martedì 31 luglio 2012

Da qualche parte vi deve essere...

[413]

Spesso, a difesa dell’accumulo di capitale si adduce il fatto che un capitale investito produce sì altro reddito ma anche altro lavoro, e perfino un guadagno dissipato in spese voluttuarie, fa comunque rientrare in un circolo ‘virtuoso’ il denaro impiegato. L’importante è che si guadagni e si spenda, la società nel suo complesso non potrà che beneficiarne. Dedicherò altri postini a mostrare, per quanto le mie conoscenze e capacità ragionatrici potranno, la fallacia di questi argomenti. Per ora mi limito a sollecitare chi legge o ascolta righe come queste a estendere la sua analisi aldilà dei ristretti confini economici del discorso. Se la semplice circolazione del denaro produce ricchezza, anche in quantità assai grandi, da qualche parte vi deve essere un equivalente impoverimento. Nessuno più crede nella creazione del nulla e neppure nella generazione spontanea. Perfino il buondio deve aver preso da qualche parte la materia del suo universo. Il big-bang deve essere stato preceduto da un inimmaginabile concentrazione di energia cui abbiamo dato il nome di ‘vuoto’ e che abbiamo immaginato come negatività, assenza di attualità, pura potenzialità.

domenica 29 luglio 2012

Un forte interesse

[412]

Salvo eccezioni non più di moda, oggi i soldi –magari con una spintarella iniziale– i soldi si fanno in vita, cioè in un lasso di tempo relativamente breve. Pochi in realtà ci riescono e a determinate condizioni. Prima tra queste un forte interesse per essi. È molto più difficile scrivere una buona poesia, fare una scoperta scientifica o fondare un nuovo teorema di logica o matematica che accumulare un milione di euro (gli altri vengono da se). Occorre però mettere in gioco tutte le energie mentali di cui uno dispone (ma non c’è bisogno di averne in sovrappiù). Un certo quantitativo di fortuna non basta, sempreché si abbia l’abilità di coglierla. Occorrono infine buone capacità tecniche per trarne tutto il potenziale di sviluppo che vi è contenuto, e soprattutto la massima indifferenza per le leggi, i diritti degli altri e i danni collaterali che si producono. Tutte cose che, se l’interesse per il guadagno è abbastanza forte, si imparano abbastanza presto. Concediamo anche che un tocco di genialità non può che giovare all’impresa (in senso lato non meno che ristretto).
È necessario naturalmente che uno sia disposto a sacrificare al denaro –e al potere– l’intera propria vita, e a noi non resta che compiangerlo per questo.

venerdì 27 luglio 2012

Novanta postini politici

[411] 
Anch’io, come molti –ma ancora troppo pochi– attendo con ansia la fine dell’ ‘era Berlusconi’ che, anche se non più lunga di un batter di ciglia nella storia dell’uomo, per me individuo singolo come tanti altri, ha una durata non più sopportabile. E non è tanto la persona che intendo, quanto ciò che rappresenta per e nel nostro paese, addirittura oltre i suoi confini, per un modo di essere dell’uomo in quanto animale politico. Il disprezzo che la sua parola, i suoi comportamenti dimostrano per chiunque non abbia il suo standard economico credo dovrebbe riversarsi su lui stesso ma ciò non accade e uno si domanda angosciato come mai non accade. E la risposta è ancora più angosciante perché il servilismo di noi italiani giunge fino all’identificazione (sognata con il padrone?), peggio assai: perché negli uomini sembra essere diffuso questo bisogno di sottomettere il proprio pensiero, la propria individualità non tanto al migliore quanto a chi, pur essendo come gli altri e forse da meno, mostra di che cosa saremmo capaci al suo posto. E di che cosa è capace Berlusconi? Di farci sognare di essere lui, ma soprattutto di avere i suoi soldi.

mercoledì 25 luglio 2012

Terzo commento d’autore alla serie dei postini del ‘come se’


[410] 
Anche la struttura del ‘come se’ non è sempre evidente. Talvolta si limita a una semplice metafora, talaltra, come nel caso della ungarettiana Memoria, il ‘come se’ estende il velo del dubbio anche sul ricordo.

martedì 24 luglio 2012

Secondo commento d’autore alla serie dei postini del ‘come se’

[409]
I visitatori avranno notato che, come per tutti i postini della raccolta, non vale sempre il principio della coerenza tematica. Capita addirittura che il postino non tenga neppure fede al suo titolo. Mi scuso con i fans della coerenza.

lunedì 23 luglio 2012

Primo commento d’autore alla serie dei postini del ‘come se’



James & Nancy, della serie Letti disfatti, di Joseph Gerhard
[408]
Una difficoltà che ho incontrato nello scrivere questi ‘postini del come se’ è scaturita dalla mia scelta di non avventurarmi nella critica letteraria, che non mi compete. Confesso tuttavia di non aver sempre mantenuto fede al proposito e di essermi lasciato andare qua e là alla tentazione di esprimere giudizi di carattere estetico. Prego il ricevente –lettore o visitatore che sia– di non dargli eccessivo credito.

venerdì 20 luglio 2012

Nelly Sachs


[407]
Vorrei chiudere questa serie di postini del ‘come se’ nel nome di una poetessa alle cui opere sono particolarmente affezionato per come ha contribuito a restituire alle lingue e alla cultura tedesca la dignità perduta una sessantina di anni fa.
Hängend am Strauch der Verzweiflung
und doch auswartend bis die Sage des Blühens
in ihre Wahrsagung tritt –

Zauberkundig
plötzlich der Weißdorn ist außer sich
vom Tod in des Leben geraten –


(Pendente dal cespo della disperazione
eppure in attesa che la leggenda dei fiori
avveri la sua profezia –

Esperto di magia
d’un tratto il biancospino fuori di sé
dalla morte s’è trovato nella vita.)

Speranza dalla disperazione, luce dalla notte, vita dalla morte, la poesia di Nelly Sachs ha permesso alla Germania di rinascere dalla distruzione fisica e morale cui la storia l’aveva condannata. Non è stata l’unica, ma la fusione in lei della lingua della vittima con quella del carnefice le ha conferito un’emblematicità che penetra ogni sua parola, ogni suo gesto poetico. Il tema biblico di molte sue poesie, che in altri suonerebbe voluto e fastidioso, in lei è autentico: Nelly Sachs è forse l’ultima grande voce profetica che dall’antichità giunge fino a noi.
Di lei ho messo a suo tempo in musica varie poesie, la cui levità e intrinseca mu sicalità mi ha particolarmente attratto.
Che cosa ci guida nella scelta dei testi da musicare?
Il contenuto, certo, quello esplicito, anche se spesso si sperde nella poesia moderna di non immediata accessibilità; più ancora di improbabili accostamenti verbali, la ‘semantica di contatto’ quale scaturisce, quasi epifanicamente, da questa improbabilità; non ultimo, il ‘suono’ della parola, il ritmo del verso –anche e soprattutto se irregolare–, la ‘forma’ dell’insieme con le sue intime corrispondenze e i suoi inespressi richiami ad altro. Ma come può la musica tradurre tutto questo?
Intanto non sempre lo fa. Così, quando la musica, forte di una propria grammatica e sintassi, beneficiasse di una larga autonomia, non di rado assume la parola come pretesto per godere di se stessa, questo soprattutto nell’opera all’epoca del ‘bel canto’; altre volte si limita a fare da supporto alla parola, come nel cosiddetto ‘stile recitativo’; oppure si immedesima a tal punto nella vicenda narrata da sacrificare ad essa la sua autonomia espressiva. Il ricevente potrà ricercare tra le sue competenze gli esempi che a suo parere meglio rappresentano questi tipi di interazione, ciascuno dei quali ha prodotto risultati di tutto rispetto. Per parte mia e nell’ambito delle mie competenze vorrei nominare solo quelli che ritengo i vertici del connubio di musica e parola: le Cantate di Bach (comprese ovviamente le due Passioni) e il corpus dei Lieder schubertiani. Non so immaginare una fusione altrettanto perfetta di due autonomie singole in una di ‘ordine’ –ma non per questo anche di ‘livello’– superiore. E in quei pochi casi in cui il testo verbale non raggiunge quello musicale –come in certe stereotipie letterarie nelle arie, o sentimentali nella poesia romantica– è sempre la musica a riequilibrare la situazione. Nel caso mio, ahimé, se qualcosa di buono si è prodotto, temo lo si debba alla scelta dei testi –come qui quelli di Nelly Sachs– più che alla musica.

fine della serie di postini del ‘come se’

giovedì 19 luglio 2012

À la recherche du temps perdu

[402]

Mi sembra di aver già raccontato in uno di questi postini del preciso e circostanziato ricordo di una persona frequentata per mesi, poi d’improvviso sparita senza che io ne abbia conservato la minima traccia al punto da farmi dubitare, non dico della realtà della persona, ma della realtà del ricordo.
A questa incertezza di secondo grado mi sembra che Proust abbia dedicato il suo grande romanzo.
«Per molto tempo sono andato a letto presto. A volte, appena spento il lume, gli occhi mi si chiudevano istantaneamente. Non avevo neppure il tempo di dirmi: “mi sto addormentando”. Una mezz’ora dopo, il pensiero che era ora di prender sonno mi svegliava; sentivo di dover posare il libro che credevo di aver ancora in mano, e soffiare sul lume. Non avevo smesso, nel sonno, di riflettere su ciò che avevo letto, ma le mie riflessioni avevano preso un corso tutto particolare: mi sembrava di essere io l’argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V.»
Sogno di un sogno. Ricordo di un ricordo. Non più trovato. Per fortuna nostra però À la recherche du temps perdu è lì, davanti ad noi con i suoi sette volumi e le circa tremiladuecento pagine.
Il tempo del ricordo è un tempo ‘perduto’ o un tempo ritrovato?
La memoria è forse la più complessa delle facoltà ‘biologiche’. Non dico ‘umane’, perché la riscontriamo anche tra gli animali ai primi gradi della scala evolutiva. Può anche darsi che non sia una facoltà semplice, monoplanare, ma sia la somma o l’integrale di più livelli sviluppatisi nel tempo. L’‘elementare’ reazione di difesa di una cellula che si contrae al tatto o, molto più in là, l’aumento della salivazione alla vista o al solo ricordo di un cibo particolarmente gradito sono probabilmente tra i primi stadi della memoria. Forse conviene distinguere tra ‘memoria’ e ‘ricordo’, questo designando piuttosto il contingente contenuto di quella. O forse la distinzione è solo di comodo: il ricordo lo percepiamo attraverso la memoria, la memoria la percepiamo solo in presenza di un ricordo, o meglio non la percepiamo affatto, ma la inferiamo dal fatto di ricordare, per cui inventiamo –estraendo– una ‘facoltà’, la memoria appunto. La nostra mente cerca concetti secondo necessità, poi li reifica al punto di farci cercare la sede specifica di qualcosa che si produce a livello di ‘sistema’, non di singolo organo.

Proust avrebbe quindi ‘perso’ il suo tempo nel tentativo di localizzare la memoria?
Si direbbe proprio il contrario. I sette volumi della Recherche dimostrano quanto per lui la memoria si sviluppasse parallelamente all’esperienza vitale, forse anzi indistinguibile da quella. Esperire è iscrivere nella memoria. Addirittura ‘essere = ricordare’, il tempo è un’invenzione umana.
Nell’ultimo capoverso osservo che l’espressione si è fatta progressivamente più rigida, apodittica, ideologica. Una parola tira l’altra e senza paure si arriva a proposizioni ad ‘effetto’ (“il tempo è un’invenzione umana”), scarsamente difendibili sul piano filosofico. Un espediente retorico?
Ha poca importanza che lo sia o no. Più conta il fatto che ce rendiamo conto di quali mezzi la parola ha a disposizione per convincere, per piegare a sé il pensiero del ricevente. Gli scritti del livello di un Proust, di un Mann, ma anche un abile creatore o giornalista hanno a disposizione, indipendentemente da ciò che dicono, una ‘tecnica’ del come dirlo, e di questa sarebbe bene fossero consapevoli anche i riceventi. Se non altro per mantenere la propria indipendenza mentale. La scuola provvede a questo? La società ha interesse all’indipendenza mentale dei suoi membri? La democrazia ne ha bisogno?

mercoledì 18 luglio 2012

Il problema dei problemi: il tempo


[406]
E così è restato fino ai giorni nostri, nonostante le molte menti, illustri e oscure che si sono affannate dietro lo sfuggente concetto. Sfuggente sia alla comprensione che nell’oggetto significato.
Ma il tempo può dirsi un ‘oggetto’, come una sedia, un albero? Pochi saranno di questa opinione, i più lo considereranno una sorta di ‘contenitore’ di oggetti. Alberi e sedie sussistono nel tempo (e nello spazio), ma tempo (e spazio) sussistono solo in se stessi – per coloro che credono nella loro sussistenza. Ben trovata la definizione kantiana dei due come ‘a priori’ della conoscenza, cioè: possiamo conoscere gli oggetti solo se abbiamo per essi degli appropriati contenitori fisici, appunto spazio e tempo. Ma la ‘fisicità’ di questi contenitori è reale o mentale? E il problema si riapre sul versante psicologico: il ‘mentale’ corrisponde a un determinato stato fisico dell’organo pensante, il cervello? e così via.
La dualità corpo-mente, ulteriormente banalizzata in anima e corpo, ammette una riduzione monistica? E che vantaggio ne ricaveremmo? La rinuncia al due, e per esso alla pluralità tout-court, non ci sterilizzerebbe alla condizione del uno-tutto parmenideo?
Ma torniamo al problema del tempo, vigorosamente trattato nell’antichità, poi, ancora ai primordi della cristianità, da Agostino, vescovo di Ippona:
“Dunque, Dio mio, io misuro il tempo e non so cosa misuro (…) Ne ho tratto l’opinione che il tempo non sia che un’estensione. Di che? Lo ignoro. Però sarebbe sorprendente se non fosse un’estensione dello spirito stesso.” (Confessioni, traduzione C. Carena)
Agostino sembra qui presentire l’interpretazione di Kant. Ambedue tentano di sottrarre il tempo al mondo fisico e di fare una sorta di emanazione (“estensione”) dello spirito, una precondizione dell’atto percettivo. Kant avrà in questo idea più chiara di Agostino, il che è del resto è ben comprensibile dopo gli empiristi inglesi e Hume in particolare.
E come stiamo messi oggi, nei confronti del grande tema?
Le mie scarse conoscenze non mi permettono più che qualche piratesca incursione in questo campo. Osservo per esempio che la trattazione dello spazio e del tempo dall’ambito filosofico si è trasferita a quello scientifico con un’operazione in un certo senso inversa a quella appena ricordata per Agostino e Kant. È impensabile, oggi, parlare separatamente di spazio e tempo, cioè senza tener conto della loro unificazione nello ‘spazio-tempo’ della teoria einsteiniana della relatività. A dire il vero, già la fisica di Newton connette questi concetti entro formule unificanti, che però li trattano ancora come ‘parametri’ indipendenti. Nella relatività galileiana la loro indipendenza è implicitamente  sospesa, senza tuttavia che Galileo lo dichiari apertamente, forse per non rendere ancora più difficili i suoi rapporti con il Vaticano.
Una domanda che mi faccio spesso, al di là –o meglio ben al di qua– delle ipotesi relativistiche è se sia sensato matematizzare il tempo, dotandolo di un’unità di misura universale, quando la nostra percezione di esso è a tal punto variabile da non trovarsi due occasioni esperienziali che ne registrino l’uniformità. Mentre l’iterabilità di una misura spaziale rende plausibile la sua oggettività, lo stesso non accade per una misurazione temporale, irripetibile per principio. Si potrebbe replicare che anche per lo spazio due misurazioni di uno stesso oggetto non sranno mai identiche a causa dei microcambiamenti necessariamente avvenuti tra l’una e l’altra. Ma di questi cambiamenti è responsabile appunto il tempo, non lo spazio.
Non discuto ovviamente l’utilità pratica di questa ma tematizzazione; per parte mia, entro in crisi già mi si scarica la batteria dell’orologio da polso. Ma non vorrei neppure basare sulla ‘pratica’ un’ontologia che credo il tempo non meriti e di cui forse non ha neppure bisogno.

martedì 17 luglio 2012

Una parola su Nietzsche


Nietzsche e sua sorella, 1899
[405]

Conosco troppo poco Nietzsche per poter permettermi più di questo postino. L’ho letto in gran parte; alcune cose, come il Zarathustra anche più di una volta; ho scritto una cantata combinando testi suoi e miei; sono un buon conoscitore di Thomas Mann che molto gli deve, e non solo nel Faustus; eppure non posso dire di averlo ‘capito’ – seppure il verbo ‘capire’, applicato alla complessità di una persona ha qualche senso.

“Almeno il suo pensiero, questo l’avrei capito?”

Purtroppo no, e per due ragioni. Primo, perché ho già difficoltà a capire un pensiero ben organizzato, sistematico e coerente, figuriamoci il suo, balenante, desultorio, letteralmente inafferrabile. Secondo, perché questo pensiero è inestricabilmente legato alla sua singolarità umana, estrema e incommensurabile –per dirla alla Goethe– ma per ciò stesso scostante, addirittura fastidiosa. Mentre, per altro verso, la sua egoità è misurata, il ‘superuomo’ che è in lui si colora d’infanzia, dell’impunità di un bambino che crede nel suo sogno. Che non è necessariamente un sogno ‘buono’, ma cela in sé l’altra faccia dell’umano, quella che non vorremmo vedere tradotta in realtà storica: l’idea della ‘superiorità’ di qualcuno su qualcun altro, Certo la superiorità cui pensava Nietzsche nulla aveva a che fare con quella che si attribuirà la banalità nazista o che puntualmente rinasce dall’incomprensione del diverso e dalla sovraestimazione della forza materiale.

Stando alle numerose testimonianze, anche popolari, il teorico del ‘superuomo’ era persona mite e gentile, un poco buffa con i suoi baffoni neri, decisamente tragica nelle sue contraddizioni, come le vediamo impresse nelle fotografie degli anni della follia. La sua dilaniata personalità non è peraltro quella di un superuomo, ma di un uomo fragile che, per non essere sopraffatto, attacca. La violenza della sua parola si ritorce su di sé, si contorce sotto i suoi strani colpi fino a darci l’immagine, grandiosamente pietosa, di un Ecce homo, vittima dei suoi antagonisti, Wagner e Gesù Cristo, ambedue dominanti etologicamente. Dal primo Nietzsche tentò, come poi Thomas Mann, di liberarsi –senza tuttavia riuscirci– il secondo era probabilmente cresciuto in lui fin dalla fanciullezza e non l’ha mai abbandonato. A noi restano, commoventi, le tracce delle immensi lotte.

lunedì 16 luglio 2012

Un messaggio dell'Imperatore

[404]

Der Kaiser –so heißt es– hat dir, dem Einzelnen, dem jämmerlichen Untertanen, dem winzig vor der kaiserlichen Sonne in die fernste Ferne geflüchteten Schatten, gerade dir hat der Kaiser von seinem Sterbebett aus eine Botschaft gesendet. Den Boten hat er beim Bett niederknien lassen und ihm die Botschaft ins Ohr geflüstert; so sehr war ihm an ihr gelegen, daß er sich sie noch ins Ohr wiedersagen ließ. Durch Kopfnicken hat er die Richtigkeit des Gesagten bestätigt. Und vor der ganzen Zuschauerschaft seines Todes –alle hindernden Wände werden niedergebrochen und auf den weit und hoch sich schwingenden Freitreppen stehen im Ring die Großen des Reichs– vor allen diesen hat er den Boten abgefertigt. Der Bote hat sich gleich auf den Weg gemacht; ein kräftiger, ein unermüdlicher Mann; einmal diesen, einmal den andern Arm vorstreckend schafft er sich Bahn durch die Menge; findet er Widerstand, zeigt er auf die Brust, wo das Zeichen der Sonne ist; er kommt auch leicht vorwärts, wie kein anderer. Aber die Menge ist so groß; ihre Wohnstätten nehmen kein Ende. Öffnete sich freies Feld, wie würde er fliegen und bald wohl hörtest du das herrliche Schlagen seiner Fäuste an deiner Tür. Aber statt dessen, wie nutzlos müht er sich ab; immer noch zwängt er sich durch die Gemächer des innersten Palastes; niemals wird er sie überwinden; und gelänge ihm dies, nichts wäre gewonnen; die Treppen hinab müßte er sich kämpfen; und gelänge ihm dies, nichts wäre gewonnen; die Höfe wären zu durchmessen; und nach den Höfen der zweite umschließende Palast; und wieder Treppen und Höfe; und wieder ein Palast; und so weiter durch Jahrtausende; und stürzte er endlich aus dem äußersten Tor –aber niemals, niemals kann es geschehen–, liegt erst die Residenzstadt vor ihm, die Mitte der Welt, hochgeschüttet voll ihres Bodensatzes. Niemand dringt hier durch und gar mit der Botschaft eines Toten. – Du aber sitzt an deinem Fenster und erträumst sie dir, wenn der Abend kommt.

– – – – –

Tu che stai alla finestra e attendi che ti raggiunga il messaggio dell’Imperatore, come fai a sapere che un tale messaggio sta viaggiando verso di te, che l’Imperatore lo ha veramente affidato all’infaticabile corriere, che peraltro non arriverà mai a bussare alla tua porta e tu non lo riceverai mai quel messaggio, eppure tu sai che il siuo latore è in cammino, inutilmente: nessuno può avertelo comunicato, perché, se anche qualcuno lo avesse letto nel pensiero dell’Imperatore morente, non avrebbe neppure lui superato la soglia di quel “Nie, nie” (mai, mai).Il mondo de Kafka pur essendo in una logica ferrea, la sua logica non coincide con quella del nostro. Di cui la strana esperienza che tutto quadri mentre nullo quadra. Tutti noi, forse, viviamo in una schizofrenia del genere, ma non abbiamo modo di sincerarcene. Chi ci garantisce che la ‘realtà’ sia quale ce la mostra il Sole e non il sonno? Il dubbio non è di oggi, anzi l’umanità di ieri quanto e più di noi, anche se le realtà virtuali di cui disponiamo non di rado ci ingannano non meno dei sogni.
Perché?, i sogni, naturali o artificiali che siano, ci ingannano?
Il nostro cervello, eccitato per esempio da una droga, ci inganna? Ci lo siamo sempre domandato, dandoci risposte sempre diverse, la più recente delle quali, quella che abbiamo accreditato come ‘razionale’ (e le altre, chi le aveva prodotte?), è risultata vincente. Ma perché avrebbe vinto una sola e non due, tre, infinite?
Perfino la più ‘razionale’ delle discipline, la matematica, sta da qualche tempo sviluppando i rami dell’irrazionalità suggerendo anche alla fisica razionalizzata di Newton modelli di realtà multipli e probabilistici. La stessa ‘razionalità’, cara al Settecento, non è più la stessa di allora e si arricchisce e nutre del suo opposto, al punto di pretendere il controllo tanto quanto l’irrazionale lo rivendica per sé.
Ma che vuol dire che l’irrazionale ‘controlla’ se stesso e magari anche il razionale? Il ‘controllo’ non è sempre razionale?
Evidentemente sono possibili vari livelli di controllo, da esercitarsi con strumenti di varia provenienza. Così gli strumenti con i quali valutiamo la ‘giustezza’ di un’espressione poetica, di un brano musicale, di un’opera pittorica o architettonica, non sono di natura numerica né si esauriscono in reglo grammaticali e sintattiche. E neppure sono di natura logca, anche se la logica, como il numero e la matematica, vi hanno parte. Non so, a questo punto, se attribuire questa elasticità di comportamento all’uso che noi facciamo degli strumenti analitico-compositivi o a questi stessi. In altre parole, l’imprecisione che tanto arricchisce il nostro giudizio percettivo, analitico, valutativo – è in noi che giudichiamo. O è già negli strumenti che abbiamo inventato per giudicare?

domenica 15 luglio 2012

La libertà


[403]
»Nun ja, die Freiheit, wissen Sie, die Freiheit…!« wiederholte er, indem er eine vage, ein wenig linkische, aber begeisterte Armbewegung hinaus, hinunter, über die See hin vollführte, und zwar nicht nach jener Seite, wo die mecklenburgische Küste die Bucht beschränkte, sondern dorthin, wo das Meer offen war, wo es sich in immer schmaler werdenden grünen, blauen, gelben und grauen Streifen leicht gekräuselt, großartig und unabsehbar dem verwischten Horizont entgegendehnte…

„Eh già, la libertà, lei capisce, la libertà…!“, si ripeté con un vago, timido ma entusiastico movimento del braccio in fuori, in basso, in direzione del mare, ma non dalla parte dove l’insenatura era limitata dalla costa del Mecklenburgo, bensì dalla parte del mare aperto, dove questo si estendeva, appena increspato da sempre più sottili strisce verdi, blù, gialle e grigie, grandiosamente e a perdita d’occhio verso l’indistinto orizzonte.

“Ecco uno che sa scrivere…”
“Direi piuttosto uno che sa pensare…”
“Hai ragione. È forse la più bella definizione di ‘libertà’ che io conosca!”
“Non so se sia la più bella. So solo che è più da sessanta anni che mi dà da pensare…”.

La citazione è dai Buddenbrooks, di Thomas Mann. L’Autore era a quel tempo politicamente –si sarebbe poi detto– un reazionario, ma questa sua definizione del concetto di ‘libertà’ mi è sempre sembrata la più libera, meno ideologizzata, meno reazionaria tra tutte quelle in cui mi è capitato di imbattermi. Proprio perché non è una definizione, non segna dei confini, anzi, sconfina nell’indistinto, come lo sguardo in cerca di un orizzonte sul mar Baltico (l’episodio è ambientato a Travemünde, vicino a Lubecca, appunto sul mar Baltico).

– – – – –

Personalmente, sono infastidito dall’abuso che in genere si fa della parola e dal concetto di ‘libertà’. Dubito ormai che sia possibile attribuire all’usurata parola un concetto spendibili fuori dall’oratoria tribunizia. È più che evidente che ‘libertà’, se non se ne definiscono il contesto e i limiti, è un termine privo di significato, come lo è forse qualsiasi altro. Con la differenza che, quando diciamo ‘sedia’, o il suo ‘significato’ è inequivocabilmente riferito a un oggetto presente nel contesto, o non richiede questa specificazione, mentre quando diciamo ‘libertà’, il più delle volte neppure ci chiediamo quale sia il significato, sicuri, ‘ideologicamente’ sicuri che da qualche parte ci deve pure esseri, visto l’uso frequente della parola e, spesso, l’autorità di chi la pronuncia.
Nel passo citato, invece, la parola viene detta, ripetuta, come per essere commentata, ma ciò che segue è il lento trascorrere del gesto e dello sguardo verso un orizzonte inafferrabile… L’insistenza con cui il periodo manniano tenta di circoscrivere questa inafferrabilità, senza riuscirci, ce ne dà la migliore interpretazione: ‘libertà’ non è un concetto, ma solo un vago simulacro di concetto, destinato a perdersi come l’onda che si rifrange sugli scogli.
Lettura vanamente estetizzante di una parola densa di riferimenti politici oppure lettura finalmente realistica –anche se letterariamente espressa– di una parola che proprio l’abuso politico ha deliberatamente svuotato di ogni significato?
Propendo per la seconda interpretazione, suggeritami del resto dall’insieme dell’opera di Mann, profondamente problematica e pedagogica, indisponibile verso chi chiede risposte, apertissima verso chi crede di essere aiutato a pensare ‘oltre’ l’incerto orizzonte della ‘certezza’.

giovedì 12 luglio 2012

Cosa può fare un sindacato?



Nel ‘boccale’ precedente abbiamo abbozzato una definizione detta ‘topografica’ del sindacato, cioè, descrivendolo come un luogo concettuale dove possono materializzarsi una serie di caratteristiche, e quindi dove possono avvenire una serie di azioni. Cosa può fare quindi un sindacato che concepisce se stesso come luogo di relazione, informazione, iniziativa, responsabilizzazione, pratica e pensiero, (auto)formazione, composizione della diversità…? (descrizione incompleta, cangiante, come già affermato)
·     Osserva/ascolta/interroga multidimensionalmente, attivamente la realtà fattuale del mondo del lavoro e ambiti circondanti, cercando un massimo di prospettive differenti, e la sintetizza attraverso strumenti informativo-analitici.
·    Include partecipativamente i lavoratori, nell’accezione più ampia del termine, nei processi sia strategici che operativi, con la doppia, inscindibile intenzione di usufruire del loro apporto individuale all’impresa collettiva, e di retribuirli con opportunità di (auto)formazione e di servizio ai loro pari.
·      Comunica la sua azione e il suo pensiero nelle dimensioni più ampie possibili – aspira a essere interlocutore consapevole in tutte le dimensioni attinenti l’ambito di lavoro, privilegiando certo quelle più dirette (datore di lavoro, altri agenti sindacali/professionali, lavoratori attivi), ma rifiutando di limitarsi ad esse. In questa azione di comunicazione, si preoccupa di esplicitare con la maggiore chiarezza possibile le proprie posizioni e risultati, i presupposti dai quali sono stati raggiunti, e le limitazioni che li condizionano.
·        Si autoorganizza in modo aperto, definendo sia le proprie strutture produttive interne (produttrici di informazione e analisi, di comunicazione e relazione, di decisioni, di strategia, di sostegno collettivo e individuale…), sia i propri processi produttivi interni.
·        Elabora una strategia, in relazione con la storia, con i vincoli immediati (ambito di lavoro in senso stretto, datore di lavoro, altre forze sindacali), in relazione con il mondo esterno (società, istituzioni, condizioni socio-politico-economiche imperanti.). Questa strategia dovrebbe riferirsi a principi sentiti come generalmente validi (cioè, al di là della contingenza) dai lavoratori.
·        Sottopone a critica evolutiva continua tanto i risultati quanto i processi; tanto le strutture quanto i principi. Nella misura nella quale strutture e processi (interni) interagiscono con strutture e processi (esterni), si sente autorizzato, anzi responsabilizzato, a estendere detta critica all’ambito esterno.
·      Fornisce sostegno collettivo ai lavoratori, sviluppando detta strategia. Questo sostegno collettivo viene normalmente espresso sia in una dimensione presente che in una dimensione futura.
·     Quanto alla dimensione presente, lo sviluppo della strategia normalmente è possibile solo all’interno di vincoli predefiniti (leggi, accordi). In questo caso l’azione di sostegno collettivo del sindacato si potrebbe descrivere come ‘miglior occupazione funzionale dello spazio disponibile’, utilizzandolo il più compiutamente possibile nell’interesse dei lavoratori.
·       La dimensione futura dello sviluppo della strategia comprende il riconoscimento delle dinamiche (di espansione, di consolidamento, addirittura di restrizione) che possono modificare ‘lo spazio disponibile’, e la partecipazione attiva alle stesse, coerentemente (ma non troppo) con le proprie capacità. Infatti nell’intervento sulle dinamiche sono ammissibili, anzi auspicabili, le proposte ‘al di là’ delle proprie capacità, che cercano di mettere in moto delle forze ben superiori; interpersonali, intersindacali, intercategoriali, dell’organizzazione intera, addirittura della società.
·      Fornisce pure sostegno individuale ai lavoratori, sia per prevenire situazioni di difficoltà, sia per affrontarle. Non solo con un obiettivo ‘giuridico’, aiutando il singolo a sfruttare appieno i propri diritti all’interno dello spazio disponibile, e puntando ad ottenere attraverso il caso singolo delle conquiste che vadano a beneficio della collettività – ma abbinando ad esso un obiettivo ‘comunicativo’, dimostrando nei fatti al lavoratore in questione (e indirettamente agli altri) che egli appartiene ad una comunità.
·        Include, sussume tutte le azioni precedenti in una ‘meta-azione’ complessiva di composizione delle diversità, sia esterne ed interne. Da questo punto di vista, il fine ultimo del sindacato è contribuire alla sopravvivenza funzionale, attiva dell’organizzazione nell’ambito dove svolge i suoi compiti sociali.
L’azione e il pensiero del sindacato così (auto)concepito sospendono di continuo il principio di non contraddizione: anzitutto, nella sospensione della distinzione concettuale tra azione e pensiero. Ma anche di quella tra postulante-lavoratore attivo-pensionato; di quella tra categorie di lavoratori attivi, juniores o seniores, precari o stabili; di quella tra individuo e collettivo; di quella tra agenti sindacali diversi; di quella tra questioni interne ed esterne all’ambito di lavoro; di quella tra datore di lavoro e lavoratore; di quella tra sostegno presente e futuro; di quella tra contributo all’impresa e retribuzione; di quella tra risorse materiali e concettuali…
Sospensione infine della distinzione tra azione (sull’‘oggetto’ a noi esterno) e riflessione (interna, del ‘soggetto’ su se stesso). Ogni sindacato così concepito vuole agire sull’ambito di lavoro (‘oggetto’ al quale i ‘soggetti’ sindacali comunque appartengono); ma vuole anche riflettere sulla natura dell’azione sindacale per modificarla (‘soggetto’ riflettente che conseguentemente diventa ‘oggetto’ di tali riflessioni).
Tutte queste distinzioni possono essere riconosciute localmente, contingentemente, all’interno di prospettive e progetti specifici; tutte senza eccezione possono essere sospese all’interno di altri progetti e prospettive aggreganti i precedenti, che perseguano gli obiettivi di composizione delle diversità organizzative e di sopravvivenza funzionale dell’organizzazione. Che alla loro volta possono essere sospese in prospettive aggreganti che puntino alla composizione delle diversità sociale e di sopravvivenza della società stessa. Che a loro volta…

Cambiamento

giovedì 5 luglio 2012

Cosa è un sindacato?


[Mi sia permesso, a richiesta di Boris, interrompere momentaneamente la serie dei 'postini' con una nuova creatura, cioè un 'boccale']

Forse si può cominciare questo tentativo di definizione… all’incontrario, dicendo cosa non è più un sindacato nel momento presente, in rapporto a qualche pensiero.     Non è un’organizzazione dall’alto in basso dove dei ‘leader’ spiegano alla ‘base’ cosa devono fare. Penso che non c’è più né alto né basso, i ‘leaders’ lo sono solo di nome – non hanno né possono avere un’idea di dove andare, tanto meno di come farlo.
  • Non è un’organizzazione che mutua comportamenti dal mondo politico, stabilendo relazioni con esso, dipendenze da esso. Penso che a livello istituzionale non c’è più politica, c’è solo sudditanza a un pensiero unico.
  • Non è un’organizzazione che ‘tratta’ per ottenere dal datore di lavoro per i lavoratori le ‘migliori condizioni’ entro i vincoli economici esistenti. Penso che non c’è più economia, c’è solo corsa ad assicurare l’ultima ronda di privilegi.
  • Non è un’organizzazione che si oppone competitivamente ad altre ‘concorrenti’, né tantomeno al ‘datore di lavoro’, cercando di prevalere su di loro. Tantomeno oppone all’interno dei lavoratori ‘aderenti’ contro ‘non aderenti’, o ‘attivi’ contro ‘postulanti/pensionati’, o ‘stabili’ contro ‘precari’. Penso che le categorie assolute ‘opposizione’ e ‘concorrenza’ siano ormai esaurite, sterili.

Riassumendo: non è un’organizzazione chiusa e gerarchizzata, politicamente allineata, orientata a trattative rivendicative, concepita all’interno di opposizione ‘noi versus loro’.
E mi fermo con questi quattro ‘non è…’ essenziali. Probabilmente i sindacati del mondo che fu, tanti anni addietro, si sono riconosciuti sinceramente in quelle proposizioni che oggi nego. Nulla da criticarli – semplicemente costatare che esse non servono più a molto. Ripetere questi movimenti irriflessi aspettando che riproducano i risultati del passato mi sembra pensiero magico.
Invece, cosa potrebbe essere oggi un sindacato, ripensando in positivo questi ‘non è…’?
  • Un luogo di relazione, intesa letteralmente come ‘rompere la solitudine’ del lavoratore, nullificato davanti a poteri innominati. Relazione che si deve costruire dagli elementi fondanti – anzitutto, dalla comunicazione personale, e dal proprio ‘contatto etologico’ con il luogo del lavoro e i suoi vincoli.
  • Un luogo di informazione – ‘rompere la solitudine’ vuol dire non soltanto parlare e ascoltare – vuol dire fornire quell’informazione specifica che devolve potere, dignità, situazione al lavoratore – sa dove si trova – dove si trovano gli altri.
  • Un luogo di iniziativa e di responsabilizzazione – piuttosto che un fornitore di soluzioni magicamente predefinite. La prima responsabilità, quella di pensare, analizzare (l’informazione). Dopodiché, fare – dopodiché, pensare, e così successivamente. Così, un luogo di pratica e pensiero. E così diventa pure un luogo di formazione reciproca e collettiva, di autoformazione.
  • Un luogo di composizione delle diversità, esterne e interne, in un contesto di cambiamento continuo, di soltanto parziale controllo di questo cambiamento. Quindi un progetto di sopravvivenza dinamica, adattativa dell’organizzazione.

Dopo questo tentativo incompleto di definizione ‘topografica’ del ‘cos’è’, ci resta da spiegare ‘cosa può fare’ un sindacato. Arrisentirci per il prossimo boccale!