giovedì 28 febbraio 2013

La vita è discontinua (II)


[521]
La vita è discontinua.

O lo è il tempo?

Per lunghi tratti ci illudono che il domani seguirà all’oggi così come l’oggi ha tenuto dietro allo ieri, ma non è sempre così. La vita ha dei buchi, delle interruzioni, durante le quali non succede nulla, nulla almeno che venga ricordato, e quel che non vien ricordato è come non fosse mai stato, anzi, a ben guardare, questi buchi tendono a riempirla tutta la vita, seppure i buchi possano riempire qualcosa (… era una giacca piena di buchi…). Talvolta la vita stessa non è che un buco nel nulla, ma per fortuna noi non ce ne accorgiamo. E come potremmo?

Che la vita sia discontinua lo dimostra il fatto che ci siano un prima e un poi, ben distinguibili, tra i quali c’è l’adesso, e appunto l’adesso è il punto di discontinuità. Ma l’adesso non è un punto o, se lo è, è un punto mobile –una traccia?– che ci corre dietro (o siamo noi a corrergli davanti?)

Spesso tempo e vita corrono paralleli senza incontrarsi. Passano i momenti, le ore, i giorni, gli anni, passa il tempo e la vita non lo conosce o, se preferite, passa la vita e non sa neppure il quando. A che si deve questo scollamento? Certo non al tempo, che non è minimamente interessato a ciò che lo riempirà o non lo riempirà. Per la vita il tempo è già il buco di cui si è detto e tocca a lei riempirlo, cosa tutt’altro che semplice. Se non ci riesce, il tempo cessa di esistere e un secondo equivale a un miliardo di anni e questo manca a un istante, perché nulla vale a distinguerlo. Chi distingue e dà senso al tempo è la vita che, con inizio e fine, nascita e morte, lo trasforma da nulla a qualcosa ,e questo qualcosa, per essere, ha bisogno del nulla che logicamente lo precede.

Ma chi ha dato al nulla la forma che ne ha permesso la trasformazione?

Chiedetelo alla mente, che forse ne sa qualcosa.

lunedì 25 febbraio 2013

Una nuova esperienza: l’essere vecchio (I di XIX)


520
[Serie di diciannove postini]

A dire il vero, del tutto nuova non è. Sono già parecchi anni che mi ci provo, ma solo da alcuni mesi posso dire di esserci riuscito. Ed è una fortuna che la vecchiaia ha bisogno di tempo per instaurarsi. Se si presentasse tutte insieme d’un sol colpo, probabilmente non la sopporteremo. Così per esempio, nel giro di un paio di anni ho smesso successivamente
·       di comporre
·       di raccogliere coleotteri
·       di guidare
·       di parlare tedesco
·       di scrivere
·       di suonare
·       di camminare

Fino a dicembre scorso mi sembrava ancora possibile  di rinunciare a tutto questo pur di avere ancora il dominio sul pensiero. Poi anche questo ha cominciato a vacillare, dapprima con la perdita della memoria, poi con la sempre più frequente di disgrafia e sconnessione logica e da ultimo con un’incidente stanchezza del corpo e della mente.

Benché mi  renda perfettamente conto di questo rapido e inarrestabile declino, non riesco a dolermene, come forse dovrei. È come se –e in effetti così è– tutto seguisse un suo corso naturale e, per così dire, ‘giusto’, al punto che non vorrei neppure ritornare alla giustezza di un tempo, che oggi mi appare quasi incomprensibile.

Cosa strana: pensando al domani non provo particolare tristezza per tutto quello che non vedrò più, giusto per l’immagine di Paola che si aggira sola nelle istanze e tra gli oggetti che ci hanno visto tanti anni insieme. Mai un’immagine falsa, perché sappiamo tutti e due, che questo non accadrà mai.

Cantalupo, 12–I–2011

venerdì 22 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xix)



[519]
 Ma –mi sento di dire e mi dico io stesso– se nessuna forma di governo, neppure la democrazia o la meritocrazia ti vanno bene, come pensi vadano governati i 7 miliardi di individui che popolano oggi la Terra (e che tra breve saranno 8, 9…)? E che in qualche modo vadano governati, non essendo pensabile che lo facciano da soli, magari ciascuno per proprio conto…

Certo, qualche passo in direzione dell’autogoverno e di una maggiore responsabilità personale e collettiva nella gestione delle cose di questo mondo lo si dovrebbe pure fare, dubito però che questi passi possano risolvere il problema della nostra sopravvivenza, che noi stessi giorno per giorno non facciamo che aggravare. Non credo infatti, stando a ciò che vediamo accadere da migliaia di anni, che la specie umana sia a tal punto perfettibile da raggiungere, nei pochi decenni che il processo tecnologico ci concede, quel grado di perfezione che la sopravvivenza richiede. È, credo, più saggio, anziché inseguire un’inafferrabile perfezione, contentarci dell’instabilità che da sempre ci appartiene e che, bene o male, abbiamo imparato a gestire. In altre parole, quale che sia il fondamento che intendiamo dare alla nostra società, manteniamo la disponibilità al cambiamento, unica garanzia di stabilità. Il meccanismo ci è ben noto da ciò che vediamo in natura, dove legge universale sembra essere la trasformazione.

Tornando quindi al problema della forma di governo più idonea ai miliardi di nostri conterranei (in senso astronomico), ritengo pericoloso ogni tentativo di bloccare su un’unica scelta la pluralità delle alternative in gioco. A questa apertura al molteplice virtuale penso però sia necessario associare la consapevolezza di una scelta contingente ma vincolante nella misura in cui si conservano le condizioni che l’hanno determinata. Quest’ultima precisazione lega in qualche modo una contingenza a una stabilità procedurale. E questo spero valga a tranquillizzare i timorosi (come me) della precarietà.

Fine delle 19 riflessioni su politica, potere, formazione.

giovedì 21 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xviii)


[518]
Giustificazione della meritocrazia

Gli animali riconoscono la meritocrazia?

Non credo che la riconoscano. Piuttosto la subiscono. Sotto forma del diritto del più forte. Anche la parola ‘diritto’ appartiene al linguaggio umano, l’animale non fa che reagire con un comportamento di sottomissione e un altro di dominanza, iscritti ambedue nel suo codice genetico, e, a seconda dei casi prevale l’uno o l’altro. Il terreno di confronto è la ‘lotta’, che nel caso umano si amplia assai spesso a ‘guerra per il potere’. Questa a sua volta in certe condizioni si ritualizza, e il ‘potere’ viene assegnato a chi è in grado di esibire dei ‘meriti’. Che cosa s’abbia da intendere per ‘merito’ non è definibile in generale anche perché ciò che per gli uni è un merito per gli altri è un demerito. Per uscire da questa situazione di stallo abbiamo inventato il ‘voto’ e la ‘democrazia’, cosicché basta saper contare che il merito va automaticamente al posto giusto. Con questo semplice ‘trucco’ –perché di questo si tratta– si risolvono anche i casi più difficili. Non è detto che si risolvano nella maniera giusta, ma anche il concetto di ‘giusto’ è una variabile che assume spesso valori fortemente diversificati, tanto che occorre passarli nuovamente al vaglio del voto e della democrazia e così via. A un certo punto converrà arrestarci per non perdere del tutto il concetto di ‘valore’ e quindi il senso stesso delle nostre decisioni. Ma qual è questo punto?

E c’è chi vorrebbe fissarlo una volta per tutte e chi vorrebbe vederlo fluttuare nell’indecidibilità ed ogni passo è come se fossimo rimasti fermi, e con poche speranze di poterci mai muovere. L’illusione del ‘passo compiuto’ dobbiamo fabbricarla noi stessi a e chi ci riesce diamo un ‘premio al merito’ sotto forma di potere. Ed ecco che abbiamo giustificato in un colpo solo il merito e il potere. Ma li abbiamo veramente giustificati?

Siamo alle solite. Chi dovrebbe assicurarcelo?

Sembra che senza una ‘superiore istanza’ non ce la caviamo. E se questa superiore istanza non si trova, non ci resta che tirarci su per i piedi. E in questo senso, ma solo in questo, la meritocrazia può dirsi giustificata.

mercoledì 20 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xvii)


[517]
Ingiustizia della meritocrazia

È da quando è in vigore la scuola dell’obbligo che si è avvertita la necessità democratica di una scuola non discriminante né per censo né per opportunità. Questo come reazione a una visione elitaria della società, che interpretava la cultura –soprattutto certi modelli culturali– come fattori di privilegio, riservato alle ‘classi alte’. Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, ideologicamente dominati dall’immagine politica della Resistenza, la democratizzazione della scuola ha compiuto alcuni dei suoi passi avanti fino verso la fine degli anni Settanta, dopodiché ha avuto inizio un lento movimento di riflesso con la rivalutazione della scuola privata, in Italia gestita soprattutto dalla Chiesa. Come correttivo di questo spostamento ‘a destra’ la classe politica –tutta, compresa la sinistra– ha riportato in auge la meritocrazia, già efficacemente analizzata e criticata precedentemente in ambito marxista.

La specie umana ha evidentemente ricevuto in dono dall’evoluzione la memoria corta, perché ha visto improvvisamente rinverdire argomenti che già negli anni Cinquanta avevo considerato logicamente e politicamente indifendibili. Ne riporto qui alcuni che mi sembrano a tutt’oggi validi.
·       Il merito non è disgiunto dall’avere, il figlio di un noto avvocato potrà beneficiare dello studio paterno oltreché della notorietà famigliare.
·       È molto probabile che sia facilitato negli studi un ragazzo cresciuto in un ambiente universitario o provvisto di una nutrita biblioteca.
·       Genitori abbienti spendono in genere per l’educazione dei figli più di un addetto all’ufficio postale.
·       Mozart avrebbe faticato molto di più ad essere Mozart se non fosse stato figlio di Leopold.
·       La famiglia Bach era una garanzia.
·       Non sono tanto i meriti acquisiti da te a farti fare strada, quanto quelli acquisiti da tuo padre.
·       Ha fatto un decisivo salto di qualità con la morte dello zio miliardario.
·       A scuola era rimasto indietro fin quando il padre non gliela comprò.
·       Era sempre stato il primo della classe fin quando la scuola non venne comprata dal padre dell’ultimo.
Come si fa a credere nella meritocrazia?
Vediamo ancora.
Schubert aveva indubbiamente ciò che si dice una eccezionale vena melodica. Non solo le sue melodie fiorivano con una naturalezza e spontaneità come se fossero esistite da sempre, eppure ognuna di esse è di una irripetuta originalità. Pensate che gli vadano riconosciuti dei meriti per questo?
È risaputo che Picasso aveva un tratto grafico di straordinaria sicurezza. Ne aveva anche il merito?
Einstein, dietro un irrisolto problema scientifico, sapeva individuare l’inedito ‘stile di pensiero’ che l’avrebbe risolto. Sia lode al merito!
‘Ma come!’ –potrebbe dire qualcuno– Costoro già erano stati favoriti dalla sorte per aver ricevuto in dono una genialità che nessuno studio avrebbe mai potuto produrre, e noi dovremmo in sovrappiù […] anche il merito?
“Sì, perché a beneficiare di quella genialità siamo anche noi.”
“D’accordo, vuol dire che parte di quel dono è toccato ad altri. Ma dove sta il merito?”
“Nel lavoro che da un dono ha tratto un beneficio per tutti.”
“Quindi il merito va al lavoro compiuto e non al beneficio procurato.”
“È un modo di ragionare moralistico. Certo, quel lavoro avrebbe potuto essere compiuto solo a vantaggio proprio, ma probabilmente la soddisfazione per un vantaggio condiviso è maggiore, quasi un secondo regalo aggiunto al primo.”
“E quindi, secondo te, l’unico modo per trasformare in ‘merito’ un dono ricevuto è di non farne uso o di non riconoscerlo come un ‘dono’ e quindi neppure come motivo di gratitudine.”
“Sì, non fosse altro per la scarsa simpatia che provo per la ‘gratitudine’”.
“Sei tutto strano! Non dovremmo riconoscere alcun merito a Schubert, Picasso ed Einstein per tutto quel che hanno donato al mondo, e neppure essergliene grati. E che ci guadagniamo pensando a questo modo?”
“Ma perché dovremmo guadagnarci? Non basta che non ci perdiamo? O che ci guadagniamo per aver perso di ipocrisia?”
“Io però non riesco a fare a meno di questa ipocrisia.”

martedì 19 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xvi)


[516]
Una riforma della scuola che voglia essere effettivamente innovativa dovrebbe, credo, cominciare da una riconsiderazione del tempo scolastico. Nell’ordinamento in genere adottato nelle scuole occidentali prevale il concetto di lezione, rigorosamente monotematica e della durata nominale di un’ora (tre quarti d’ora effettivi). A parte il fatto che non sembra molto corretto costringere la trattazione –soprattutto se discussa entro predefiniti limiti temporali– è poco probabile che l’argomento supporti anche l’incasellamento nei riquadri di un anno scolastico.

Già l’assegnazione di un argomento a una determinata disciplina risulta dettata da esigenze organizzative dell’istituto più che da criteri didattici o scientifici, l’impermeabilità delle varie discipline tra loro appare addirittura anacronistica in un’epoca di fioritura delle interdiscipline –dalla logica alla semiotica, alla teoria dei sistemi-. Assistiamo invece alla riduzione, o meglio alla speciazione delle transdiscipline in aree disciplinari specifiche, mentre ciò che servirebbe sarebbe piuttosto il contrario, il recupero di ciò che di sovraspecifico collega tra loro le varie specificità. Certo per parlare di collegamenti bisogna conoscere i punti da collegare. Un conto è tuttavia conoscere quei punti nella loro presunta indipendenza –e magari anche la natura dei collegamenti– un altro considerare tutti questi elementi nelle loro correlazioni sistemiche….

Mi rendo conto di elencare delle ovvietà che dovrebbero essere tali anche per un bambino delle elementari, laddove spesso non lo sono neppure per i suoi insegnanti. Parlavo giusto oggi con una bambina di Ia elementare, alla quale chiedevo la sua opinione sulla scuola, i programmi, gli interessi degli allievi ecc., e mi sono accorto che non una sola delle risposte implicava, da parte della bambina, un uso del suo cervello diverso dall’uso di un ripetitore meccanico. Sono però bastati dieci minuti di dialogo libero, non incanalato nel solco dei libri di testo, che è balzato fuori il pensiero schietto, vivace, irriverente di una bambina intelligente di nove anni.

Invano ci si domanda perché, dopo tutto ciò che si conosce del pensiero infantile e le sue potenzialità, ancora si insista su un modello di scuola fondato sulla ripetizione passiva, sull’accumulo di un pensiero inerte, irriflesso, falso anche se non lo sono i suoi contenuti. Mette conto cercar di capire le ragioni di questa passività denunciata da più di un secolo e la cui denuncia spesso troviamo ribadita nella premessa ai vari testi di riforma che si sono succeduti nel corso degli anni, quando gli specifici programmi disciplinari restano ancorati alla tradizione contenutistica che è il vero ostacolo da infrangere. Non si dice con ciò che i contenuti siano trascurabili o da posporsi alle questioni di metodo. Al contrario, i contenuti, per ricevere tutta l’attenzione di cui hanno bisogno, vanno trattati in modo da mettere in rilievo le loro peculiarità e questo può accadere soltanto se è sufficientemente sviluppata una metodologia del confronto per quanto possibile svincolata da ideologismi preconcetti. La scuola dal canto suo non rinuncia a proporre, anzi a imporre la sua interpretazione delle cose e della relazione tra esse. Certo, sarebbe improbabile una scuola che, anziché dare risposte, offrisse solo domande e non si curasse neppure di verificare le risposte. Non è ovviamente questa la scuola che vorremmo vedere sostituita a quella delle risposte in assenza di domande. Perché è questa la ‘normalità’ scolastica: che vengano infilate collane di riposte a domande che nessuno degli allievi ha mai posto né la scuola stessa ha esplicitamente sollecitato. C’è, troppo di frequente perché ciò sia casuale, uno scollamento tra ciò di cui i ragazzi vorrebbero essere informati e ciò di cui la scuola pensa sia bene informarli. Ma anche le cose che i ragazzi vorrebbero sapere sono, sia pure indirettamente, pilotate dagli adulti, cosicché il margine decisionale resta per loro eccessivamente esiguo. Non penso affatto a un bambino –e neppure a un ragazzo– padrone, ma a un individuo precocemente consapevole e responsabile dei rapporti che lo legano al mondo quale lui lo vive. Nulla di astratto e forzato ma un mondo della misura a lui accessibile e di cui possa farsi carico per la parte che gli compete… Ma qual è questa parte?
Non è certo, non può essere la stessa per ogni individuo, e di questa variabilità delle condizioni di vita, in una parola delle diversità tra gli umani e le loro abitudini il bambino va reso consapevole il più presto possibile così come va reso capace di gestire queste diversità senza ricorrere alla violenza o anche solo a una presunzione di superiorità. Questo per la sopravvivenza. Sono stato indirettamente, tramite mia moglie cresciuta nella Jugoslavia di Tito, testimone dell’educazione pubblica nella Jugoslavia di Tito, e, per ciò che riguarda la socialità, la considerazione dell’altro e di se stessi in rapporto a lui, mi è sembrata un modello degno della massima attenzione.

lunedì 18 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xv)


[515]
Perché l’evoluzione dei processi formativi ha privilegiato l’accumulo additivo alla trasformazione integrativa?

Azzardo una risposta. Perché il sapere quantificato è acquisibile come un qualsiasi oggetto materiale e non impegna il compratore al di là dell’esborso di una certa quantità di denaro: mercificazione del sapere. La trasformazione integrativa richiede invece all’individuo pensante una partecipazione attiva ben più faticosa e rischiosa, cosicché chi se lo può permettere è ben disposto a barattare parte dei suoi averi con la fatica e soprattutto il rischio di acquisire un sapere che potrebbe rivelarsi inutile o poco redditizio. Il possessore di averi, in altre parole il capitalista, possiede anche i mezzi per garantirsi contro eventuali ‘insuccessi’. Inoltre un’abile e poco scrupolosa gestione dell’avere ne accresce la consistenza quasi per legge matematica. Non c’è quindi da meravigliarsi se la scelta cada di preferenza sull’accumulo anziché sulla trasformazione del sapere. E la scuola continua a puntare più sulla patrimonializzazione di un sapere acquisito che sulla ricerca di nuovi spazi nei quali impegnare il pensiero anche dei giovani e giovanissimi.

Ma c’è un’altra risposta possibile. Un conto è gestire un sapere consolidato, verificabile mediante un semplice confronto col prototipo, un conto è gestire un pensiero aperto, cosa che richiede una disponibilità alla revisione di concetti acquisiti ed eventualmente, l’accettazione di nuovi. Il pericolo di veder indebolite posizioni conquistate spesso con notevole dispendio di energie –questo vale soprattutto per le università– frena la ricerca del nuovo. Giova peraltro al rafforzamento di punti di vista di recente acquisizione, e questo è un aspetto senz’altro positivo della ricerca. Da un punto di vista occupazionale e più generalmente lavorativo però sono maggiormente avvantaggiati gli enti formativi che richiedono di più e mettono a disposizione dei ricercatori e degli studenti maggiori risorse, anche distogliendole da settori considerati più sicuri. Il rischio viene per lo più compensato dal più alto rendimento in termini di efficienza e di prestigio. Tutto questo di manifesta ovviamente nel tempo, ragion per cui si tratta di pianificare sui tempi medio-lunghi e questo vale sia per l’iniziativa singola che per i progetti coinvolgenti una moltitudine di soggetti.

domenica 17 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xiv)


[514]
La sostituzione di una parola con un’altra non procura in genere grandi difficoltà. Altra cosa è sostituire una procedura a cui per giunta eravamo legati per tradizione. Qui si tratta addirittura di sostituire il meccanismo stesso della tradizione, l’accumulo additivo, con un processo trasformazionale continuo, non più a stati finiti. Per chi è abituato ad ancorarsi a punti fermi, ad articoli di fede, l’improvviso ritrovarsi sul terreno mobile di un relativismo pur mitigato da IMC genera naturali reazioni che non possono essere semplicemente accantonate, anche perché sono inizialmente ben più forti che non le spinte innovatrici, avvertite come destabilizzanti e pericolose, mentre non sono che la premessa di una diversa stabilità fondata sul divenire.

Occorre quindi studiare una metodologia formativa adeguata a questa trasformazione, una metodologia che ci faccia transitare senza scosse dall’era dei punti fermi, delle ideologie e dei principi a una delle ipotesi, della mobilità e del pensiero, della relatività del vero, in breve all’era metaculturale. È una trasformazione in atto già da tempo, forse fin da quando Homo sapiens si è separato come specie dal ceppo degli ominidi, ma sembra che solo ora cominciamo a capire il tipo di pensiero che essa comporta. E le resistenze sono ancora fortissime: evidentemente i vantaggi prodotti dal pensiero culturale erano e sono tali da rendere assai difficile il suo superamento. Prevale il timore che la sua perdita ci destabilizzi irrimediabilmente, quando è vero piuttosto il contrario, come recita l’antica parabola della quercia e della canna. Anche la perdita delle certezze newtoniane non sembra davvero avere indebolito il pensiero scientifico. Grazie ai passi compiuti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la scienza ha conosciuto una sorta di stabilizzazione che si è rivelata assai più efficace della precedente. Questa però, a ormai un secolo dal suo proporsi è ancora osteggiata politicamente dal persistere delle ideologie e soprattutto delle religioni, che sono incapaci di riconoscersi nel nuovo corso, il quale, se qualcosa destabilizza, è l’idea stessa del ‘potere’. È opinione del tutto comprensibile che chi il potere ce l’ha, anche se permanentemente insidiato da altro potere, non sia disposto a vederlo dissolversi ai primi raggi di un nuovo sole.

lunedì 4 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xiii)



Dalla serie Ragazzi volanti, di Tamara Abdul Hadi
[513]
Ma che dovrebbe fare la scuola per ovviare a questa perdita?

Non può certamente rinunciare alla fase dell’apprendimento. Né tantomeno a quella del consolidamento attraverso la ripetizione di ciò che si è appreso. Alla scuola chiediamo l’impossibile, che aggiunga cioè alle fasi di apprendimento e consolidamento una fase indipendente di ricerca e sperimentazione, che tuttavia non vada a detrimento delle altre due.

È ipotizzabile un percorso del genere?

No, se lo si pensa in termini additivi, forse se si ripensa l’intero processo formativo come integrante le tre fasi, consolidando cioè l’apprendimento attraverso la ricerca del nuovo che ha comunque bisogno del conosciuto per salire –per così dire– sulle proprie spalle. Cose che conosciamo benissimo dal mondo della scienza e che ora si tratta di trasferire –ancora una volta questo verbo– ad altri settori del pensiero. La soluzione sta infatti nel sostituire alla semplice addizione l’integrazione.