sabato 30 settembre 2017

Tratta XLII.3 – De me – Sempre Darmstadt...


Lo stesso anno del precedente ‘punto di arrivo’ – tale infatti lo ritenevo – mi si è aperta davanti una strada, per me del tutto nuova, con la prima di tre frequentazioni dei corsi annuali tenuti a Darmstadt dai massimi esponenti della Neue Musik. Faccio solo tre nomi, Pierre Boulez, Luigi Nono, Karlheinz Stockhausen, cui si è aggiunto poco dopo John Cage, quasi in funzione di liquidatore di tutta l’esperienza darmstadtiana. I compositori presenti ai corsi erano certo molti di più – tra cui io stesso – ma quelli che cambiarono il mio modo di pensare la musica furono quei tre (o quattro).
Il mio cambiamento, anche se radicale, non fu però totale. Mi portai infatti appresso il mio attaccamento alla lingua ‘tonale’, peraltro ben modulata dalle nuove tecniche mutuate dalle avanguardie. Il risultato scontentava a queste e i tradizionalisti e tutti i gradi intermedi facendo di me un outsider che neppure avrei voluto essere (o forse sì…). Ho mantenuto questa ‘non posizione’ per una decina d’anni, descrivendo di fatto sempre lo stesso pezzo, in varie formazioni strumentali, orchestrali, corali, grandi o piccole, sempre più insoddisfatto. Intorno al 1967 la mia insoddisfazioni si è fatta insopportabile ed è sfociata nella decisione – traumatica per un compositore, anche perché percepita come definitiva – di abbandonare un’attività in cui avevo riposto tutte le mie aspettative di vita. Non era ancora l’abbandono della musica – che subentrerò una quarantina di anni più tardi – , ma pur sempre un cambiamento che lasciava dietro di sé un vuoto che si trattava ora di riempire. Con che cosa?

Si era giunti frattanto al fatidico Sessantotto che travolse anche me, più mentalmente in vero che fattivamente (non ero già più nell’età dei giovanili furori). Cercai così di sfogare la mia insoddisfazione nell’impegno sociale, come sindacalista (per breve tempo), poi come ‘operatore culturale di base’, esercitando la mia attività nei quartieri periferici di Roma e nella campagna, anche con l’appoggio della RAI. Frattanto proseguivo la mia attività di docente di composizione nel conservatorio di Santa Cecilia, un poco la volta ho ricominciato a vivere come essere umano e come musicista.]

giovedì 28 settembre 2017

Tratte XLII.2 – De me – Anno 1957



Nel 1957 precisamente con la cantata (in origine chiamata Lied) per soprano, baritono coro e orchestra Der Gott und die Bajadere [1] su testo di Goethe, si chiude la mia prima fase di compositore musicale, interamente nel segno del neoclassicismo stravisnkiano con sensibili imprestiti hindemithiani.
Lo splendido testo mi aveva letteralmente stregato, infondendomi un entusiasmo compositivo mai più esperimentato nel linguaggio dei suoni – e ritrovato forse solo più di quarant’anni dopo nella stesura verbale di IMC, un’ipotesi per la sopravvivenza. [2] Non so, ovviamente, se a quell’entusiasmo compositivo abbia corrisposto un risultato altrettanto entusiasmante, ma la cosa mi lascia abbastanza disinteressato: quell’entusiasmo ho avuto la fortuna di trovarlo, e che si può volere di più? La prima esecuzione ebbe luogo a Torino, con Magda Laszlo meravigliosa interprete della bambina-bayadere, e dal basso James Loomis, narratore-Mahadöh, per l’ottima direzione di Ettore Gracis e con la partecipata accoglienza del pubblico. Nel mezzo secolo seguente non mi è più capitato di scrivere musica con maggior convinzione, merito ovviamente dei miei modelli, di Goethe e dell’aproblematico linguaggio tonale da me scelto. A proposito del quale l’attributo ‘aproblematico’ ha tuttavia bisogno di una correzione. In quegli anni – i primi tentativi risalgono a prima del 1953 – avevo infatti coltivato, come molti colleghi, l’utopia di coniugare l’asprezza della tecnica seriale (dodecafonica soprattutto) con la piacevolezza della tonalità così da soddisfare ambedue le esigenze compositive cui tenevo: il rigore strutturale e il desiderio di conservare alla musica la sua funzione comunicativa. Ne era nata quella che molti anni dopo avrei chiamato ‘modulazione culturale’ tra due linguaggi pressoché incompatibili. Per parte mia intravedevo questa possibilità di modulazione soprattutto in una gestione semplice ma razionale del parametro durata a tutti i livelli: notali, fraseologici, formali. Ricordo che lavoravo col righello a grandezze numeriche, ma penso che nessuno se ne sia accorto. Allora perché? Per ‘sgravio di coscienza’ avrebbe detto Mann. In realtà perché mi piaceva così.



[1]           CBP-IIa:1, Der Gott und die Bajadere, cantata per baritono, soprano, coro (soprani, alti, tenori, bassi), due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro trombe e archi. 15.IV.57. Testo di J. W. Goethe. Suvini Zerboni 1966.
[2]           Vedi [10a] Libro I – Esposizione di IMC e di alcuni suoi antecedenti e conseguenti (1999), appartenente al Volume III L’Ipotesi Metaculturale – Un’ipotesi per la composizione delle diversità, ossia per la sopravvivenza nelle Indagini metaculturali.

mercoledì 27 settembre 2017

Tratte XLII.1 – De me – Anno 1954



[Nel 1954 avevo già composto un certo numero di lavori – aproblematici e tonali, un po’ per scelta, un po’ per ignoranza della contemporaneità – , con il quale mi ero illuso di essermi aperto una via per il futuro. Sul finire di quell’anno iniziale i Tre pezzi concertanti [1] per due pianoforti, ottoni ed archi che poi fu eseguito l’anno seguente nella stagione dei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia, direttore Armando Previtali, pianisti Ermelinda Magnetti, Mario Caporaloni.
Ricordo questo fatto per alcune ragioni che nella memoria mi sembrano divertenti:
·     L’attacco dei due pianoforti dopo poche battute introduttive degli archi fa l’effetto di un’entrata di foche in uno spettacolo di circo, e così l’ho chiamato anche in seguito.
·     Il termino che apre il secondo pezzo – poi più volte ripreso dalle trombe con un ingenuo, quasi infantile contorno contrappuntistico dei due pianoforti – ha un delicato sapore stravinskiano di cui tuttavia non mi vergogno (Stravinskij è stato per molti anni il mio nume tutelare, prima che Darmstadt cancellasse con un sol colpo di spugna quel mio sogno giovanile).
·     Il terzo pezzo – dei tre certo il meno simpatico – mi piace ricordarlo per un piano compositivo ambizioso, anche questo ingenuamente realizzato, che sembra anticipare di quasi mezzo secolo uno stilo di pensiero maturato fuori dalla musica e riflesso per esempio anche in queste tratte.
Non avevo ancora ascoltato una sola nota di Bruckner o di Mahler – quest’ultimo diventato poi quasi una costante dei miei ascolti musicali – , e mi ero messo in testa di ‘inventarmi’ la loro lingua musicale. Ovviamente non ci sono riuscito, ma, mettendo assieme Brahms e Wagner, che conoscevo abbastanza bene, e passandoli per una salutare doccia stravinskiana, ho ottenuto qualcosa che lontanamente rispondeva al mio progetto, come ho potuto constatare molti anni dopo.
I pezzi piacquero, più di una Kammermusik di Hindemith inclusa nel loro programma, e la cosa mi indignò moltissimo, perché ritenevo – e ritengo – il suo autore un compositore di ben altro calibro del mio.


[1]          CBP-VI:2, Tre pezzi concertanti, 1955, per due pianoforti, ottoni ed archi.