lunedì 28 maggio 2012

Il Mito della Caverna



[392]
L’uomo ha probabilmente sempre dubitato della veridicità dei dati sensoriali. Ma difficilmente ha rinunciato al ‘vero’ come concetto. Eppure sarebbe stata la soluzione più semplice: senza il ‘vero’, anche il dubbio non avrebbe luogo, e così l’inganno, l’errore, concetti però che ci sono necessarie quanto e più del ‘vero’. E allora, manteniamoli tutti, ma solo perché ci servono, togliendogli ogni spessore metafisico, ideologico.

Nel VII libro di La Repubblica Platone descrive il Mito della Caverna. Non so se ne sia lui l’inventore, ma ritengo probabile che, almeno nelle sue linee essenziali, esso gli preesistesse. Un gruppo di uomini è costretto, fin dalla nascita, a fissare una parete della caverna in cui è rinchiuso, parete sulla quale vengono proiettate, con l’aiuto di una sorgente luminosa –un fuoco– posta dietro agli spettatori, le ombre di oggetti, animati o no. L’analogia con la lanterna magica, col teatro di ombre e soprattutto con il cinema è evidente. Per gli spettatori, incatenati ai loro posti, l’unica ‘realtà’ di cui abbiano esperienza è appunto il gioco delle ombre sul muro. È, per Platone, il primo grado di conoscenza, la conoscenza sensibile.
Uno dei prigionieri si libera e scopre gli altri gradi: la conoscenza razionale, causale, infine la contemplazione intuitiva del ‘vero’ ideale, cioè dell’idea di cui la ragione può fornirci solo una copia. Le immagini della caverna non sono allora che una ‘copia della copia’, destituite di un fondamento ontologico e quindi inservibili per il filosofo. La strada verso la vera conoscenza è quindi una salita che sta a lui, al filosofo, di percorrere per poi illuminare, coloro che non l’hanno percorsa, di una luce ‘vera’.
Questa volta l’analogia è con le filosofie orientali, il buddismo in primo luogo, ma, come prima, non posso che dichiarare la mia ignoranza su eventuali fonti asiatiche di Platone. La mia riesposizione del Mito della Caverna non soddisferà certo un esperto di filosofia greca. Non è comunque è lui che rivolgo questo postino, ma a lettori come me, non più che orecchianti dell’argomento. Osservo però –nella mia riesposizione, non nell’originale– delle forzature ideologiche che mi lasciano dubbioso. (Evidentemente anch’io, come tutti, non riesco a staccarmi del tutto dall’ideologia della verità.)


A quanto detto prima avrei da obiettare:
·          Perché il prigioniero che si è liberato si volge indietro? Forse perché sta già dubitando di ciò che gli sta davanti. E perché dubiterebbe, se non ha mai visto altro?
·         Il grado intermedio della conoscenza ‘razionale’ ha come presupposto la razionalità del reale, che cioè la realtà sia afferrabile dalla ragione, cosa che, per essere credibile, avrebbe bisogno di un garante esterno, non è implicato nel processo conoscitivo.
·         Il grado ultimo –l’intuizione– presuppone per così dire, sé stessa. Perché ci sarebbe concessa, se agli altri animali non è riconosciuto neppure il diritto alla conoscenza razionale? Non potrebbe essere che la ragione costruisce di sua iniziativa questa graduatoria per inserirvi poi, al grado che più le conviene, il proprio nome?
·         Perché la luce che proviene dalla filosofia dovrebbe essere più ‘veritiera’ di quella proveniente dalla sorgente?
·         Nel racconto platonico la parola di chi possiede la verità ultima non viene ascoltata: gli uomini preferiscono attenersi alla verità sensibile. E perché non dovrebbero? Sarebbe come se non dovessimo dare piena fiducia a quanto ci dicono i mass media.


Perché: non dovremmo?

domenica 27 maggio 2012

Alles Vergängliche


[
391]
“Alles Vergängliche
Ist nur ein Gleichnis;
Das Unzulängliche,
Hier wird's Ereignis;
Das Unbeschreibliche,
Hier ist's getan;

Das Ewig-Weibliche
Zieht uns hinan.
Sono gli ultimi versi del Faust, una delle più alte voci d’Occidente, come lo era stata la Divina Commedia citata nel postino precedente. Mentre però lì si trattava solo di un episodio –per quanto tra i più celebrati del poema– qui abbiamo a che fare con un passo particolarmente esposto del Faust, e non solo perché ne costituisce la chiusa, ma anche perché ne enuncia in forma estremamente concisa due dei temi fondamentali: il transeunte come copia di un modello e l’eterno femminino come polo d’attrazione dell’umano. Il primo, che qua ci riguarda in particolare, era stato già enunciato con forza in apertura del secondo posto, con la metafora del rifrangersi della luce nel brillio di una cascata:
“Am farbigen Abglanz haben wir das Leben”
Sembra che neppure l’agnostico Goethe possa prescindere di un ancoraggio oltremondano, ancoraggio che si esprime, al di là della fantasmagoria pseudocattolica di questo finale –come, a suo tempo, al di là del pseudoluteranesimo di tutto il primo Faust– del ricorso al motivo del ‘prototipo’. Una lontana anticipazione della nietzscheiana ewiger Wiederkehr des Gleichen?

Non è un motivo nuovo nella tradizione d’Occidente, accennato già da Platone e ripreso poi con maggior convinzione da Plotino e per suo tramite penetrato nel primo cristianesimo e lì rimasto latente fino ai giorni nostri. Chiedo scusa ai cultori del venerando mito per averlo riproposto nella modesta veste di un postino del ‘come se’.

sabato 26 maggio 2012

Noi leggevamo un giorno per diletto

[390]
Sir Lancelot e la regina Ginevra, per Julia Margaret Cameron (1874)

Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e senza alcun sospetto.
 Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
 Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
 la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.

Sono parole che chiunque appartenga al ‘bel paese dove il sì suona’ ha o dovrebbe avere incise nella mente. Forse mai la fase dell’innamoramento è stata descritta con maggiore ‘verità’ psicologica e non è certo il caso che io insista nel commentare questi arcinoti versi. Vorrei solo rapportarle al reagente del ‘come se’.

Francesca e Paolo evidentemente già si amano. Dante ce lo dice chiaramente. Si rivolge infatti a Francesca:

Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?

Mancava solo un fattore scatenante, e questo è stato il prototipo mitico di Lancilotto e Ginevra. Per il nostro senso storico il prototipo scelto da Dante è singolarmente vicino al fatto narrato. Non si tratta ancora di un vero e proprio mito, ma della versione romanzata di un fatto precedente non ancora cristallizzato come poteva essere per Virgilio il racconto di Enea e Didone. Qualcosa di tuttora vivo e palpitante, che poteva produrre nella mente del lettore trecentesco –tanto più quindi in Paolo e Francesca– delle risonanze di attualità. L’immedesimazione nel prototipo è la scintilla che infiamma i due innamorati così come il loro amore si fa –per Dante non meno che per noi– prototipo di altre storie d’amore in una catena infinita di rimandi. Parimenti Galeotto è per i due il prototipo letterario del libro che stanno leggendo, così come il V Canto dell’Inferno può diventarlo per un lettore odierno. Dante sembra qui interpretare il mondo neoplatonicamente come una serie di rispecchiamenti, non altrimenti di come farà Goethe nel Faust (vedi postino seguente).

martedì 22 maggio 2012

Mondnacht

[389]



Es war, als hätt' der Himmel
Die Erde still geküßt,
Daß sie im Blütenschimmer
Von ihm nun träumen müßt'.

Die Luft ging durch die Felder,
Die Ähren wogten sacht,
Es rauschten leis die Wälder,
So sternklar war die Nacht.

Und meine Seele spannte
Weit ihre Flügel aus,
Flog durch die stillen Lande,
Als flöge sie nach Haus.

A parte la straordinaria bellezza della poesia, Schumann ne ha fatto anche l’indiscussa perla del Lied romantico. Per un convinto schubertiano come me non è facile ammettere che Mondnacht tocca un vertice probabilmente insuperato non solo nel suo genere, ma in tutta la tradizione musicale di Occidente.

Non è mia intenzione, comunque, addentrarmi in questioni di priorità estetica, per cui non sono minimamente preparato. Vorrei invece tentare di giustificare la presenza di questo ‘campione’ nella serie di postini del ‘come se’.

È chiaro che l’Es war als hätte der Himmel d’apertura non è che una metafora letteraria che non impegna in alcun modo il piano della realtà. E questo piano metaforico permane inalterato, anzi intensifica ancora la sua visionarietà dell’ulteriore metafora delle ali dispiegate a raggiungere la meta desiderata. Eichendorff si serve cui di un secondo plurale di LandLande, non Länder, alquanto più indeterminato e ‘poetico’ dell’altro, messo musicalmente in rilievo dalla mancata cadenza risolutiva (con l’accordo di tonica trasformato in dominante del suo quarto grado, che tuttavia verrà toccato appena di sfuggita in un’arcaizzante cadenza plagale). Tutto concorre ad allontanare dal mondo della realtà la già evanescente immagine poetica.

Forse tutto questo non appartiene al mondo dei ‘come se’; l’ho voluto tuttavia segnalare come dimostrazione dell’inaudita potenza espressiva che l’unione di due linguaggi –parola e musica– e capace di raggiungere.

lunedì 21 maggio 2012

Serie di postini del ‘come sé’ – Premessa

[387]

Questa serie comprende essenzialmente due tipi di postini più alcuni di incerta interpretazione: i postini che interpretano il ‘come se’ in senso unicamente metaforico –‘correva come se avesse le ali ai piedi’– e quelli che gli concedono una possibile realtà –‘correva come se lo spingesse un irrefrenabile desiderio’–. Sta al lettore attenersi all’una o all’altra interpretazione.

I diciannove ‘campioni’ non intendono ovviamente esaurire la tipologia del ‘come se’, ma solo sensibilizzare chi legge alle infinite sfumature di senso che il linguaggio verbale permette quasi a nostra insaputa. Sono qui citati alla rinfusa i primi esempi che mi sono venute alla mente, più o meno frammentari, raramente integrali, come subito il primo, Mondnacht (notte di luna). Ve ne sono sicuramente di più convincenti e sarò grato a coloro che volessero segnalarmeli, magari anche commentati. Mi sono limitato alle principali lingue europee (che neppure ben conosco), e ad autori di pubblico dominio, ma non nego che avrei voluto estendere la ricerca ad altre aree linguistiche, sicuro che vi avrei trovato esempi anche più significativi di quei pochi qui raccolti.

sabato 19 maggio 2012

La sestina pro senectute (e vi)

[386]
Molti vedono la vecchiaia come preparazione alla morte. La cosa è comprensibile nel caso di famiglie molto religiose, che credono in una vita dopo la morte. Altrimenti che cosa ci sarebbe da preparare?

Più utile mi sembra prepararsi alla vecchiaia, e prima si comincia, meglio è. Ma non si tratta di abituarsi all’idea di un’inevitabile sciagura. Certo, anche la vecchiaia può essere infelice, come può esserlo qualsiasi età. E allora è l’infelicità il problema, non la vecchiaia. La vecchiaia lo è solo quando giunge anzitempo. E questo può accadere, come qualsiasi altro malanno. Spesso però né almeno corresponsabile l’individuo stesso, se non la società tutta intera, che declassa la vecchiaia a ingombro sociale, poi ne piange ipocritamente la fine. L’ideologia della produttività materiale (della ricchezza prodotta) ci nasconde altri tipi di produttività che la vecchiaia invece favorisce alcune civiltà che giudichiamo –dall’alto della modernità– arcaiche tengono in considerazione perfino la demenza senile attribuendole facoltà divinatorie o taumaturgiche. Non voglio con questo farmi paladino di un ‘ritorno all’antico’, ma solo riconnettere la vecchiaia al tronco della vita, di cui non costituisce in alcun modo la cima divenuta sterile, ma può essere vista come una mano protesa verso un domani non più suo.

venerdì 18 maggio 2012

La sestina pro senectute (v)

[385]

Adeguatamente preparata, socialmente sorretta, serenamente vissuta, la vecchiaia potrebbe competere con le altre stagioni della vita quanto a godibilità e rendimento. Naturalmente questi due termini andrebbero ricondotti entro i confini segnati dall’età. Questi appaiono insopportabilmente stretti se vengono pensati col pensiero di un trentennio di un cinquantenne; se li collochiamo in uno spazio preparato ad accoglierli, ci appariranno ‘giusti’, di una ‘giustezza’ del tutto soddisfacente.

Si pensa normalmente alla vecchiaia come all’età delle rinunce e non come all’età della massima espansione mentale (conoscitiva, propositiva, critica). Qualcuno obietterà che questa espansione non è utilizzabile che in minima parte, perché non riconosciuta dalla società e spesso anche censurata dall’individuo. La vecchiaia va costruita nel tempo, e la mente stessa va allenata al nuovo stadio, che, non potendo più contare sulle prestazioni giovanili, neppure si accorge di quelle rese possibili dall’età. Il ‘problema dell’anziano’ è tale solo per una società imprevidente, che ha aspettato a porselo solo a cose fatte. Esistono, è vero, nella maggioranza dei paesi, sistemi previdenziali che garantiscono la sussistenza ben oltre i limiti della vita cosiddetta produttiva, ma questi non fanno per altro verso che peggiorare le cose perché convincono l’anziano della sua esistenza parassitaria. Anche di questo la società si è accorta ed è corsa ai ripari creando per l’anziano occasioni, più o meno fittizie, di reinserimento lucrativo. Ma è proprio questo ripetuto ‘correre ai ripari’ che de motiva l’anziano e lo priva delle spinte propositive necessarie alla sopravvivenza. Il ‘problema dell’anziano’ scompare nel momento che la società cessa di considerarlo un relitto bisognoso di restauro e li restituisce il ruolo che lo rende indispensabile al compimento formativo dell’ambiente in cui vive.

giovedì 17 maggio 2012

La sestina pro senectute (iv)

[384]

Nella poesiola citata due postini fa l’Autore descrive con l’abituale precisione di rompere, quasi subitaneo, della vecchiaia, preceduta solo da deboli indizi, spesso trascurati. Seguono mesi, anni di crisi, depressione finché si comincia a ‘imparare’ come si fa ad essere vecchi. Il bambino ci mette assai di più a imparare la condizione di adulto, l’anziano non ha molto tempo e deve spicciarsi, spesso impedito dalle circostanze e dai suoi simili. Mentre infatti la società investe nella gioventù, su cui conta per sopravvivere, tutt’al più tollera l’anziano, da cui non si aspetta più nulla. È, questa dell’anziano, una condizione nuova, a cui nessuno ci ha preparato. La scuola, i corsi di formazione sono per i giovani, tutt’al più per riempire i vuoti dell’anzianità.

Negli animali, la vecchiaia non è in genere che un breve preludio alla morte. Così era, fino a poco tempo fa, anche per l’uomo. Oggi l’allungamento più o meno artificiale della vita media, ha fatto della vecchiaia una non più trascurabile sezione della vita con caratteristiche peculiari che richiederebbero un adeguato periodo di formazione. La mia proposta è:

Considerare unitariamente la vita come un processo formativo del suo stadio finale. Ogni stadio, oltre a essere autonomo è anche preparazione allo stadio successivo. E l’ultimo, si chiederà?

Chiude la fase individuale per entrare in una fase transindividuale di dispersione nell’ambiente, inteso nella sua accezione più ampia, cosmica.

Ho sempre ammirato il finale dell’episodio di Elena (Faust II, atto terzo), quando, il suo seguito di ancelle si dissolve nelle forze di natura, simboleggiate dalle ninfe dei boschi, dei monti, nelle acque, per confluire infine nell’orgia bacchica sovrastata dal potente raglio dall’asino di Sileno.

In poche parole: la vecchiaia va preparata fin dall’infanzia con l’apertura della mente a una molteplicità di interessi, di curiosità, di saperi, di competenze, capace di sostituirsi a vicenda, perché da loro dipende il perdurare della vita anche oltre i suoi confini fisiologici.

mercoledì 16 maggio 2012

La sestina pro senectute (iii)

[383]

Qualcuno mi sa spiegare perché attualmente ho in antipatia (quasi) tutta la musica che ho scritto, mentre non è così per le composizioni verbali?

Poiché non penso la cosa possa interessare al punto da farci su un saggio, mi proverò io stesso ad avanzare qualche ipotesi, cominciando da quelle che mi sento di scartare a priori.

·       La musica ha perso per me d’interesse.
Non mi sembra assolutamente. Negli ultimi tempi ho ascoltato più volte e con immutata commozione la Passione secondo Matteo, Così fan tutte, il Quartetto op. 132, il quartetto La morte e la fanciulla e vari Lieder, il Requiem tedesco, la IX Sinfonia di Mahler.

·       Quella che ha perso di interesse per me è la Neue Musik di metà del secolo scorso. A dire il vero, anche ciò che è venuto dopo. E perché hanno perso di interesse? Perché me ne sono tirato fuori.

·       E perché ti sei tirato fuori dai rischi del nuovo?
Non credo per paura. Piuttosto per pigrizia. Adire il nuovo costa fatica, ed evidentemente non ho voluto faticare. Un Lied di Schubert è così comodo! Così tremendamente alto, e così comodo!

·       È per questo che ti sei ritirato? perché la tua comodità volava troppo basso?

·       Mettiamola così.

·       Prima ho detto di avere in antipatia la mia musica, quasi tutta. Perché ‘quasi’?
Perché vi sono delle eccezioni, per esempio Die Gott und die Bayadere, la Gryphius-Kantate, Euphorion…, ma anche di questi lavori non saprei dire se a piacermi non sono soprattutto i testi.

·       Comunque non è detto che le cose restino a questo punto. Allo stato attuale preferisco le cose che ho scritto a parole e non con le note. Domani potrebbe essere il contrario. Oggi darei la metà delle mie musiche per questi postini. Ma non per un loro ipotetico ‘valore’. Perché le parole muovono immediatamente il pensiero e i suoni lo fanno solo dopo che gli abbiamo raffreddati dalla Kuhwärme, come dice Thomas Mann. In precedenza avevo tentato di scrivere musica senza calore vaccino. Ma la musica senza Kuhwärme non mi piace.

martedì 15 maggio 2012

La sestina pro senectute (ii)



La vecchiaia, di Salvador Dalí (1940)
[382]
Das Alter ist ein höflich Mann
Einmal übers andre klopft er an,
Aber nun sagt niemand: Herein!
Und vor der Tür will er nicht sein,
Da klinkt er auf, tritt ein so schnell,
Und nun heißt’s, er sei ein grober Gesell.
(Goethe)

La vecchiaia è arrivata –ormai da tempo– e il suo codazzo di acciacchi, melanconie e depressioni. Mentirei se dicessi che mi dispiace del tutto. Ho passato periodi assai più negativi di questo: così gli anni Sessanta, quando, passata la beata incoscienza di un giovane di belle speranze’, ho cessato di sperare –in me stesso– e mi sono rassegnato ad essere quel che forse non ero: uno che non ha più nulla da sperare. Poi vennero il Sessantotto, Paola, Cantalupo, il Centro e tutto il resto.

Oggi non posso effettivamente più sperare in un ‘dopo’, eppure non mi sento per nulla come nei miei ‘anni di piombo’ (in anticipo di dieci su quelli che vengono detti tali). Non so pronunciarmi sulle mie capacità lavorative. Soggettivamente, alcuni giorni sono meglio di altri, almeno quanto a numero di righe scritte; oggettivamente, la cosa non mi riguarda perché non credo nell’oggettività e, anche se ci credessi, non avrei modo di dimostrarla. L’unica cosa che posso dire è che momenti di soddisfazione si alternano a momenti di sconforto, così che si riproduce quanto si è sempre prodotto, e la vecchiaia assomiglia alla mia giovane età, solo che ora, a vacillare non è solo l’umore…

Guardo spesso le mie scatole entomologiche e della maggior parte degli esemplari –di quelli meno comuni soprattutto– arrivo a ricordare il momento e le circostanze della cattura, mentre niente di simile mi accade con le mie composizioni musicali, neppure con quelle poche che ho sentito eseguire. Vorrà dire qualcosa, questo?

lunedì 14 maggio 2012

La sestina pro senectute (i)

[381]

Continuo a osservare me stesso. Ovviamente da dentro, anche perché da fuori sarei assai poco interessato: un vecchio traballante ‘con la goccia al naso’. Da dentro però sono costretto, non posso farne a meno, seppure vorrei. E così noto: – la situazione è stazionaria e mi ci sto abituando. Anzi, in alcuni giorni mi sembra di migliorare. Non è che traballi meno, sto imparando a controllare meglio il mio precario equilibrio. Prevedo le cose che potrebbero metterla in forse, e l’evito. Prevedo anche le cose che potrei dimenticare –praticamente tutte– e le trattengo. Insomma sto imparando a essere vecchio. Se non fosse come per l’asino di Buridano…

Comunque, l’autoosservazione non è per fortuna l’unica attività interna che mi posso permettere. Questi postini sono una buona compagnia che, oltretutto, condivido con altri. Molti sono, per così dire, compagni virtuali che neppure so chi sono –i visitatori dell’oblò–, altri li conosco e posso supporli intenti a leggere qualcuno dei postini anche se non è vero. Di uno sono sicuro che li legge, perché è lui che li carica su Internet, Fernando.

Fernando, in ordine di tempo, l’ultimo dei miei amici. In vita mia di amici ne ho avuto pochissimi, forse due soli, Sergio ed Enrico, guarda caso tutti e due legati ai coleotteri. Ora vi si sta aggiungendo Fernando, che però con i coleotteri non ha nulla a che fare. Mi domando: se Fernando non avesse la parte che ha nel curare i miei scritti non musicali, sarei capace di essergli amico come sono?

Il problema è infatti mio, solo mio. Sono così arido di sentimenti da non saper essere amico se non per via indiretta, attraverso i coleotteri o i postini e simili?

Selig, wer sich von der Welt
Ohne Haß verschließt,
Einen Freund am Busen hält
Und mit dem genießt,

Was von Menschen nicht gewußt 

Oder nicht bedacht. 

Durch das Labyrinth der Brust 

Wandelt in der Nacht.[1]

È, è stata la mia amicizia, anche lontanamente, di questo tipo?



[1] Johann Wolfgang von Goethe, An den Mond.

martedì 8 maggio 2012

Tutta l'acqua della Terra


In questa curiosa immagine, prodotta dall'US Geological Survey, vediamo TUTTA l'acqua che c'è sulla Terra, in una "goccia" sferica di 1.385 km di diametro.

mercoledì 2 maggio 2012

...carogna nei fiumi tra molte carogne...

[380]
Alla fine del precedente postino mi è capitato di citare quattro parole di una poesia di Brecht, secondo me tra le più belle della letteratura tedesca. Ho tentato molti anni fa di metterle in musica, senza però riuscirci; ho anche provato a tradurla, ma proprio l’ultimo verso –quello qui citato– me l’ha impedito. Vi compare per due volte la parola Aas, riferita all’immagine (trattata con infinita dolcezza ma senza ombra di sentimentalismo) di una ragazza annegata. Aas –in italiano ‘carogna’– è indubbiamente un termine alquanto duro e in forte contrasto con la pietà –per nulla cristiana– che spira dal paesaggio descritto. Ma il ‘suono’ della parola non lo è, anzi la sua brevità, unita con il suono, stamperà l’immagine di un giovan corpo in via di putrefazione, trascinato dall’acqua e poco per volta dimenticato da Dio (“prima la faccia, poi le mani e solo da ultimo i capelli”). A questo punto Brecht qualifica lo stato di quel corpo: “Dann ward sie Aas in Flüßen mit vielem Aas”, in italiano: “E diventò carogna nei fiumi tra molte carogne”. Avrei potuto tradurre ‘morta materia’ anziché ‘carogna’, ma mi è sembrato di tradire l’immediatezza di quell’Aas.

martedì 1 maggio 2012

Do ut des

[379]
• Sacrificio: atto di sottomissione al potere.
• Sacrificio: mezzo di corruzione del potere.
• Sacrificio: oggetto di scambio per ottenere il perdono.

C’è qualche altro modo, meno servile, di intendere ‘sacrificio’. Certamente: ‘sacrificio di un proprio vantaggio per un vantaggio altrui’. È ancora il modello del do ut des, dello scambio, mancante però del secondo termine. Chi è – dovrebbe essere– colui che da, il tu di quel des? Resta il solo do, l’atto del ‘dare’, qualcosa di molto evangelico. E non voglio negare che questo tratto del vangelo, anche se non lo trovo nel mio operare, continua ad affascinarmi. Non credo però che il termine ‘sacrificio’ (far cosa sacra, attinente alla religione) sia adeguato. Non c’è nulla di sacro nell’aiutare il prossimo, a meno di non considerare sacro lui stesso, cioè la persona umana, me compreso. Lungi da me quest’idea. Sarò forse presuntuoso, ma non fino a questo punto. Quando, tra non molto, sarò –come dice Brecht– Aas… mit vielem Aas – che resterebbe della mia ‘sacralità’?