sabato 9 luglio 2011

Fermati per accertamenti


[135] Era stato certamente il castello a dare il nome –Castelnegro– allo sperduto paese dell'interno, cui si arrivava dopo alcuni chilometri di strada sconnessa, incassata tra alte rocce brulle sulle quali si vedevano volteggiare grossi rapaci, forse poiane o nibli bruni. La giovane coppia che, incuriosita da un vecchio cartello all’imbocco della strettoia –‘visitate Castelne…’–, stava percorrendo quel tratto di strada assai poco frequentato, era ben decisa a raggiungere il paese, nonostante un altro cartello segnalasse la presenza di una concirconvallazione che avrebbe ricondotto sulla provinciale più a valle.Viaggiare di più ...Si diceva nel cartello… questo però era bianco, un poco spettrale nella luce della sera. A essere nero era semmai il paese, costruito in pietra vulcanica, scurissima: un’unica assalita dalla chiesa portava dritto al castello. I due avevano lasciato la macchina fuori dal paese, chiuso al traffico, comunque non percorribile per la presenza di alcuni gradoni, scomodi da superare perfino a piedi.
Abitanti non se ne vedevano, solo qualche cane randagio affetto da digiuno cronico.
Dopo circa duecento metri quell’unica strada terminava davanti a un cancello di ferro, chiuso da un paletto arrugginito ma privo di catenaccio. Con poco sforzo i due si trovarono, quasi senza rendersene conto, in un giardino incolto che in un tempo lontano doveva essere stato, a giudicare dai pochi ma lussuosi resti, addirittura principesco. Da un portone sgangherato uscivano suoni come di cucina e voci di due –un uomo e una donna– che litigavano in una lingua insolita, forse centro-asiatica. I visitatori si avvicinarono alla cucina da cui provenivano suoni e voci, a chiedere notizia sul castello e i suoi proprietari. In quel momento da una porta laterale fece la sua apparizione una figura di donna anziana, alta, vestita di bianco ma, a ben guardare, poco curata, anzi decisamente in disordine. Ciò nonostante si presentò con molta cortesia come la proprietaria del maniero – tutto, in lei come nell’ambiente, rimandava di tempi lontani, si sarebbe detto di secoli. Il personale che prima si era sentito litigare non ritenne opportuno farsi vedere; agli onori di casa, per così dire, provvide la stessa padrona con del tè di scarsa qualità e alcuni biscotti che sapevano di muffa, il tutto servito in piatti e bicchieri di plastica su un gigantesco tavolo di noce nel salone centrale del castello.
“Sapevo che sareste venuti –cominciò la signora–, anzi sono anni, secoli che vi aspetto: questo mi comandò il mio buon Carlo nel donarmi il feudo in cui vi trovate”. “Carlo chi?” – azzardò la sposina (i due erano chiaramente in viaggio di nozze). “Carlo Martello, naturalmente!” fu la risposta. I due si scambiarono uno sguardo come per dire: abbiamo capito. “Purtroppo –riprese la feudatari– Carlo non mi ha detto chi dovevo aspettare e per che cosa. E così col tempo ho consumato tonnellate di biscotti ed ettolitri di te per le persone sbagliate, per lo più mendicanti pellegrini in viaggio per Santiago, ma anche ladri e soldataglia allo sbando, a prescindere dalle meretrici al loro seguito. Questo castello era un tempo ricchissimo, ma un po’ alla volta quelli mi hanno preso quasi tutto. Vedete –disse accennando ad alcune croste da rigattiere pendenti alle pareti– sono rimasti solo questi Tiziano, Tintoretto, quei due Rembrandt e di là, in camera da letto, un Leonardo di Capri, poca roba, ma che posso fare? Sono sola a guardia di queste ricchezze, anche se loro mi sono di valido aiuto”, e accennò ad alcuni gatti, sparsi per i tetti. Frattanto si era fatto buio e la castellana, con in mano un candeliere, aveva intrapreso una visita guidata del castello. “Attenti ai trabocchetti” –raccomandò–, gli ho segnalati quasi tutti, ma con questo buio qualcuno potrebbe sfuggirci. Si tratta comunque di cose di poco conto, il pozzo dei coccodrilli l’ho fatto prosciugare duecento anni fa. Ecco però la camera delle torture, oggi ridotta a magazzino delle scope. Questa invece è l’annessa ‘Cappella del Grande Perdono’, tappa obbligatoria per i condannati al solo taglio degli arti! Anche questa è una pratica caduta in disuso, sostituita oggi dal pagamento di un’ammenda in euro, più utile per la manutenzione dell’immobile. Da questa finestra si può ammirare di giorno la vista dell’unica strada che dal maniero porta alla chiesa e che sembra un treno fermo in stazione. Ed effettivamente un mattino lo visto partire…”
La visita turistica è poi continuata attraverso sale e corridoi, per lo più spogli, di cui tuttavia la castellana vantava le più improbabili singolarità. C’era la stanza della mummificazione, con alcune mummie già confezionate tra cui quella di Ramses II e una, più piccola ma autentica, di una gallina faraona. C’era poi il ‘Corridoio delle cento docce’, tutte non funzionanti, ma indispensabili per le Olimpiadi del 2030; quindi la stanza del tesoro, nel cui mezzo troneggiava la ‘Cattedra di San Pietro’, con tanto di autentica firmata da Callisto V. Di particolare interesse storico una bottiglia in plastica, dono di Luigi XIV, che lei pronunciava alla francese quasi come ‘Lui scatorcio’ e del quale era stata l’amante per alcuni decenni…
Questo ricordo scatenò in lei una reazione furibonda: impugnando una spada strappata un’armatura di Carlo V, la povera demente accennò a una ridda infernale trinciando l’aria con colpi di grande veemenza. A questo punto i due malcapitati visitatori, afferrato il candeliere che la vecchia aveva scaraventato a terra appiccando il fuoco a certi tendaggi, guadagnarono una porta laterale che per fortuna loro dava all’esterno, non lontano dal posto dove avevano lasciato la macchina. Mentre si allontanavano, dietro di loro il cielo cominciava a rosseggiare. Si fermarono alla prima stazione di polizia, dove peraltro nessuno sapeva di un paese chiamato Castelnegro, né di un castello abitato da una vecchia pazza. In compenso i due furono fermati per accertamenti.

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