Spesso, a
difesa dell’accumulo di capitale si adduce il fatto che un capitale
investito produce sì altro reddito ma anche altro lavoro, e perfino un
guadagno dissipato in spese voluttuarie, fa comunque rientrare in un circolo
‘virtuoso’ il denaro impiegato. L’importante è che si guadagni e si spenda,
la società nel suo complesso non potrà che beneficiarne. Dedicherò altri
postini a mostrare, per quanto le mie conoscenze e capacità ragionatrici
potranno, la fallacia di questi argomenti. Per ora mi limito a sollecitare
chi legge o ascolta righe come queste a estendere la sua analisi aldilà dei
ristretti confini economici del discorso. Se la semplice circolazione del
denaro produce ricchezza, anche in quantità assai grandi, da qualche parte vi
deve essere un equivalente impoverimento. Nessuno più crede nella creazione
del nulla e neppure nella generazione spontanea. Perfino il buondio deve aver
preso da qualche parte la materia del suo universo. Il big-bang deve
essere stato preceduto da un inimmaginabile concentrazione di energia cui
abbiamo dato il nome di ‘vuoto’ e che abbiamo immaginato come negatività,
assenza di attualità, pura potenzialità.
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martedì 31 luglio 2012
Da qualche parte vi deve essere...
[413]
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Novanta postini politici,
Postini
domenica 29 luglio 2012
Un forte interesse
[412]
Salvo
eccezioni non più di moda, oggi i soldi –magari con una spintarella iniziale–
i soldi si fanno in vita, cioè in un lasso di tempo relativamente breve.
Pochi in realtà ci riescono e a determinate condizioni. Prima tra queste un
forte interesse per essi. È molto più difficile scrivere una buona poesia,
fare una scoperta scientifica o fondare un nuovo teorema di logica o
matematica che accumulare un milione di euro (gli altri vengono da se).
Occorre però mettere in gioco tutte le energie mentali di cui uno dispone (ma
non c’è bisogno di averne in sovrappiù). Un certo quantitativo di fortuna non
basta, sempreché si abbia l’abilità di coglierla. Occorrono infine buone
capacità tecniche per trarne tutto il potenziale di sviluppo che vi è
contenuto, e soprattutto la massima indifferenza per le leggi, i diritti
degli altri e i danni collaterali che si producono. Tutte cose che, se
l’interesse per il guadagno è abbastanza forte, si imparano abbastanza
presto. Concediamo anche che un tocco di genialità non può che giovare
all’impresa (in senso lato non meno che ristretto).
È necessario naturalmente che uno sia disposto a
sacrificare al denaro –e al potere– l’intera propria vita, e a noi non resta
che compiangerlo per questo.
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Novanta postini politici,
Postini
venerdì 27 luglio 2012
Novanta postini politici
[411]
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Novanta postini politici,
Postini
mercoledì 25 luglio 2012
Terzo commento d’autore alla serie dei postini del ‘come se’
Anche la struttura del ‘come se’ non è sempre evidente. Talvolta si limita a una semplice metafora, talaltra, come nel caso della ungarettiana Memoria, il ‘come se’ estende il velo del dubbio anche sul ricordo.
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Letteratura con intenzione,
Postini,
Postini del 'come se'
martedì 24 luglio 2012
Secondo commento d’autore alla serie dei postini del ‘come se’
[409]
I visitatori avranno notato che, come per tutti i postini della raccolta, non vale sempre il principio della coerenza tematica. Capita addirittura che il postino non tenga neppure fede al suo titolo. Mi scuso con i fans della coerenza.
I visitatori avranno notato che, come per tutti i postini della raccolta, non vale sempre il principio della coerenza tematica. Capita addirittura che il postino non tenga neppure fede al suo titolo. Mi scuso con i fans della coerenza.
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Letteratura con intenzione,
Postini,
Postini del 'come se'
lunedì 23 luglio 2012
Primo commento d’autore alla serie dei postini del ‘come se’
James & Nancy, della serie Letti disfatti, di Joseph Gerhard
[408]
Una difficoltà che ho incontrato
nello scrivere questi ‘postini del come se’ è scaturita dalla mia scelta di
non avventurarmi nella critica letteraria, che non mi compete. Confesso
tuttavia di non aver sempre mantenuto fede al proposito e di essermi lasciato
andare qua e là alla tentazione di esprimere giudizi di carattere estetico.
Prego il ricevente –lettore o visitatore che sia– di non dargli eccessivo
credito.
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Postini,
Postini del 'come se'
venerdì 20 luglio 2012
Nelly Sachs
[407]
Vorrei chiudere questa serie di
postini del ‘come se’ nel nome di una poetessa alle cui opere sono
particolarmente affezionato per come ha contribuito a restituire alle lingue
e alla cultura tedesca la dignità perduta una sessantina di anni fa.
Hängend am Strauch der Verzweiflung
und doch auswartend bis die Sage des Blühens
in ihre Wahrsagung tritt –
Zauberkundig
plötzlich der Weißdorn ist außer sich
vom Tod in des Leben geraten –
(Pendente
dal cespo della disperazione
eppure in
attesa che la leggenda dei fiori
avveri la
sua profezia –
Esperto di
magia
d’un tratto
il biancospino fuori di sé
dalla morte
s’è trovato nella vita.)
Speranza dalla disperazione,
luce dalla notte, vita dalla morte, la poesia di Nelly Sachs ha permesso alla
Germania di rinascere dalla distruzione fisica e morale cui la storia l’aveva
condannata. Non è stata l’unica, ma la fusione in lei della lingua della
vittima con quella del carnefice le ha conferito un’emblematicità che penetra
ogni sua parola, ogni suo gesto poetico. Il tema biblico di molte sue poesie,
che in altri suonerebbe voluto e fastidioso, in lei è autentico: Nelly Sachs
è forse l’ultima grande voce profetica che dall’antichità giunge fino a noi.
Di lei ho messo a suo tempo in
musica varie poesie, la cui levità e intrinseca mu sicalità mi ha
particolarmente attratto.
Che cosa ci guida nella scelta
dei testi da musicare?
Il contenuto, certo, quello
esplicito, anche se spesso si sperde nella poesia moderna di non immediata
accessibilità; più ancora di improbabili accostamenti verbali, la ‘semantica
di contatto’ quale scaturisce, quasi epifanicamente, da questa improbabilità;
non ultimo, il ‘suono’ della parola, il ritmo del verso –anche e soprattutto
se irregolare–, la ‘forma’ dell’insieme con le sue intime corrispondenze e i
suoi inespressi richiami ad altro. Ma come può la musica tradurre tutto
questo?
Intanto non sempre lo fa. Così,
quando la musica, forte di una propria grammatica e sintassi, beneficiasse di
una larga autonomia, non di rado assume la parola come pretesto per godere di
se stessa, questo soprattutto nell’opera all’epoca del ‘bel canto’; altre
volte si limita a fare da supporto alla parola, come nel cosiddetto ‘stile
recitativo’; oppure si immedesima a tal punto nella vicenda narrata da
sacrificare ad essa la sua autonomia espressiva. Il ricevente potrà ricercare
tra le sue competenze gli esempi che a suo parere meglio rappresentano questi
tipi di interazione, ciascuno dei quali ha prodotto risultati di tutto
rispetto. Per parte mia e nell’ambito delle mie competenze vorrei nominare
solo quelli che ritengo i vertici del connubio di musica e parola: le Cantate di Bach (comprese ovviamente
le due Passioni) e il corpus dei Lieder schubertiani. Non so immaginare
una fusione altrettanto perfetta di due autonomie singole in una di ‘ordine’
–ma non per questo anche di ‘livello’– superiore. E in quei pochi casi in cui
il testo verbale non raggiunge quello musicale –come in certe stereotipie
letterarie nelle arie, o sentimentali nella poesia romantica– è sempre la
musica a riequilibrare la situazione. Nel caso mio, ahimé, se qualcosa di
buono si è prodotto, temo lo si debba alla scelta dei testi –come qui quelli
di Nelly Sachs– più che alla musica.
fine
della serie di postini del ‘come se’
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Postini del 'come se'
giovedì 19 luglio 2012
À la recherche du temps perdu
[402]
Mi sembra di aver già
raccontato in uno di questi postini del preciso e circostanziato ricordo di
una persona frequentata per mesi, poi d’improvviso sparita senza che io ne
abbia conservato la minima traccia al punto da farmi dubitare, non dico della
realtà della persona, ma della realtà del ricordo.
A questa incertezza di secondo
grado mi sembra che Proust abbia dedicato il suo grande romanzo.
«Per molto tempo
sono andato a letto presto. A volte, appena spento il lume, gli occhi mi si
chiudevano istantaneamente. Non avevo neppure il tempo di dirmi: “mi sto
addormentando”. Una mezz’ora dopo, il pensiero che era ora di prender sonno
mi svegliava; sentivo di dover posare il libro che credevo di aver ancora in
mano, e soffiare sul lume. Non avevo smesso, nel sonno, di riflettere su ciò
che avevo letto, ma le mie riflessioni avevano preso un corso tutto
particolare: mi sembrava di essere io l’argomento del libro: una chiesa, un
quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V.»
Sogno di un sogno. Ricordo di
un ricordo. Non più trovato. Per fortuna nostra però À la recherche du temps perdu è lì, davanti ad noi con i suoi
sette volumi e le circa tremiladuecento pagine.
Il tempo del ricordo è un tempo
‘perduto’ o un tempo ritrovato?
La memoria è forse la più
complessa delle facoltà ‘biologiche’. Non dico ‘umane’, perché la
riscontriamo anche tra gli animali ai primi gradi della scala evolutiva. Può
anche darsi che non sia una facoltà semplice, monoplanare, ma sia la somma o
l’integrale di più livelli sviluppatisi nel tempo. L’‘elementare’ reazione di
difesa di una cellula che si contrae al tatto o, molto più in là, l’aumento
della salivazione alla vista o al solo ricordo di un cibo particolarmente
gradito sono probabilmente tra i primi stadi della memoria. Forse conviene
distinguere tra ‘memoria’ e ‘ricordo’, questo designando piuttosto il
contingente contenuto di quella. O forse la distinzione è solo di comodo: il
ricordo lo percepiamo attraverso la memoria, la memoria la percepiamo solo in
presenza di un ricordo, o meglio non la percepiamo affatto, ma la inferiamo
dal fatto di ricordare, per cui inventiamo –estraendo– una ‘facoltà’, la
memoria appunto. La nostra mente cerca
concetti secondo necessità, poi li reifica al punto di farci cercare la sede
specifica di qualcosa che si produce a livello di ‘sistema’, non di singolo
organo.
Proust avrebbe quindi ‘perso’
il suo tempo nel tentativo di localizzare la memoria?
Si direbbe proprio il
contrario. I sette volumi della Recherche
dimostrano quanto per lui la memoria si sviluppasse parallelamente
all’esperienza vitale, forse anzi indistinguibile da quella. Esperire è
iscrivere nella memoria. Addirittura ‘essere = ricordare’, il tempo è
un’invenzione umana.
Nell’ultimo capoverso osservo
che l’espressione si è fatta progressivamente più rigida, apodittica,
ideologica. Una parola tira l’altra e senza paure si arriva a proposizioni ad
‘effetto’ (“il tempo è un’invenzione umana”), scarsamente difendibili sul
piano filosofico. Un espediente retorico?
Ha poca importanza che lo sia o
no. Più conta il fatto che ce rendiamo conto di quali mezzi la parola ha a
disposizione per convincere, per piegare a sé il pensiero del ricevente. Gli
scritti del livello di un Proust, di un Mann, ma anche un abile creatore o
giornalista hanno a disposizione, indipendentemente da ciò che dicono, una
‘tecnica’ del come dirlo, e di questa sarebbe bene fossero consapevoli anche
i riceventi. Se non altro per mantenere la propria indipendenza mentale. La
scuola provvede a questo? La società ha interesse all’indipendenza mentale
dei suoi membri? La democrazia ne ha bisogno?
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mercoledì 18 luglio 2012
Il problema dei problemi: il tempo
[406]
E così è restato fino ai giorni nostri, nonostante
le molte menti, illustri e oscure che si sono affannate dietro lo sfuggente
concetto. Sfuggente sia alla comprensione che nell’oggetto significato.
Ma il tempo può dirsi un ‘oggetto’, come una sedia,
un albero? Pochi saranno di questa opinione, i più lo considereranno una
sorta di ‘contenitore’ di oggetti. Alberi e sedie sussistono nel tempo (e nello spazio), ma tempo
(e spazio) sussistono solo in se stessi – per coloro che credono nella loro
sussistenza. Ben trovata la definizione kantiana dei due come ‘a priori’
della conoscenza, cioè: possiamo conoscere gli oggetti solo se abbiamo per
essi degli appropriati contenitori fisici, appunto spazio e tempo. Ma la
‘fisicità’ di questi contenitori è reale o mentale? E il problema si riapre
sul versante psicologico: il ‘mentale’ corrisponde a un determinato stato
fisico dell’organo pensante, il cervello? e così via.
La dualità corpo-mente, ulteriormente banalizzata in
anima e corpo, ammette una riduzione monistica? E che vantaggio ne
ricaveremmo? La rinuncia al due, e per esso alla pluralità tout-court, non ci sterilizzerebbe
alla condizione del uno-tutto parmenideo?
Ma torniamo al problema del tempo, vigorosamente
trattato nell’antichità, poi, ancora ai primordi della cristianità, da
Agostino, vescovo di Ippona:
“Dunque, Dio
mio, io misuro il tempo e non so cosa misuro (…) Ne ho tratto l’opinione che
il tempo non sia che un’estensione. Di che? Lo ignoro. Però sarebbe
sorprendente se non fosse un’estensione dello spirito stesso.” (Confessioni, traduzione C. Carena)
Agostino sembra qui presentire l’interpretazione di
Kant. Ambedue tentano di sottrarre il tempo al mondo fisico e di fare una
sorta di emanazione (“estensione”) dello spirito, una precondizione dell’atto
percettivo. Kant avrà in questo idea più chiara di Agostino, il che è del
resto è ben comprensibile dopo gli empiristi inglesi e Hume in particolare.
E come stiamo messi oggi, nei confronti del grande
tema?
Le mie scarse conoscenze non mi permettono più che
qualche piratesca incursione in questo campo. Osservo per esempio che la
trattazione dello spazio e del tempo dall’ambito filosofico si è trasferita a
quello scientifico con un’operazione in un certo senso inversa a quella
appena ricordata per Agostino e Kant. È impensabile, oggi, parlare
separatamente di spazio e tempo, cioè senza tener conto della loro
unificazione nello ‘spazio-tempo’ della teoria einsteiniana della relatività.
A dire il vero, già la fisica di Newton connette questi concetti entro
formule unificanti, che però li trattano ancora come ‘parametri’
indipendenti. Nella relatività galileiana la loro indipendenza è
implicitamente sospesa, senza tuttavia
che Galileo lo dichiari apertamente, forse per non rendere ancora più
difficili i suoi rapporti con il Vaticano.
Una domanda che mi faccio spesso, al di là –o meglio
ben al di qua– delle ipotesi relativistiche è se sia sensato matematizzare il
tempo, dotandolo di un’unità di misura universale, quando la nostra
percezione di esso è a tal punto variabile da non trovarsi due occasioni
esperienziali che ne registrino l’uniformità. Mentre l’iterabilità di una
misura spaziale rende plausibile la sua oggettività, lo stesso non accade per
una misurazione temporale, irripetibile per principio. Si potrebbe replicare
che anche per lo spazio due misurazioni di uno stesso oggetto non sranno mai
identiche a causa dei microcambiamenti necessariamente avvenuti tra l’una e
l’altra. Ma di questi cambiamenti è responsabile appunto il tempo, non lo
spazio.
Non discuto ovviamente l’utilità pratica di questa
ma tematizzazione; per parte mia, entro in crisi già mi si scarica la
batteria dell’orologio da polso. Ma non vorrei neppure basare sulla ‘pratica’
un’ontologia che credo il tempo non meriti e di cui forse non ha neppure
bisogno.
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martedì 17 luglio 2012
Una parola su Nietzsche
Nietzsche e sua sorella, 1899
[405]
Conosco troppo poco Nietzsche per poter permettermi più
di questo postino. L’ho letto in gran parte; alcune cose, come il Zarathustra anche più di una volta; ho
scritto una cantata combinando testi suoi e miei; sono un buon conoscitore di
Thomas Mann che molto gli deve, e non solo nel Faustus; eppure non posso dire di averlo ‘capito’ – seppure il
verbo ‘capire’, applicato alla complessità di una persona ha qualche senso.
“Almeno il suo pensiero, questo l’avrei capito?”
Purtroppo no, e per due ragioni. Primo, perché ho
già difficoltà a capire un pensiero ben organizzato, sistematico e coerente,
figuriamoci il suo, balenante, desultorio, letteralmente inafferrabile.
Secondo, perché questo pensiero è inestricabilmente legato alla sua
singolarità umana, estrema e incommensurabile –per dirla alla Goethe– ma per ciò
stesso scostante, addirittura fastidiosa. Mentre, per altro verso, la sua
egoità è misurata, il ‘superuomo’ che è in lui si colora d’infanzia,
dell’impunità di un bambino che crede nel suo sogno. Che non è
necessariamente un sogno ‘buono’, ma cela in sé l’altra faccia dell’umano,
quella che non vorremmo vedere tradotta in realtà storica: l’idea della
‘superiorità’ di qualcuno su qualcun altro, Certo la superiorità cui pensava
Nietzsche nulla aveva a che fare con quella che si attribuirà la banalità
nazista o che puntualmente rinasce dall’incomprensione del diverso e dalla
sovraestimazione della forza materiale.
Stando alle numerose testimonianze, anche popolari,
il teorico del ‘superuomo’ era persona mite e gentile, un poco buffa con i
suoi baffoni neri, decisamente tragica nelle sue contraddizioni, come le
vediamo impresse nelle fotografie degli anni della follia. La sua dilaniata
personalità non è peraltro quella di un superuomo, ma di un uomo fragile che,
per non essere sopraffatto, attacca. La violenza della sua parola si ritorce
su di sé, si contorce sotto i suoi strani colpi fino a darci l’immagine,
grandiosamente pietosa, di un Ecce homo,
vittima dei suoi antagonisti, Wagner e Gesù Cristo, ambedue dominanti
etologicamente. Dal primo Nietzsche tentò, come poi Thomas Mann, di liberarsi
–senza tuttavia riuscirci– il secondo era probabilmente cresciuto in lui fin
dalla fanciullezza e non l’ha mai abbandonato. A noi restano, commoventi, le
tracce delle immensi lotte.
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lunedì 16 luglio 2012
Un messaggio dell'Imperatore
[404]
Der Kaiser –so heißt es– hat dir, dem Einzelnen,
dem jämmerlichen Untertanen, dem winzig vor der kaiserlichen Sonne in die
fernste Ferne geflüchteten Schatten, gerade dir hat der Kaiser von seinem
Sterbebett aus eine Botschaft gesendet. Den Boten hat er beim Bett
niederknien lassen und ihm die Botschaft ins Ohr geflüstert; so sehr war ihm
an ihr gelegen, daß er sich sie noch ins Ohr wiedersagen ließ. Durch
Kopfnicken hat er die Richtigkeit des Gesagten bestätigt. Und vor der ganzen
Zuschauerschaft seines Todes –alle hindernden Wände werden niedergebrochen
und auf den weit und hoch sich schwingenden Freitreppen stehen im Ring die
Großen des Reichs– vor allen diesen hat er den Boten abgefertigt. Der Bote
hat sich gleich auf den Weg gemacht; ein kräftiger, ein unermüdlicher Mann;
einmal diesen, einmal den andern Arm vorstreckend schafft er sich Bahn durch
die Menge; findet er Widerstand, zeigt er auf die Brust, wo das Zeichen der
Sonne ist; er kommt auch leicht vorwärts, wie kein anderer. Aber die Menge
ist so groß; ihre Wohnstätten nehmen kein Ende. Öffnete sich freies Feld, wie
würde er fliegen und bald wohl hörtest du das herrliche Schlagen seiner
Fäuste an deiner Tür. Aber statt dessen, wie nutzlos müht er sich ab; immer
noch zwängt er sich durch die Gemächer des innersten Palastes; niemals wird
er sie überwinden; und gelänge ihm dies, nichts wäre gewonnen; die Treppen
hinab müßte er sich kämpfen; und gelänge ihm dies, nichts wäre gewonnen; die
Höfe wären zu durchmessen; und nach den Höfen der zweite umschließende Palast;
und wieder Treppen und Höfe; und wieder ein Palast; und so weiter durch
Jahrtausende; und stürzte er endlich aus dem äußersten Tor –aber niemals,
niemals kann es geschehen–, liegt erst die Residenzstadt vor ihm, die Mitte
der Welt, hochgeschüttet voll ihres Bodensatzes. Niemand dringt hier durch
und gar mit der Botschaft eines Toten. – Du aber sitzt an deinem Fenster und
erträumst sie dir, wenn der Abend kommt.
– – – – –
Tu che stai alla finestra e
attendi che ti raggiunga il messaggio dell’Imperatore, come fai a sapere che
un tale messaggio sta viaggiando verso di te, che l’Imperatore lo ha
veramente affidato all’infaticabile corriere, che peraltro non arriverà mai a
bussare alla tua porta e tu non lo riceverai mai quel messaggio, eppure tu
sai che il siuo latore è in cammino, inutilmente: nessuno può avertelo
comunicato, perché, se anche qualcuno lo avesse letto nel pensiero dell’Imperatore
morente, non avrebbe neppure lui superato la soglia di quel “Nie, nie” (mai,
mai).
Perché?, i sogni, naturali o artificiali
che siano, ci ingannano?
Il nostro cervello, eccitato
per esempio da una droga, ci inganna? Ci lo siamo sempre domandato, dandoci
risposte sempre diverse, la più recente delle quali, quella che abbiamo
accreditato come ‘razionale’ (e le altre, chi le aveva prodotte?), è
risultata vincente. Ma perché avrebbe vinto una sola e non due, tre,
infinite?
Perfino la più ‘razionale’
delle discipline, la matematica, sta da qualche tempo sviluppando i rami
dell’irrazionalità suggerendo anche alla fisica razionalizzata di Newton
modelli di realtà multipli e probabilistici. La stessa ‘razionalità’, cara al
Settecento, non è più la stessa di allora e si arricchisce e nutre del suo
opposto, al punto di pretendere il controllo tanto quanto l’irrazionale lo
rivendica per sé.
Ma che vuol dire che
l’irrazionale ‘controlla’ se stesso e magari anche il razionale? Il
‘controllo’ non è sempre razionale?
Evidentemente sono possibili
vari livelli di controllo, da esercitarsi con strumenti di varia provenienza.
Così gli strumenti con i quali valutiamo la ‘giustezza’ di un’espressione
poetica, di un brano musicale, di un’opera pittorica o architettonica, non
sono di natura numerica né si esauriscono in reglo grammaticali e
sintattiche. E neppure sono di natura logca, anche se la logica, como il
numero e la matematica, vi hanno parte. Non so, a questo punto, se attribuire
questa elasticità di comportamento all’uso che noi facciamo degli strumenti
analitico-compositivi o a questi stessi. In altre parole, l’imprecisione che
tanto arricchisce il nostro giudizio percettivo, analitico, valutativo – è in
noi che giudichiamo. O è già negli strumenti che abbiamo inventato per
giudicare?
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Postini,
Postini del 'come se'
domenica 15 luglio 2012
La libertà
[403]
»Nun ja, die Freiheit, wissen Sie, die Freiheit…!«
wiederholte er, indem er eine vage, ein wenig linkische, aber begeisterte
Armbewegung hinaus, hinunter, über die See hin vollführte, und zwar nicht
nach jener Seite, wo die mecklenburgische Küste die Bucht beschränkte,
sondern dorthin, wo das Meer offen war, wo es sich in immer schmaler
werdenden grünen, blauen, gelben und grauen Streifen leicht gekräuselt,
großartig und unabsehbar dem verwischten Horizont entgegendehnte…
„Eh già, la libertà, lei
capisce, la libertà…!“, si ripeté con un vago, timido ma entusiastico
movimento del braccio in fuori, in basso, in direzione del mare, ma non dalla
parte dove l’insenatura era limitata dalla costa del Mecklenburgo, bensì
dalla parte del mare aperto, dove questo si estendeva, appena increspato da
sempre più sottili strisce verdi, blù, gialle e grigie, grandiosamente e a
perdita d’occhio verso l’indistinto orizzonte.
“Ecco uno che sa scrivere…”
“Direi piuttosto uno che sa
pensare…”
“Hai ragione. È forse la più
bella definizione di ‘libertà’ che io conosca!”
“Non so se sia la più bella. So
solo che è più da sessanta anni che mi dà da pensare…”.
La citazione è dai Buddenbrooks, di Thomas Mann. L’Autore
era a quel tempo politicamente –si sarebbe poi detto– un reazionario, ma
questa sua definizione del concetto di ‘libertà’ mi è sempre sembrata la più
libera, meno ideologizzata, meno reazionaria tra tutte quelle in cui mi è
capitato di imbattermi. Proprio perché non è una definizione, non segna dei
confini, anzi, sconfina nell’indistinto, come lo sguardo in cerca di un
orizzonte sul mar Baltico (l’episodio è ambientato a Travemünde, vicino a
Lubecca, appunto sul mar Baltico).
– – – – –
Personalmente, sono infastidito
dall’abuso che in genere si fa della parola e dal concetto di ‘libertà’.
Dubito ormai che sia possibile attribuire all’usurata parola un concetto
spendibili fuori dall’oratoria tribunizia. È più che evidente che ‘libertà’,
se non se ne definiscono il contesto e i limiti, è un termine privo di
significato, come lo è forse qualsiasi altro. Con la differenza che, quando
diciamo ‘sedia’, o il suo ‘significato’ è inequivocabilmente riferito a un
oggetto presente nel contesto, o non richiede questa specificazione, mentre
quando diciamo ‘libertà’, il più delle volte neppure ci chiediamo quale sia
il significato, sicuri, ‘ideologicamente’ sicuri che da qualche parte ci deve
pure esseri, visto l’uso frequente della parola e, spesso, l’autorità di chi
la pronuncia.
Nel passo citato, invece, la
parola viene detta, ripetuta, come per essere commentata, ma ciò che segue è
il lento trascorrere del gesto e dello sguardo verso un orizzonte
inafferrabile… L’insistenza con cui il periodo manniano tenta di
circoscrivere questa inafferrabilità, senza riuscirci, ce ne dà la migliore
interpretazione: ‘libertà’ non è un
concetto, ma solo un vago simulacro di concetto, destinato a perdersi come
l’onda che si rifrange sugli scogli.
Lettura vanamente estetizzante
di una parola densa di riferimenti politici oppure lettura finalmente
realistica –anche se letterariamente espressa– di una parola che proprio
l’abuso politico ha deliberatamente svuotato di ogni significato?
Propendo per la seconda
interpretazione, suggeritami del resto dall’insieme dell’opera di Mann,
profondamente problematica e pedagogica, indisponibile verso chi chiede
risposte, apertissima verso chi crede di essere aiutato a pensare ‘oltre’
l’incerto orizzonte della ‘certezza’.
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Postini,
Postini del 'come se',
Thomas Mann
giovedì 12 luglio 2012
Cosa può fare un sindacato?
Nel ‘boccale’
precedente abbiamo abbozzato una definizione detta ‘topografica’ del sindacato,
cioè, descrivendolo come un luogo
concettuale dove possono materializzarsi una serie di caratteristiche, e quindi
dove possono avvenire una serie di azioni.
Cosa può fare quindi un sindacato che
concepisce se stesso come luogo di relazione,
informazione, iniziativa, responsabilizzazione, pratica e pensiero,
(auto)formazione, composizione della diversità…? (descrizione incompleta,
cangiante, come già affermato)
· Osserva/ascolta/interroga multidimensionalmente,
attivamente la realtà fattuale del
mondo del lavoro e ambiti circondanti, cercando un massimo di prospettive
differenti, e la sintetizza attraverso strumenti informativo-analitici.
· Include
partecipativamente i lavoratori, nell’accezione più ampia del termine, nei
processi sia strategici che operativi, con la doppia, inscindibile intenzione
di usufruire del loro apporto individuale all’impresa collettiva, e di
retribuirli con opportunità di (auto)formazione e di servizio ai loro pari.
· Comunica la sua
azione e il suo pensiero nelle dimensioni più ampie possibili – aspira a essere
interlocutore consapevole in tutte le
dimensioni attinenti l’ambito di lavoro, privilegiando certo quelle più dirette
(datore di lavoro, altri agenti sindacali/professionali, lavoratori attivi), ma
rifiutando di limitarsi ad esse. In questa azione di comunicazione, si
preoccupa di esplicitare con la
maggiore chiarezza possibile le proprie posizioni e risultati, i presupposti
dai quali sono stati raggiunti, e le limitazioni che li condizionano.
·
Si autoorganizza in
modo aperto, definendo sia le proprie strutture
produttive interne (produttrici di informazione e analisi, di comunicazione e
relazione, di decisioni, di strategia, di sostegno collettivo e individuale…),
sia i propri processi produttivi
interni.
·
Elabora una strategia,
in relazione con la storia, con i vincoli immediati (ambito di lavoro in senso
stretto, datore di lavoro, altre forze sindacali), in relazione con il mondo
esterno (società, istituzioni, condizioni socio-politico-economiche
imperanti.). Questa strategia dovrebbe riferirsi a principi sentiti come
generalmente validi (cioè, al di là della contingenza) dai lavoratori.
·
Sottopone a critica
evolutiva continua tanto i risultati quanto i processi; tanto le strutture
quanto i principi. Nella misura nella quale strutture e processi (interni)
interagiscono con strutture e processi (esterni), si sente autorizzato, anzi
responsabilizzato, a estendere detta critica all’ambito esterno.
· Fornisce sostegno
collettivo ai lavoratori, sviluppando detta strategia. Questo sostegno
collettivo viene normalmente espresso sia in una dimensione presente che in una dimensione futura.
· Quanto alla dimensione presente, lo sviluppo della strategia normalmente è possibile solo
all’interno di vincoli predefiniti (leggi, accordi). In questo caso l’azione di
sostegno collettivo del sindacato si potrebbe descrivere come ‘miglior
occupazione funzionale dello spazio disponibile’, utilizzandolo il più
compiutamente possibile nell’interesse dei lavoratori.
· La dimensione futura
dello sviluppo della strategia comprende il riconoscimento
delle dinamiche (di espansione, di consolidamento, addirittura di restrizione)
che possono modificare ‘lo spazio disponibile’, e la partecipazione attiva alle stesse, coerentemente (ma non troppo)
con le proprie capacità. Infatti nell’intervento sulle dinamiche sono
ammissibili, anzi auspicabili, le proposte ‘al di là’ delle proprie capacità,
che cercano di mettere in moto delle forze ben superiori; interpersonali,
intersindacali, intercategoriali, dell’organizzazione intera, addirittura della
società.
· Fornisce pure sostegno
individuale ai lavoratori, sia per prevenire situazioni di difficoltà, sia
per affrontarle. Non solo con un obiettivo ‘giuridico’, aiutando il singolo a
sfruttare appieno i propri diritti all’interno dello spazio disponibile, e
puntando ad ottenere attraverso il caso singolo delle conquiste che vadano a beneficio
della collettività – ma abbinando ad esso un obiettivo ‘comunicativo’,
dimostrando nei fatti al lavoratore in questione (e indirettamente agli altri)
che egli appartiene ad una comunità.
·
Include, sussume tutte le azioni precedenti in una
‘meta-azione’ complessiva di composizione
delle diversità, sia esterne ed interne. Da questo punto di vista, il fine
ultimo del sindacato è contribuire alla sopravvivenza
funzionale, attiva dell’organizzazione nell’ambito dove svolge i suoi compiti
sociali.
L’azione e il
pensiero del sindacato così (auto)concepito sospendono di continuo il principio
di non contraddizione: anzitutto, nella sospensione della distinzione
concettuale tra azione e pensiero. Ma anche di quella tra postulante-lavoratore
attivo-pensionato; di quella tra categorie di lavoratori attivi, juniores o seniores, precari o stabili; di quella tra individuo e collettivo;
di quella tra agenti sindacali diversi; di quella tra questioni interne ed
esterne all’ambito di lavoro; di quella tra datore di lavoro e lavoratore; di
quella tra sostegno presente e futuro; di quella tra contributo all’impresa e retribuzione;
di quella tra risorse materiali e concettuali…
Sospensione
infine della distinzione tra azione (sull’‘oggetto’ a noi esterno) e
riflessione (interna, del ‘soggetto’ su se stesso). Ogni sindacato così
concepito vuole agire sull’ambito di
lavoro (‘oggetto’ al quale i ‘soggetti’ sindacali comunque appartengono); ma
vuole anche riflettere sulla natura
dell’azione sindacale per modificarla (‘soggetto’ riflettente che
conseguentemente diventa ‘oggetto’ di tali riflessioni).
Tutte queste
distinzioni possono essere riconosciute localmente, contingentemente,
all’interno di prospettive e progetti specifici; tutte senza eccezione possono
essere sospese all’interno di altri progetti e prospettive aggreganti i
precedenti, che perseguano gli obiettivi di composizione delle diversità
organizzative e di sopravvivenza funzionale dell’organizzazione. Che alla loro
volta possono essere sospese in prospettive aggreganti che puntino alla
composizione delle diversità sociale e di sopravvivenza della società stessa. Che
a loro volta…
giovedì 5 luglio 2012
Cosa è un sindacato?
[Mi sia permesso, a richiesta di Boris, interrompere momentaneamente la serie dei 'postini' con una nuova creatura, cioè un 'boccale']
Forse si può
cominciare questo tentativo di definizione… all’incontrario, dicendo cosa non è più un sindacato nel momento
presente, in rapporto a qualche pensiero. Non è un’organizzazione dall’alto in basso dove dei
‘leader’ spiegano alla ‘base’ cosa devono fare. Penso che non c’è più né alto
né basso, i ‘leaders’ lo sono solo di nome – non hanno né possono avere un’idea
di dove andare, tanto meno di come farlo.
- Non è un’organizzazione che mutua comportamenti dal mondo politico, stabilendo relazioni con esso, dipendenze da esso. Penso che a livello istituzionale non c’è più politica, c’è solo sudditanza a un pensiero unico.
- Non è un’organizzazione che ‘tratta’ per ottenere dal datore di lavoro per i lavoratori le ‘migliori condizioni’ entro i vincoli economici esistenti. Penso che non c’è più economia, c’è solo corsa ad assicurare l’ultima ronda di privilegi.
- Non è un’organizzazione che si oppone competitivamente ad altre ‘concorrenti’, né tantomeno al ‘datore di lavoro’, cercando di prevalere su di loro. Tantomeno oppone all’interno dei lavoratori ‘aderenti’ contro ‘non aderenti’, o ‘attivi’ contro ‘postulanti/pensionati’, o ‘stabili’ contro ‘precari’. Penso che le categorie assolute ‘opposizione’ e ‘concorrenza’ siano ormai esaurite, sterili.
Riassumendo: non
è un’organizzazione chiusa e gerarchizzata, politicamente allineata, orientata
a trattative rivendicative, concepita all’interno di opposizione ‘noi versus loro’.
E mi fermo con
questi quattro ‘non è…’ essenziali. Probabilmente i sindacati del mondo che fu,
tanti anni addietro, si sono riconosciuti sinceramente in quelle proposizioni
che oggi nego. Nulla da criticarli – semplicemente costatare che esse non
servono più a molto. Ripetere questi movimenti irriflessi aspettando che riproducano
i risultati del passato mi sembra pensiero magico.
Invece, cosa potrebbe essere oggi un sindacato,
ripensando in positivo questi ‘non è…’?
- Un luogo di relazione, intesa letteralmente come ‘rompere la solitudine’ del lavoratore, nullificato davanti a poteri innominati. Relazione che si deve costruire dagli elementi fondanti – anzitutto, dalla comunicazione personale, e dal proprio ‘contatto etologico’ con il luogo del lavoro e i suoi vincoli.
- Un luogo di informazione – ‘rompere la solitudine’ vuol dire non soltanto parlare e ascoltare – vuol dire fornire quell’informazione specifica che devolve potere, dignità, situazione al lavoratore – sa dove si trova – dove si trovano gli altri.
- Un luogo di iniziativa e di responsabilizzazione – piuttosto che un fornitore di soluzioni magicamente predefinite. La prima responsabilità, quella di pensare, analizzare (l’informazione). Dopodiché, fare – dopodiché, pensare, e così successivamente. Così, un luogo di pratica e pensiero. E così diventa pure un luogo di formazione reciproca e collettiva, di autoformazione.
- Un luogo di composizione delle diversità, esterne e interne, in un contesto di cambiamento continuo, di soltanto parziale controllo di questo cambiamento. Quindi un progetto di sopravvivenza dinamica, adattativa dell’organizzazione.
Dopo questo
tentativo incompleto di definizione ‘topografica’ del ‘cos’è’, ci resta da
spiegare ‘cosa può fare’ un sindacato. Arrisentirci per il prossimo boccale!
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