sabato 31 marzo 2012

5c) La lingua

[360]
Possiamo considerare la lingua –o meglio la disponibilità a farne uso– l’universo relazionale per eccellenza della specie umana. Conosciamo, per altre specie, dei sistemi di segnali –acustici, visivi, olfattivi, tattili– che svolgono parzialmente le funzioni comunicazionali che solo le lingue sanno svolgere per intero. Una volta acquisita (come, non sappiamo) la capacità di trasformare i segnali in segni, noi esseri umani abbiamo creato vari tipi di linguaggio –verbale, visivo, musicale, mimico-gestuale etc.– a ciascuno dei quali abbiamo affidato il compito di esprimere un aspetto della nostra relazione col mondo. Forse solo la totalità di questi tipi costituisce il nostro universo relazionale nella sua interezza e in questo senso alcune forme di spettacolo, tra cui il Gesamtkunstwerk wagneriano o il cinema ci si avvicina maggiormente. Ma la densità referenziale del segno ha fatto si che ogni ‘tipo’ linguistico copra sostanzialmente la potenzialità comunicazionale di tutto intero l’universo segnico. In particolare i linguaggi verbali (le lingue in senso proprio) si sono differenziate al loro interno in modo da rispondere a tutte le esigenze comunicative della nostra specie. Esiste una corrispondenza fra le varie lingue in uso nell’umanità?

Non sono un linguista, e tanto meno un semiologo, per poter dare delle risposte plausibili. Una modesta attività di traduttore in ambito indo-germanico mi ha rivelato che corrispondenze esatte forse non esistono (di qui le grandi difficoltà di una traduzione attendibile), ma che l’universo relazionale umano in linea generale è esprimibile attraverso la parola per diverse che siano le forme di organizzazione verbale. Nulla saprei dire al di fuori di questo ambito in quanto, ogni lingua rispecchiando una particolare analisi del mondo, ignoro se e fino a che punto queste analisi differiscano tra di loro. Suppongo tuttavia che, data l’accertata unità della nostra specie, le convergenze superino di gran lunga le divergenze. Penso che quindi l’universo o quella parte di universo relazionale che ci accomuna sia espresso dalle varie lingue in modo sufficientemente uniforme perché ci si capisca ancorché non si concordi su ciò che si capisce.

mercoledì 28 marzo 2012

5b) La scuola

[359]
La scuola come ambito di interazione dell’individuo nel suo secondo momento di crescita perdurante ancora il precedente) è, nella sua generalità, una conquista recente, anzi neppure a tutti concessa. Si tratta ovviamente di un notevole avanzamento della cultura mondiale, nonostante la forza trainante, più che da effettivo interesse sociale, fosse troppo spesso costituita da tutt’altro tipo di interessi, tra cui vorrei menzionare, senza pretese di completezza;
  • la promozione di un’ideologia (di una religione)
  • il rafforzamento di un potere
  • la formazione di una classe dirigente (o di classi subalterne)
  • la formazione di un ‘soggetto economico’
  • la formazione di un suddito
  • la formazione di un consumatore
  • la formazione di un pensiero scarsamente autonomo
ecc.

Nonostante tutto la ‘scuola’ è ancora tra le poche istituzioni in grado di attivare la mente, non tanto per le nozioni che fornisce né per i modelli interattivi che privilegia –per esempio il modello unidirezionale da chi sa a chi non sa (anche se sa pensare)– ma per le occasioni di dialogo, di confronto che essa offre. Tutti ricordiamo quanto abbiamo imparato dai nostri compagni o dalle occasionali esperienze che la scuola ha reso possibili. La scuola è infatti –dopo la famiglia ma su più vasta scala– il primo luogo dove l’individuo è chiamato a sperimentare l’universo relazionale che d’ora in poi sarà il suo permanente ambito vitale.

domenica 25 marzo 2012

5a) La famiglia

[358]
Non intendo qui come ‘famiglia’ l’istituto sociale con questo nome, bensì l’ambiente umano che il bambino trova al momento della nascita o che si stabilizza in poco tempo attorno a lui (anche per esempio una famiglia adottiva o, comunque, una comunità formativa).

Analogamente all’imprinting, molto studiato a livello degli animali cosiddetti ‘superiori’, anche per l’uomo vale il criterio che, dal punto di vista psicologico, non genetico, sarebbe bene considerare sua ‘famiglia primaria’ l’ambiente umano di cui si diceva e come ‘famiglia secondaria’ la famiglia primaria dei figli (siano pure adottivi o altro). Sono questi due nuclei che vengono percepiti come ‘famiglia’, anche se non sempre la società li riconosce come tali.

Non avrebbe molto senso prescrivere per questi due nuclei un comportamento standard magari definito per legge, seppure almeno in linea generale esista una buona convergenza, anche tra culture diverse, nei rapporti che regolano la convivenza all’interno dei nuclei. Ciò non vuol dire che non vi siano differenze, anche queste talora assai notevoli, attribuibili ad altre costrizioni sociali come le pratiche religiose o quelle imposte da ideologie politiche o morali. Ma queste differenze vengono in regola attutite se non cancellate dal legame emotivo che costituisce il vero collante della famiglia (quale che sia), in particolare tra gli elementi appartenenti a generazioni diverse. Penso che il legame emotivo dovrebbe sempre precedere quello cosiddetto ‘di sangue’, la cui validità discende da considerazioni ‘di diritto’ –esterne quindi alla sfera emotiva delle persone– se non da criteri patrimonialistici.

Sia come sia, la famiglia è la prima concretizzazione dell’‘ambiente antropico’ che accompagnerà e circonderà l’individuo dalla nascita alla sua morte.

venerdì 23 marzo 2012

5. L'ambiente antropico (La società)

[357]
Ormai, sulla terra, quasi tutti gli ambienti sono più o meno antropizzati. Fanno eccezione le zone polari, desertiche e alcune foreste tropicali. Antropizzazione estrema presentano invece le grandi città e i terreni a coltivazione intensiva magari di specie geneticamente modificate (e in un modo o nell’altro lo sono tutte). Possiamo dire che l’uomo tende a sostituirsi dovunque alla natura [Questa affermazione va, al solito, relativizzata, se si considera l’uomo come facente parte della natura]. Anziché di ‘ambiente antropico’ possiamo parlare di ‘ambiente culturalizzato’ giacché è la ‘cultura’ l’agente trasformazionale introdotto dalla specie umana nel mondo. La domanda è: fino a che punto la ‘cultura’ interagisce con la natura o, al contrario, le si oppone?

A parte il fatto che anche l’opposizione può considerarsi una forma di interazione, la domanda intende chiarire se l’interazione natura↔cultura è positiva o negativa per l’uno o l’altro dei termini, o eventualmente per tutti e due. In qualche caso sembra vi sia vantaggio reciproco come quando un attrezzo agricolo non inquinante –perché attivato da forza animale– stimola il terreno a farsi produttivo e la produzione così ottenuta induce l’uomo a costruire altre e più efficaci attrezzature così funzionanti. È quello che si dice un ‘circolo virtuoso’, che si può mantenere in vita per centinaia, migliaia di anni senza nulla perdere della sua efficacia. Altrimenti accade quando entra in gioco il concetto di ‘sfruttamento’, il cui modello non è circolare ma ‘a restringimento’.
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Nel primo caso (modello circolare) c’è si un consumo energetico, ma a carico di una fonte per noi inesauribile: il sole. Nel secondo l’energia consumata è a carico nostro (o del nostro pianeta) e non si tratta più di un’energia indefinitamente rinnovabile.

[I due modelli qui citati sono fortemente semplificati. Come ognuno può vedere sono stati omessi molti stati intermedi, in particolare quelli resi possibili dallo sviluppo tecnologico (meccanizzazione, automazione…)].

Ma, dirà qualcuno, se anche non indefinitamente rinnovabile, l’energia ottenibile dalla trasformazioni materiali eccede ancora di gran lunga le nostre esigenze vitali…

Può darsi che sia così, ma la nuova emergenza che ancora non abbiamo valutato a sufficienza è la questione dei rifiuti, delle scorie di qualsiasi genere, radioattive o no. Aumentando la produzione, aumentano i rifiuti, ma soprattutto si diversificano i tipi di inquinamento e si instaura una sorta di gara a chi più inquina (oggi si parla anche di ‘inquinamento informatico’).

L’interazione individuo-ambiente è in buona parte codificata dai patti sociali stipulati nelle varie culture. Questi patti è probabile che in una prima fase tribale andassero a vantaggio di tutti i componenti della tribù (non necessariamente anche dei componenti delle tribù vicine, che semmai erano visti come concorrenti sul territorio). Ingrandendosi poi le dimensioni territoriali della tribù e differenziandosi la sua costituzione interna, anche i patti sociali divennero una variabile rispondente alle esigenze dei vari strati (caste, classi) in cui la società veniva articolandosi. È quindi opportuno analizzare anche l’interazione individuo-ambiente secondo percorsi in qualche modo istituzionalizzati. [Non essendo questo breve scritto uno studio con pretese scientifiche, mi limiterò a qualche accenno concernente modelli di normale occorrenza].

venerdì 16 marzo 2012

Più che alla filiazione...

[356]
[Tutto in questa serie di postini incentrati sull’ambiente naturale tiene assai più della ‘fantasia’ che di una seria trattazione scientifica, cui del resto non ho mai aspirato, neppure negli scritti apparentemente più rigorosi. Non per questo li considero frutto di superficiale dilettantismo. Per essi vedrei una categoria, niente affatto nuova, a metà strada tra la verbosità inconcludente di una filosofia di second’ordine e una seria attivazione della mente fuori dai canali dell’ufficialità sia scientifica che letteraria. Una minima parte di ciò che vado scrivendo è un prodotto originale della mia mente (qui andrebbe chiarito cosa s’intende per ‘originale’), il più fa capo ad una variegata formazione culturale, difficilmente ricostruibile.

Sono le scarse pretese, di scientificità come di rango letterario, che questi miei scritti avanzano sul piano della cultura ‘alta’, a permettermi abitudini che altrove apparirebbero riprovevoli o dilettantesche, così ad esempio la scarsezza, quasi assenza di riferimenti e citazioni da autori dei quali condivido il pensiero, spesso senza neppure conoscerlo. Più che alla filiazione sono interessato alla convergenza, anche se non sono mai sicuro se si tratti dell’una o dell’altra.]

giovedì 15 marzo 2012

4. L'ambiente naturale

[355]
[Ogni volta che c’è di mezzo il termine ‘natura’ o qualche suo derivato, non si sa più di che cosa si sta parlando.
- A forza di esercitazioni, i passi più ardui gli riusciranno naturali
- Nuotava con tale naturalezza che…
- È naturale che ti senta a disagio…
- L’artificio è la sua seconda ‘natura’
…]

Quando si parla di ‘ambiente’ l’aggettivo ‘naturale’ perde quasi tutta la sua ambiguità. Difficilmente diremmo naturale l’ambiente di un’'industria farmaceutica’. Viceversa, che un bosco costituisca un ambiente ‘naturale’ per eccellenza, nessuno vorrà constatarlo. E così anche un ambiente d’alta montagna (che non superi però i 4000 m!)

C’è alla base delle connotazioni positive che accompagnano l’aggettivo ‘naturale’ (per esempio nell’espressione ‘acqua minerale naturale’) la convinzione ideologico-religiosa che la Natura sia buona e che gli unici ad essere cattivi siano i suoi figli. Eppure ogni giorno la Natura ci dimostra la sua bontà con terremoti, uragani, inondazioni. Persistono, anche nelle nostre culture ipertecnologizzate, spezzoni di religiosità arcaica che esorcizzano i ‘poteri malvagi’ della natura lodandola per i suoi benefici e implorandola quando si mostra adirata. Assai peggiori di questi ‘ritorni all’antico’ sono i ‘moderni’ interventi correttivi che, con l’intento di migliorare il rendimento della natura, provocano non di rado disastri di dimensioni planetarie. Infatti le deficienze imputate alla natura sono tali unicamente dal punto di vista di chi anziché integrarsi ad essa, preferisce alterare l’equilibrio conseguito in milioni di anni. Parlo ovviamente della specie umana, che non si sarebbe integrata… Ma, un momento, perché avrebbe dovuto farlo? Non è anche lei un prodotto della natura, un suo elemento?

Questa volta è la natura ad essere caduta in contraddizione: produce una specie a norma di legge (naturale), e poi si accorge che non si integra. Vuol dire che non è fatta a norma di legge, che c’è qualcosa in lei che eccede le prestazioni progettate. Ed è il cervello.

Non è la prima volta che la natura va oltre il segno. Le era accaduto con certi dinosauri, con le corna del Cervus Megaceros, forse con il corpo della balena. Presto o tardi –qualche volta molto tardi– la natura si è accorta delle esagerazioni e ha provveduto a eliminarle. Cosa farà nel caso dell’uomo?

Forse non serve neppure che provveda lei, ci stiamo già pensando noi, e non da oggi. In ogni caso non serve invocarla perché le soluzioni che la natura avrebbe da proporci non andrebbero d’accordo con quanto il nostro stadio evolutivo richiede. Ma non è stata la natura a farci evolvere fino al punto in cui siamo?

Sì e no. Sì in quanto motore evolutivo, no in quanto privo di una direzione privilegiata. È una nostra ipotesi che l’evoluzione muova verso il meglio. Per noi è evidente che la Divina Commedia rappresenti qualche passo in avanti rispetto al grugnito dell’Australopitechus. Ma se questi passi ci avessero sensibilmente avvicinato all’estinzione resteremmo dello stesso parere?

A quanto pare l’evoluzione naturale non ha interessato in egual misura tutte le parti del nostro essere. L’ipertelia del cervello sembra aver avviato un secondo binario evolutivo, presto entrato in conflitto con la nostra animalità, il binario dell’ominazione. Da questo si è però separato il binario tecnologico e da ultimo quello informatico-cibernetico. Questi binari –che possiamo definire ‘artificiali’ in opposizione a quello ‘animale’– non hanno inibito l’evoluzione del tronco centrale (l’animalità appunto), da cui si sono differenziati soprattutto per i tempi evolutivi, progressivamente più rapidi. Questo fatto ha prodotto gli squilibri interni che l’animalità non è più in grado di riequilibrare e costituisce oggi il maggior pericolo per la nostra sopravvivenza.

Il semplice ‘ritorno alla natura’ da molti invocato per la nostra salvezza (e di tutta la biosfera) è troppo ingenuamente utopistico per offrire delle prospettive credibili. Se tornare indietro non è una soluzione, non lo è neppure andare avanti ad occhi chiusi, come se il progresso tecnico-informatico non richiedesse almeno una visione il più chiara possibile della via intrapresa.

Probabilmente dovremo individuare un quarto binario su cui dirottare la nostra evoluzione. Quale sia questo binario non saprei dire. Siccome però l’argomento mi interessa –non ovviamente a livello personale– mi ripropongo di tornarci su.

mercoledì 14 marzo 2012

3. La definizione di ambiente

[354]
[Al Numero 1 di questa serie ho commesso una scorrettezza metodologica. Oppure no?
Ho parlato dell’individuo come ‘ambiente di se stesso’ senza definire ‘ambiente’. Ma normalmente non definiamo ogni parola che usiamo! Sì, ma qui lo stiamo facendo, dopo essercene serviti…
Non è inusuale in logica introdurre un termine in un caso particolare per poi generalizzarlo. Ed è questo ciò che sta accadendo. Comunque resta l’ambiguità: ambiente significa la parola ‘ambiente’ o è già una sua applicazione? Detto altrimenti: la ‘definizione’ riguarda la parola o ciò che con essa vogliamo definire?
Ma perché indugiare su questi bizantinismi?
Perché proprio dalla loro ambiguità dipendono non solo molti malintesi, ma su di essi si possono costruire argomentazioni capziose e interi percorsi giudiziari. Troppo spesso parliamo senza curarci di definire né di che cosa parliamo né le parole con cui ne parliamo.]

Solo a avvenuta emergenza dell’Io possiamo chiaramente superare da questo l’ambiente che lo circonda. L’autocoscienza va di pari passo con la conoscenza del mondo. Quanto più conosciamo il mondo (che è nella sua massima estensione, il nostro ambiente), tanto più conosciamo noi stessi.

[Buona ragione per esplorare il mondo senza pregiudizi ideologici o religiosi]

Qualcuno avrà certamente notato la contraddizione contenuta in ciò che sto dicendo: da un lato affermo la necessità che l’emergenza dell’Io preceda la costruzione dell’ambiente, dall’altro dico che questa emergenza è subordinata a quella costruzione…

[È probabile che senza la contraddizione non ce la caviamo nell’uso della mente. Non è un caso che IMC ha proprio nell’autocontraddizione il suo punto di forza.]

Un’altra lettura potrebbe escludere la questione delle priorità. Dati due eventi, la priorità dell’uno sull’altro dipende unicamente dalla ‘freccia del tempo’. Se il tempo fosse areale e non lineare, come vuole la convenzione, molte contraddizioni – se non tutte– cadrebbero e la priorità dell’IO sull’AMBIENTE o il suo contrario perderebbero ambedue il loro senso.

[Ma una lettura del genere richiederebbe una revisione radicale del concetto di ‘tempo’, revisione a cui non vorrei né saprei mettere mano.]

Più semplicemente le controversie sulle priorità si risolverebbero o, come nel caso di Leibnitz e Newton a proposito della scoperta del calcolo infinitesimale, con la dichiarazione di contemporaneità o di totale indipendenza delle scoperte.

Ritornando ora alla definizione di AMBIENTE, più che la questione della priorità penso meriti attenzione il rapporto tra questo e il centro intorno a cui lo costruiamo. È un rapporto di subordinazione dell’uno all’altro, di prima reciprocità, di dominanza alterna. La casistica è molto variegata e non inquadrabile in tipi fissi. L’unica cosa sensata che si può dire in generale è che, qualsiasi intervento si voglia praticare ne vanno accuratamente studiate le conseguenze su ambi gli elementi, il centro –eventualmente specificato come IO– e l’ AMBIENTE. Non sempre lo si fa, anzi il più delle volte l’interesse particolare prevale e solo in un secondo tempo –spesso troppo tardi– ci si rende conto delle connessioni, e chi ci rimette è di regola l’ AMBIENTE.

martedì 6 marzo 2012

2. Un’emergenza: l’Io


[353]

Nella teoria dei sistemi complessi e segnatamente in biologia si parla di emergenza quando dall’interazione di un sistema sufficientemente grande di elementi si produce un cortocircuito che dà origine a un fenomeno non previsto né prevedibile a partire da quell’interazione e da quegli elementi.

Così dalla separazione individuo/ambiente non era immediatamente deducibile la comparsa dell’IO, tant’è vero che ci sono voluti milioni di milioni di anni perché ciò avvenisse. L’individuo non è ancora l’IO, gli manca il “riflesso di coscienza”, che si manifesta, a quanto sembra, solo nei primati per poi dominare tutta la sfera comportamentale solo con l’uomo (e anche qui ci sarebbe da discutere...).

Non è da pensare che l’emergenza dell’IO sia stata istantanea e simultanea per tutti gli ominidi di un certo livello evolutivo. Questo livello avrà posseduto la coscienza dell’IO a un diverso grado, permettendo alla selezione naturale di agire positivamente su di essa. I vantaggi di una più sviluppata coscienza dell’IO avranno probabilmente compensato eventuali svantaggi di tipo fisico. Ma quali sono questi vantaggi?

Non tanto una maggiore reattività, giacché molti animali erano certamente più dotati in tal senso, e neppure una memoria particolarmente duratura: un cane, un gatto, ricordano benissimo da chi possono aspettarsi un buon boccone e da chi una pedata. È piuttosto il confluire di tutte queste reazioni in un unico punto che viene assumendo un poco alla volta una centralità che ne permette il pronto riconoscimento e quindi il dominio psichico se non fisico. A questo va aggiunta una capacità di previsione che non si attiva solo in presenza di un segnale di allarme –come quando una lepre ode dei passi e appizza le orecchie– ma anche in assenza di qualsiasi segnale, semplicemente quando la situazione ambientale ne ripete un’altra che si è visto essere di pericolo. E ancora, l’applicazione tutta umana del principio di causa permette di inferire una situazione di pericolo da eventi che nulla sembrano avere in comune con quella: da qualche parte viene firmata una dichiarazione di guerra, pochi minuti dopo crolla un palazzo a mille chilometri di distanza.

L’emergenza dell’IO come intelletto pensante permette anche di creare situazioni che siano di pericolo per altri senza che nulla lo dia a vedere: la tecnologia non fa che perfezionare di continuo gli strumenti adatti, dalla balestra al missile intercontinentale. Stando a quanto qui si dice, l’emergenza dell’IO gioverebbe soprattutto a risolvere rapporti conflittuali a favore di quello fra i contendenti che possiede un IO più forte, il che peraltro non è sempre vero. Ma nell’espletare tutte le sue potenzialità l’IO non si limita certo a questo. La sua comparsa sulla scena evolutiva ha portato con sé molte altre conseguenze, tra cui un incontenibile bisogno di crescita, di superamento dallo stato attuale in direzione di uno sempre più appetibile, un’incessante corsa verso un welfare in permanente fuga davanti a noi. Ed è assai poco probabile che questa fuga, che un termine deve pur averlo, lo trovi nel benessere di tutti.