sabato 26 settembre 2009

All'America di Obama - Epistola Politica



America, America … Quale America? Quella di Bush o quella di Obama? Ma non è sempre la stessa? Sono cambiati gli elettori? E ora, stanno cambiando un’altra volta? I numeri cosa ci dicono? Ma: possono i numeri dirci qualcosa? Possono, in democrazia, cambiare le sorti di un paese o addirittura del mondo, decidere se pace o guerra, stabilire chi vivrà nell’abbondanza e chi morirà di fame …, ma ci informeranno realmente come pensa la popolazione, come pensano i singoli individui?

Obama non fa che tentar di realizzare quanto ha promesso in campagna elettorale e per cui lo avete votato. Eppure i numeri ci dicono che la sua popolarità è in calo. Come pensavate che avrebbe agito? Lasciando le cose come stavano, semplicemente riverniciando la facciata della Casa Bianca? Lui, per metà nero?

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Ma che America siete, che oggi scendete in piazza, non per chiedere l’assistenza sanitaria per tutti, ma per lasciare che sia un ‘affare’ finanziato da coloro che non se la possono pagare?
È vero che non bisogna generalizzare e che quelle decine di migliaia che hanno protestato contro la riforma sanitaria voluta da Obama non sono l’America. È però abbastanza sintomatico che la protesta avesse due punti di forza: la ‘minaccia’ di una deriva socialista e l’altra, che la progettata riforma sia ‘di colore’. Ancora e sempre la paura del comunismo e il razzismo.

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Chi vi scrive è per metà italiano come milioni e milioni di vostri padri e nonni, per metà tedesco come altri milioni di vostri antenati. Siamo tutti di razza caucasica, ma quale differenza! Certo, anche noi siamo capaci di vistosi voltafaccia −ci lo dicevano anche i tedeschi alla fine della Seconda Guerra Mondiale−; ieri votavamo in massa Berlinguer, oggi Berlusconi. Forse qualche traccia di razzismo la si riscontra anche da noi quando lasciamo che si respingano in mare barconi di disperati in cerca di salvezza. “La salvezza se la cerchino a casa loro” si dice e chi tace acconsente. Da noi il colore della pelle non conta, dicono, conta però la latitudine: “e noi i terroni non li vogliamo, anzi, non vogliamo neppure convivere con loro in uno stesso stato.” Il ché, tradotto dal padano, vuol dire “giù la mani dai nostri soldi!” Ma noi la sanità, almeno, ce l’abbiamo per tutti. Solo che al sud gli ospedali o vanno in pezzi o sono inquinati dalla mafia o tutt’e due le cose. Quanto al buon esempio del resto d’Europa, è meglio che non andiamo troppo indietro nel tempo …

Nell’insieme noi europei siamo certo gli ultimi che possono dare a voi americani lezioni di democrazia. Nella sua veste moderna l’avete inventata voi e tuttora ne incarnate la forma meglio riuscita. Tanto più vorremmo che la svolta ‘sociale’ −non socialista− voluta da Obama apportasse alla vostra nazione il cambiamento di mentalità indispensabile alla sua realizzazione. Vorremmo anche che la forza trainante da voi esercitata a livello mondiale non dipendesse più dal vostro arsenale atomico o dal vostro strapotere economico, ma dal perfezionamento di un modello politico rimasto senza concorrenti sul piano internazionale. Obama sembra avviato proprio su questa strada very american, sempreché lo lasciate lavorare senza rimpianti per una fase imperialistica, si spera, definitivamente tramontata.

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Non essendo io un politico di professione, non voglio entrare in merito a quanto Obama dice e fa in questo campo. Anche perché le sue parole e azioni andrebbero riferite a un contesto ideologico che non è il nostro. Vorrei tuttavia tentare un accostamento alle sue posizioni riguardo all’istruzione, se non altro per capire qual’è il peso che la scuola e i processi formativi in genere hanno nella vita di un cittadino medio americano. È chiaro infatti che nella sua qualità di Presidente democraticamente eletto dai cittadini Obama, per mantenere il consenso tributatogli al momento dell’elezione, non può che attenersi a quanto gli suggerisce la mentalità del cittadino medio. È una delle aporie della democrazia: qualsiasi progetto di affinamento intellettuale deve ottenere il consenso di coloro che non ne sentono alcun bisogno. Anche tenuto conto di questa illibertà del Presidente della nazione che della ‘libertà’ ha fatto il suo cavallo di battaglia, il discorso di Obama agli studenti il giorno di apertura dell’anno scolastico suona a una prima lettura come irrimediabilmente paternalistico e benpensante. Era stato atteso da un gran numero di genitori, che, se il discorso non fosse stato sufficientemente pattriotico e immune da colorature socialiste, avrebbero preferito tenere i figli a casa anziché esporli al terribile contagio. Per molti di noi è difficile capire una tale mentalità. Per Obama evidentemente no, in ogni caso era suo compito mostrare di condividerla. Proviamo ora noi, provvisoriamente, a condividerla e, partendo da essa, a leggere il discorso di Obama.

Anzitutto si rivolge direttamente agli studenti e non all’istituzione o agli insegnanti. Le famiglie sono sì più volte nominate, ma soprattutto in funzione del domani dei loro figli. Già questo fatto può far nascere nelle suddette mentalità il sospetto che si voglia ‘indottrinarli’ scavalcando scuola e famiglia. Obama deve fare molta attenzione a mantenersi sulle generali e a non entrare in dettagli sui contenuti e sulle finalità dell’istruzione. Deve semmai far frequenti riferimenti alla storia americana e all’impegno di coloro che hanno fatto grande l’America. Deve quindi puntare sull’individuo e sul successo, ma lo fa in direzione della collettività. “Ognuno di voi sa far bene qualcosa, ha qualcosa da offrire.” E abilmente coniuga queste due priorità americane: il successo individuale e il futuro dell’America. E per avvalorare questo connubio cita, con discrezione e senza millanteria, sé stesso. Quale maggior successo che essere diventato Presidente degli Stati Uniti, notoriamente la più grande nazione del mondo, e quanto più esemplare per l’ideologia del self made man una carriera che vi sia arrivata partendo da una condizione famigliare modesta con una madre single “che lottava ogni giorno per pagare i conti”. L’esempio traversa tutti i livelli sociali e al tempo stesso –ma Obama non vi fa cenno– le differenze razziali del suo paese. Lo accuseranno poi di aver parlato da uomo di colore, mentre è evidente che a parlare secondo il colore sono i suoi accusatori. Obama promette indirettamente maggiori finanziamenti alla scuola: “Mi sto dando da fare per garantirvi classi e libri e accessori e computer, tutto il necessario al vostro apprendimento.” E qui chiede che anche gli studenti facciano la loro parte impegnandosi al massimo: “mi aspetto grandi cose da ognuno di voi …”. E, per chiudere, un richiamo al suo slogan elettorale: “So che potete farlo”.

Un discorso ben calibrato, da ‘buon padre di famiglia’ come è stato detto, forse poco significativo da un punto di vista pedagogico, eppure anche troppo sbilanciato in senso sociale per l’individualismo spinto di un elettore repubblicano. Forse persino tra i democratici qualcuno avrà percepito odor di socialismo e si sarà pentito del suo voto.

Se qualcosa possiamo imparare anche noi da questo tenue e prudente discorso, è la tattica con cui Obama porta avanti il suo discorso. Ma è una tattica: o è il limite della mentalità di Obama? Non so e allo stato attuale non credo sia necessario saperlo. Spesso è più facile coltivare un pensiero radicalmente innovativo o addirittura fare una rivoluzione che muovere un piccolo passo in direzione di una meta neppure chiaramente individuata, ma non più interna a un’ideologia in disfacimento.

B

Cantalupo, 16-IX-09

2 commenti:

Anonimo ha detto...

A quanto pare la giuria del Nobel ha letto l'espistola di Boris a Obama, e tanti suoi interventi a favore della sopravvivenza dell'umanità e della pace! Sicuramente ha voluto dare il suo contributo e usare la sua visibilità a livello mondiale per incoraggiare un Presidente impegnato tra mostruose difficoltà in riforme epocali, prima fra tutte la convivenza pacifica. Anche noi sosteniamo questa e perigliosa difficile impresa.
Claude

Rigobaldo ha detto...

Gentile Claude,

Al mio modo di vedere, la giuria del Nobel ha preso la vacca per le balle, come si dice in campagna.

Trovo una gigantesca presa per il sedere la concessione di un premio per la pace al capo dello Stato che sta conducendo in quel momento due guerre sanguignose, dove si ha trucidato la popolazione civile -e si sta trucidando- senza battere ciglio, con l'esplicito proposito di ottenere vendetta. Al capo dello Stato che ha rinunciato ad esigere responsabilità giuridiche ai torturatori della precedente amministrazione - e che ha nominato commandante dell'armata afgana un generale con responsabilità provata nelle torture, McChrystal. Al capo dello Stato che prevede dedicare al suo budget militare nell'anno fiscale 2009 -della sua intera responsabilità, quindi- un 21% del budget federale. Niente meno 651 miliardi di dolari di USA (+5,7% relativamente all'ultimo budget di Bush, 2008); aggiungendo altre spese militari fuori del budget esplicito di difesa, si arriverà a un totale tra 925 e 1.1140 miliardi.

Obama suscita speranze, certo (meno ad ogni mese che passa, vista no solo la sua perseveranza nelle campagne militari, ma anche la sua gestione della crisi finanziaria, premiando esattamente coloro che avevano portato la crisi) ... su quello che farà, un giorno futuro, sotto determinate condizioni, Ma risulta ridicolo dire che si concede un premio per esprimere supporto ad un ipotetico comportamento futuro.

Vabbene che il "premio" in questione era stato già concesso a Henry Kissinger e a Menachem Begin, tra altri "paladini" della pace. Ma questa è proprio grossa.

Certo, avrebbero potuto concederlo a Berlusconi. Da questo punto di vista, non è andata tanto male.

Cordialità,