venerdì 21 ottobre 2011

Erasmino


L'ultima incisione di Albrecht Dürer (1526), nella Collezione Reale di Kopenhagen

Su invito di Fernando e sperando sia di qualche interesse, voglio riassumere in questo breve intervento le impressioni da me riportate dalla lettura della biografia Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, di Stefan Zweig, 1934 – io l’ho letta in italiano, nell’edizione Rusconi del 1981 intitolata semplicemente Erasmo da Rotterdam.

La prima cosa a saltarmi agli occhi è la somiglianza del titolo originale tedesco con quello di un quasi-contemporaneo lavoro di Thomas Mann, Leiden und Größe Richard Wagners («Dolore e grandezza di Richard Wagner»), uscito nell’aprile del 1933. E in effetti, più che di una biografia si tratta di un ampio saggio biografico sul tipo del lavoro manniano, concepito cioè senza tenere troppo conto dell’immagine per così dire «storicamente tramandata» di Erasmo ma affidandosi invece per lo più alla propria sensibilità. Zweig, pur con tutte le precauzioni della saggistica scientifica, si arrischia a ricostruire la figura di Erasmo a partire dall’idea che si è fatto di essa (impresa di per se poco «scientifica»); la sua onestà intellettuale gli impedisce però, come è ovvio, di forzare e manomettere, e ogni volta che l’identificazione tra idea e persona fallisce, lo ammette con un dispiacere che non può che suscitare simpatia. In questo senso, direi che «dolore e grandezza» o «trionfo e tragedia» siano in gran parte attributi propri delle ideologie dei due autori, e non dei personaggi storici di cui si «ricostruisce» la figura, e sarà perciò difficile qui parlare di Erasmo da Rotterdam prescindendo da Stefan Zweig.
Leggere di più ...Se seguiamo l’autore, l’ideale che Erasmo, con la sua vita e le sue opere, incarna quasi perfettamente è l’ideale pacifista. Dopo una breve riflessione sul perché Erasmo oggi (nel 1933) sia quasi dimenticato (perché oscurato «da figure più vigorose e impetuose di altri riformatori universali», e perché «ben poche notizie divertenti ci offre la sua vita privata: un uomo del silenzio e del lavoro indefesso riesce di rado ad avere una biografia appassionante»), subito Zweig pronuncia la sua dichiarazione d’amore:

«Vogliamo quindi riassumere qui con chiarezza quello che ancora oggi, e proprio oggi, rende a noi caro Erasmo da Rotterdam, il gran dimenticato: il fatto che egli, tra tutti gli scrittori e i pensatori dell’occidente, è stato il primo europeo cosciente, il primo bellicoso amico della pace, l’avvocato più facondo dell’idealità umanistica. Il suo tragico destino di essere rimasto sconfitto nella sua lotta per un indirizzo più equo e più armonico del mondo spirituale, lo lega ancor più intimamente al nostro sentimento fraterno» [p. 7].

La venatura autobiografica è esplicitamente dichiarata. Un’altra cosa invece mi colpisce: la definizione di «primo bellicoso amico della pace». Continua:

«Erasmo ha amato molte cose che noi pure amiamo: la poesia e la filosofia, i libri e le opere d’arte, i linguaggi ed i popoli, ed ha amato senza distinzioni l’umanità intera, per una finalità moralizzatrice superiore. Egli non ha veramente odiato in terra che una cosa sola, quale antitesi della ragione: il fanatismo» [p. 8].

Se quel primo «bellicoso» poteva essere una trovata poetica, «l’odio per il fanatismo» lascia davvero perplessi. In tutto il libro non una sola volta ci è dato pensare che Erasmo provi odio per qualcosa o qualcuno (semmai stizza, disprezzo…). Secondo Zweig invece egli «odiò tutti gli ostinati e gli unilaterali […] tutti gli angusti campioni di ogni classe e ogni razza […]. Con tutta l’energia del proprio ingegno brillante e preciso, combatté quindi, in tutti i campi e per tutta la vita, i presuntuosi fanatici di una loro propria illusione – solo in ben rari momenti felici si accontentò di sorriderne» [pp. 8-9]. L’ideale erasmico può forse conciliare pacifismo e odio del fanatismo? Egli stesso sembra escluderlo:

«Per lui non vi è nel campo teologico né in quello filosofico una verità assoluta e valida per tutti. La verità ha sempre molti aspetti e molti colori, e il diritto del pari, perciò “mai il principe dovrebbe essere più prudente che nell’indursi alla guerra, né dovrebbe insistere nel suo diritto, giacché chi non considera la propria causa giusta?”» [p. 81].

Ma cos’è il «fanatismo» per Erasmo?

«Ogni volta che Erasmo alza la voce contro la guerra, l’odio e l’angustia mentale, egli diventa appassionato, ma questa passionalità del suo sdegno non giunge mai a offuscare la limpidezza dello sguardo. Idealista per il cuore, ma scettico per la ragione, egli ha coscienza di tutti gli ostacoli che nel limite della realtà si oppongono all’attuazione di tale “pace mondiale cristiana”, all’impero della ragione umana. Colui che nella sua Laus stultitiae ha descritto tutti gli aspetti della follia e della incorreggibile sragionevolezza umana, non è tra quei sognatori idealisti che credono di poter annientare o anche soltanto addormentare con la parola scritta, coi libri, con le prediche o i trattati l’istinto di violenza innato nella natura umana […]; non ignorava che forse sarebbero occorsi millenni di educazione etica e di raffinamento culturale per sbestializzare ed umanizzare la razza umana» [pp. 82-83].

La violenza si manifesta quando manca il libero pensiero: una tale affermazione è già di per sé rivoluzionaria. Con un colpo di spugna, Erasmo cancella la linea rossa che per tutto il Medioevo ha collegato la pace alla cieca osservanza del dogma, alla mortificazione della ragione: non più la fede, bensì l’«impero della ragione umana» conduce alla «pace mondiale cristiana».

«Pensatore lungimirante, aveva da tempo veduto come l’istinto di violenza in sé non costituisca ancora un pericolo per il mondo. La mera violenza ha corto respiro; ella si dibatte cieca e furente, ma senza una meta al proprio volere, con breve pensiero, destinato ad afflosciarsi impotente dopo una fugace esplosione. […] Solo allorché l’istinto di violenza è al servizio di un’idea o l’idea di esso prevale, ne sorgono i veri tumulti, le rivoluzioni cruente e distruggitrici. Solo una parola d’ordine trasforma la massa in partito, solo l’organizzazione ne fa un’armata, solo un dogma ne fa un’eresia. Tutti i grandi conflitti nell’ambito dell’umanità hanno tratto il loro movente non tanto dall’istinto di violenza insito nel sangue umano, quanto da un’ideologia capace di scatenare tali istinti e di sospingerli contro una parte predestinata dell’umanità. È stato il fanatismo, questo bastardo fra spirito e forza bruta, a volere imporre all’universo intero la dittatura di un pensiero, anzi del proprio pensiero, quale unica forma lecita di vita e di fede, e a scindere così la comunità umana fra amici e nemici, fra seguaci e avversari, eroi e delinquenti, credenti ed eretici» [pp. 83-84].

Dunque il fanatismo non coincide con l’ideologia: in esso Erasmo (con Zweig) «odia» il processo di sclerotizzazione delle idee in ideologie, non le ideologie stesse ( tantomeno le vittime dell’ideologia, che egli cerca invece di ricondurre alla ragione). Certo, l’umanista non si rivolge mai ai «condotti-sedotti», alla folla incolta: a cavallo tra ‘400 e ‘500, la possibilità di una didattica di base non è nemmeno lontanamente concepibile (anche se quello che Zweig chiama il perseguimento, nel lavoro di Erasmo, di «una sintesi suprema di tutte le idee» è effettivamente vicino a IMC). Gli umanisti, come lo scrittore sottolinea in alcune pagine davvero belle, «rappresentano in sostanza non già un contrasto alla cavalleria, ma un suo rinnovamento sotto forma intellettuale» [p. 89], il che costituisce il loro limite più grande.

«Nemmeno per un istante Erasmo e i suoi pensano di concedere al popolo, incolto e pupillo – per essi ogni persona incolta è minorenne –, neppure il più piccolo diritto, e benché astrattamente amino l’umanità intera, si guardano bene dall’accomunarsi al profanum vulgus. […] Appunto questo ignorare il popolo, questa indifferenza di fronte alla realtà, tolse al regno di Erasmo ogni possibilità di durata e alle sue idee ogni immediatezza ed efficacia: lo sbaglio primo ed organico dell’umanesimo fu di avere voluto istruire il popolo dall’alto, invece di tentare di comprenderlo, imparando da lui» [pp. 88-90].

Ci aspetteremmo che Zweig, frequentatore dei migliori salotti, collezionista di mobili preziosi (il tavolino del suo studio era appartenuto a Beethoven, con grande invidia del suo vicino –anch’egli collezionista–, Franz Werfel), senta su di sé il peso della propria affermazione. Non è così: egli si ritiene al sicuro da certi rimproveri, come pure considera al di sopra di ogni biasimo lo stesso Erasmo. Sa però che dietro all’esibito elitarismo dell’ambiente in cui vive si nasconde l’incapacità di una classe intera a rivolgersi all’uomo comune, in altre parole quella debolezza che nei giorni in cui Zweig scrive lascia spazio all’ascesa del nazismo.

«In ciò sta la tragedia dell’umanesimo, la causa del suo rapido declino: le idee erano grandi, ma non gli uomini che le proclamavano. Un grano di ridicolo permane di questi idealisti da camera, come sempre negli accademici riformatori del mondo. Sono tutte anime aride, ben intenzionate, rispettabilissime, sono pedanti lievemente vanitosi, che portano i loro nomi latini come una maschera intellettuale: la loro grottesca minuziosità fa sempre avvizzire i più rigogliosi pensieri. Questi minori compagni di Erasmo sono commoventi nell’ingenuità professorale, assomigliano un poco a quelle brave persone che ancor oggi si incontrano adunate nelle società filantropiche e riformatrici: idealisti teorici, che credono nel progresso come in una religione, sognatori a freddo […]» [p. 91].

Dover riconoscere nello stesso Erasmo uno «zampognaro della pace» (come direbbe Hans Castorp de La montagna incantata), dover raccontare la dieta di Worms e quella di Augusta e far notare la sua assenza, ammettere incredulo che «il gran dimenticato» mancò a tutti gli appuntamenti della storia, che disertò ogni opportunità di conciliare cattolici e protestanti: tutto questo gli è sommamente penoso. Eppure non abbandona il suo intento iniziale, e la biografia di Erasmo da Rotterdam è in fondo lo sforzo di distillare da una figura tutto sommato umana, il tipo universale del mediatore e del pacificatore. Che tale compito di pacificazione non possa prescindere da un potenziamento diffuso e capillare del pensiero è, a ben vedere, il fulcro di IMC, e a questo punto che parlino Erasmo da Rotterdam, Stefan Zweig o Boris Porena non fa poi molta differenza.

Dario Peluso

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