così. Ma è ovvio e non serve scomodare IMC per questo. Ma, se IMC non può darci di più, che l’abbiamo formulata a fare?
[Dialogante 2]  IMC non è stata formulata per darci cose che non avessimo già, ma solo per ricordarcene quando ce ne dimentichiamo…
[Dialogante 1]  … cosa che ci capita spesso, quando ci fa comodo dimenticare.
[Dialogante 2]  L’equiparazione dei punti di vista avviene però solo in UMC, che ne annulla sistematicamente le immagini sovrapponendole una alle altre. Solo quelle che riusciamo ad estrarre dalla catasta hanno valore per noi.
[Dialogante 1]  E allora iniziamo ad estrarne l’immagine di Goethe…
[Dialogante 2]  … e perché non la nostra?
[Dialogante 1]  Perché ben pochi si fermerebbero a guardarla.
[Dialogante 2]  Vuol dire che val la pena estrarre solo quelle che attirano gli sguardi?
[Dialogante 1]  Non delle persone, ma della storia!
[Dialogante 2]  Un retore della storia anche tu? Ti facevo più metaculturale.
[Dialogante 1]  Hai ragione, ma poi penso al Faust e il pensiero culturale mi travolge.
[Dialogante 2]  È naturale, siamo uomini, ma che la cosa non si ripeta.

venerdì 16 gennaio 2015

Tratta XXIX.4 – Finezze



[È noto che in origine lo scritto autobiografico Goethe era intitolato Wahrheit und Dichtung, solo in un secondo momento divenuto Dichtung und Wahrheit.]
[Dialogante 1]  Perché lo ha cambiato?
[Dialogante 2]  Più che cambiato direi che lo ha ‘anagrammato’.
[Dialogante 1]  Concettualmente mi sembra sia rimasto invariato. Ambedue le collocazioni – al primo o all’ultimo posto – appaiono equivalenti, ugualmente rilevanti per il lettore
[Dialogante 2]  Anche se a quel und vogliamo annettere un valore alquanto dissociativo, tale valore si mantiene in ambedue le varianti.
[Dialogante 1]  Allora perché il ripensamento?
[Dialogante 2]  Non vedo che una possibile ragione!
[Dialogante 1]  E quale?
[Dialogante 2]  Il ‘peso fonetico’, che nel primo caso cade sulla i di Dichtung nel secondo sulla a di Wahrheit.
[Dialogante 1]  E allora?
[Dialogante 2]  Evidentemente lo soddisfaceva di più chiudere sull’apertura della a che sulla chiusura della i.
[Dialogante 1]  Non solo una questione di fonetica ma anche con riflessi ideologici.
[Dialogante 2]  Pensi che la speculazione letteraria raggiunga in Goethe questa finezza di udito?
[Dialogante 1]  Se è per questo, credo che andasse anche oltre, del resto.
[Dialogante 2]  Del resto, molto più modestamente, non credi che la nostra titubanza sul titolo da dare a queste riflessioni siano dello stesso tipo: rapporto oppositivo – brevità/lunghezza – tra titolo e sottotitolo?
[Dialogante 1]  … e forse anche il lieve sconcerto prodotto da quell’opposizione e la sua successiva chiarificazione – metafora ferroviaria – che tuttavia non chiarifica nulla fino al definitivo ‘libro che non scriverò mai’.
[Dialogante 2]  Espedienti plateali e grossolani a fronte delle finezze goethiane.
[Dialogante 1]  Certo, ma noi non siamo Goethe.