lunedì 26 ottobre 2009

Stereotipi?

Un famoso video di Bruno Bozzetto...

lunedì 19 ottobre 2009

Alberto Gianquinto - Mutazioni. Su Boris Porena.

In seguito allo scritto di Boris Porena 'Verso una mutazione' pubblicato sul sito Testo e Senso, ci è giunta questa interessante riflessione da parte di Alberto Gianquinto. La riportiamo qui sotto.


- Alberto Gianquinto -

Mutazioni. Su Boris Porena.

Il fatto incontrovertibile che il punto di partenza non può essere altro che la creazione, la quale non è il semplice inventare, ricavando qualcosa da ciò che già si conosce: non è un ricombinare il già noto: la creazione appartiene a ciò che in psicologia è chiamato pensiero laterale (ma va ben più in profondo del pensiero) e che consiste proprio nel rompere uno schema noto, cioè – movendo dalla norma costituita – nel respingere la relazione con questa, movendo addirittura dalle radici pre-linguistiche del contenuto simbolico dei diversi linguaggi. La generazione, l’atto creativo simbolico, muove da rapporti pre-linguistici, familiari ed empatici che ciascuno ha con il mondo delle cose, secondo una lateralità di prassi e di pensiero rispetto alla norma, creando per tale via una rete, un tessuto di relazioni semantiche e sintattiche, che costituiscono verticalità con il mondo e orizzontalità fra simboli, che solo in un momento ulteriore s’incontrano con la norma costituita dalla cultura condivisa, quindi con la società che deve introiettare questi nuovi codici, riconducendo a nuova norma e a nuovo livello lo scarto prodotto dall’atto creativo. In questo passaggio dall’immediato pre-linguistico alla mediazione simbolica può costituirsi quella poetica in cui si specificano i nuovi caratteri dei linguaggi. Questo codice in fieri non esiste prima, nelle norme della cultura già data: non è una pura ricombinazione di elementi già presenti e noti, ma emersione da un piano non ancora logico-razionale di quel che ancora non è saputo. Un sapere si forma lentamente sul piano dell’inconscio, della coscienza e della storia. La memoria stessa delle cose, il tessuto storico insomma, non è auto-descrizione di sé o semplice narrazione della propria storia sociale; nel presente creativo, solo in quanto atto creativo, si pone una nuova allusione al passato ed al futuro, una nuova rete mnestica e nuovi modi di visione ed anticipazione del domani, in termini non metafisico-attualistici del divenire storico.

Se la società tende a conservare tutti i suoi codici interpretativi, la creazione culturale ha la funzione di rimetterli in discussione, non attraverso un sincretismo di idee, ma attraverso individuali atti creativi, che solo quando introiettati nella cultura di una società divengono terreno di unificazione: non è da una pluralità di culture che si setacciano gli ingredienti del nuovo: questo nuovo deve essere creato individualmente rompendo gli schemi storici delle diverse culture e da questi fondamenti infine riproposto alla società, che deve riappropriarsene.

Se il linguaggio della coscienza non è il solo possibile, se il percorso dal sapere al pensare non è diretto, ma deve rompere gli schemi del sapere, per poter pensare (o meglio: per poter esprimere contenuti in forme linguistiche) in modo nuovo (in modo che lo scarto prodotto nella creazione possa essere poi ricondotto a nuova norma), ciò non accade soltanto attraverso un confronto paritario di opinioni e di competenze diverse, e quindi attraverso il loro azzeramento, ma, al contrario, attraverso lo sforzo creativo, che intende rompere gli schemi che si propongono nel confronto, con l’intenzione di portare questo e solo questo atto creativo al vaglio della società, che decide quale sia in grado di sussumere e di conservare come sua norma, fino al successivo atto che ancora una volta scarta dalla nuova norma. La ricerca di parametri culturali tramite il confronto deve consistere nel sostenere, certo, che la continuità di ciascuno sta nel diverso da sé, ma non che questa debba risolversi in sincretismo, in una media democratica di opinioni. Indagare tutti i dinamismi, latenti o meno nelle diverse culture, significa semplicemente ripensarli ex novo, per capire a quali possa essere consentita una nuova e ri-creata rappresentazione.

lunedì 12 ottobre 2009

Amico


Amico


"Giulio è mio amico”: la solita attribuzione di qualità, operata, quasi a nostra insaputa, dal verbo ‘essere’. Ma Giulio non è amico di Edoardo (che neppure conosce); la qualifica di 'amico' non riguarda quindi una proprietà di Giulio –che insieme la possiede e non la possiede– ma una proprietà ‘mia’: quella di chiamarlo 'amico'. Sembra un insulso gioco di parole, eppure quante incomprensioni, delusioni possono nascerne. Se infatti Giulio non si comporta come pensiamo si debba comportare un amico, ecco che subentra il rancore, quasi che la responsabilità di un'amicizia tradita fosse sua e solo sua. Potrebbe invece darsi il caso o che lui non si riconoscesse nella mia affermazione o che le nostre idee di ‘amicizia’ non fossero le stesse. In ogni caso la frase “Giulio è mio amico” non riguarda lui e forse neppure me; qualifica una relazione, ma da un punto di vista unilaterale.

(Dall'opera Metaparole, di Boris Porena, 2008, di prossima pubblicazione)

mercoledì 7 ottobre 2009

Epistola a Serge Latouche




È difficile dialogare efficacemente con qualcuno di cui si condividono le idee. Normalmente non si fa che ripeterle, ma non sempre repetita iuvant, può anzi capitare che in bocca a un altro le idee di quel qualcuno risultino sfocate, invecchiate, indebolite. Che fare allora? Contestarle solo per il piacere di affermare sé stessi? Meglio mi sembra di ribadirle da un punto di vista che non può essere quello che le ha generate, per poi tentare di derivarne delle altre e così via.

Caro Latouche,

i tredici anni che ci dividono mi permettono forse di darti del ‘tu’, anche se la tua voce, benché scomoda, ha certo più ascolto della mia. Non sono un buon lettore e di te conosco più per ciò che circola per l’aria che per conoscenza diretta. Leggere di più ...

Ciononostante mi sono accorto che molte delle cose che ritenevo di pensare con la mia testa in realtà. le stavo pensando con la tua, ma la cosa non mi è per nulla dispiaciuta. Sono convinto, ormai da anni, che una tête bien faite (come dice Morin) non tanto pensa individualmente quanto coglie il pensiero fluttuante nel suo tempo. Ma chi ci garantisce di aver colto quello giusto? Per parte mia, avendo colto quello tuo, ne sono convinto.

Che il mondo vada incontro alla sua rovina mi sembra incontestabile. Mi occupo, da dilettante, di entomologia e vedo di anno in anno le specie di insetti, anche le più comuni, contrarsi fin quasi alla sparizione. Intere famiglie coleotteri, lepidotteri, imenotteri, per citare quelle più conosciute, stanno scomparendo, almeno dalle nostre parti, ma notizie altrettanto sconfortanti mi giungono da altre parti del mondo. TV e giornali non ne parlano, la cosa non sembra interessare nessuno, ma il sintomo è là, sotto i nostri occhi e non escluderei che di qui a qualche tempo il ‘sintomo’ coinvolga anche noi.

Sento invece quotidianamente e con fastidio le soddisfatte dichiarazioni dei politici, economisti, imprenditori che la crisi l’abbiamo passata, che l’economia ha ripreso a crescere e la ricchezza a rifluire nelle tasche degli uni e a defluire da quelle degli altri. Anche se questo fosse vero, per quanto tempo il flusso continuerà? Fino alla prossima crisi, peggiore di quella da cui dicono che siamo usciti, a meno … a meno che il capitale non accenda un terzo conflitto mondiale che non risparmierebbe tuttavia nessuno, neppure quelli che l’hanno acceso.

Non c’è bisogno che io ricordi a eventuali lettori di questa epistola politica i capisaldi della tua analisi del mondo contemporaneo: l’inganno di una crescita economica illimitata su un pianeta a risorse limitate, la trappola dello sviluppo sostenibile, il primato dell’economia, l’appiattimento culturale sul modello occidentale con conseguente perdita della diversità, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del terreno, il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci, l’imbarbarimento dei costumi ecc. ecc. Sono tutte cose che osserviamo quotidianamente ma è come se non le vedessimo, accecati come siamo dalla ricerca di welfare anch’esso in crescita illimitata come il nostro desiderio di tenergli dietro. Eppure sono anni, decenni che tu e altri le andate ripetendo e che la storia recente vi dà ragione, come anche l’attuale crisi dimostra. Immaginiamo per un attimo che la classe politica o parte di essa, in Europa, in America o nei maggiori paesi emergenti vi dia ascolto, come per esempio Obama sembra che faccia. Sappiamo benissimo che non sono i partiti o i governi a decidere delle nostre sorti, ma le multinazionali, le lobbies del potere economico e finanziario … Ma la democrazia, il diritto alla scelta, che il cittadino ha conquistato in secoli di lotta per la ‘libertà’? Appena ha potuto lo ha deposto ai piedi dei miglior promettenti che, per semplificargli le cose, si sono autoridotti in molti paesi a due schieramenti scarsamente distinguibili.

La ‘democrazia’ … l’ultimo –in ordine di tempo– degli inganni che il capitale ci ha intessuto attorno, eppure il male minore tra quanto abbiamo saputo escogitare a salvaguardia di noi stessi.. La democrazia non regala la libertà, ma la presuppone. Voglio dire che, per realizzarla con un minimo di credibilità, la mente deve essere ‘libera’, cioè autonoma nella scelta. Mentre nelle democrazie reali tutto concorre, dalle campagne elettorali agli spot televisivi, a confondere mente e scelta, per lo più non opponendo verità a verità ma menzogna a menzogna. Ma tutto questo non sarebbe grave se l’autonomia l’avessimo ereditata come un cane ha ereditato l’attaccamento al branco (impersonato dal suo padrone), o se fossimo stati educati ad essa. Ma nessuna delle due cose si è verificata e non siamo né ‘liberi’ né autonomi, pur professandoci ‘democratici’.

Il nostro CMC (Centro Metaculturale) proprio di questo si occupa da 35 anni : di rendere quanto è possibile libero e autonomo il pensiero. A dire il vero, inizialmente si trattava piuttosto di capire come funzionava un pensiero ancora non o poco plasmato dalla cultura. E, quanto a verginità, quale territorio più vergine di quello musicale nella scuola elementare di un piccolo paese interno del Lazio? E qui, a Cantalupo in provincia di Rieti abbiamo cominciato il nostro lavoro di ricerca e sperimentazione sulla composizione di suoni in assenza di codici sintattici, grammaticali, lessicali. Più tardi un analogo lavoro è stato ‘trasferito’ nei territori adiacenti al visivo, del verbale, man mano estendendo a tutte le discipline rappresentate nella scuola. La nostra sperimentazione si è limitata a un livello di base, indagato però anche sui ragazzi più grandi e su adulti. I risultati ottenuti hanno largamente confermato la nostra fiducia nella mente umana, chiunque ne sia il portatore. Quando poi anche noi ci siamo imbattuti nei grandi problemi legati alla sopravivenza, la strada da seguire ci è sembrata quella di rendere le menti consapevoli al di là di quanto ci dicono le culture ufficiali, rese cieche da ben altri interessi. La consapevolezza non può tuttavia essere insegnata con una qualsiasi disciplina scolastica. Non consta di nozioni, dati, teoremi, ma è per così dire l’attività primaria del cervello umano, che non solo registra nozioni e dati e comprende i teoremi che li legano, ma raccorda le informazioni ricevute dall’esterno agli stati interni della mente, riflette cioè il ‘fuori’ nel dentro. Questo fondamentale passaggio che ci permette di lavorare, anziché con oggetti fisici, con rappresentazioni mentali riconosciute come tali, viene solitamente gestito dalla cultura. Ciò vuol dire che è la cultura –o meglio sono le culture nella loro variabilità– a determinare che cosa viene riconosciuto e come. Abbiamo chiamato questo tipo di riflessione ‘riflessione culturale’ in quanto interna a un sistema di valutazioni preordinato dagli UCL (Universi Culturali Locali). Noi però per sopravvivere abbiamo bisogno di un tipo di riflessione quanto più possibile indipendente dagli UCL. Un livello di autonomia totale e probabilmente irraggiungibile per una specie sociale come la nostra; le esperienze condotte dal nostro Centro ci fanno tutta via ritenere possibile una riflessione metaculturale, in certo qual modo più vicina a un ipotetico livello preculturale quale l’abbiamo riscontrato nella nostra esperienza di ‘base’ con la musica.

Le dimensioni standard di queste ‘epistole politiche’ non mi permettono di illustrarti più in dettaglio il nostro lavoro, documentato in numerosi scritti, peraltro non pubblicati e ottenibili solo dietro richiesta diretta. Come vedi, il nostro progetto formativo è propedeutico al tuo nel senso che mira da un lato alla destrutturazione della mente acculturata passivamente, dall’altro alla ricostruzione di una mente aperta –metaculturalmente– alla pluralità culturale. Il passaggio da una riflessione ‘culturale’ a una ‘ metaculturale’ non porta a nessun aggravio conoscitivo, non c’è bisogno di ulteriori studi e approfondimenti. È sufficiente che riconosciamo la natura ‘culturale’ di tutto ciò che pensiamo, diciamo, facciamo, il ché vuol dire che siamo in grado, se necessario, di dichiararne l’UCL di riferimento, fuori del quale nessuna valutazione è possibile senza una verifica nel nuovo UCL. Anche gli ‘assoluti’ sono metaculturalmente accettabili purché riferiti a uno o più UCL. Così le vostre analisi (da noi condivise) sono probabilmente ‘vere’ in tutti gli UCL che includano tra i loro principi quello della sopravivenza. Un UCL che non lo contenesse potrebbe tranquillamente lasciar andare le cose come vanno. Non basta tuttavia che esistano sulla terra delle persone capaci di pensare metaculturalmente. Occorre che diventino la maggioranza in tutti i paesi. Se in uno qualsiasi dei paesi che possiedono la bomba atomica una persona o un gruppo con accesso agli arsenali non avesse tra gli ingredienti del suo UCL il principio della sopravvivenza, non ci sarebbe da scommettere due soldi sul futuro di Homo sapiens sapiens. Con l’intento di promuovere la riflessione metaculturale, il che è come dire il linguaggio-macchina del cervello, ho approntato lo scorso anno una raccolta di Metaparole che altro non sono che parole di uso comune su cui un breve testo introduttivo invita a riflettere fuori dai binari del suo uso convenzionale. Finalità analoga si propongono queste Epistole politiche, diverse solo per una maggiore ampiezza e un tono più colloquiale.

Tra le due raccolte un’altra ve n’è, Parabole, di impostazione didattico-narrativa. L’intento è lo stesso e l’uso che vorrei ne venisse fatto è di lettura pubblica come invito a un commento collettivo anche e sopratutto divergente dal testo letto.

Caro Latouche, se fossi più giovane, ti chiederei una collaborazione più duratura, ma, pur essendo musicista, non posso più decidere della durata.

B.

Cantalupo, 30 IX 2009