sabato 30 ottobre 2010

SÌ allo studio della materia


I progressi compiuti dall’uomo nello studio della materia durante i due ultimi secoli sono stupefacenti se paragonati al ritmo delle scoperte registrato nei millenni precedenti. Evidentemente non c’è un parallelismo tra lo sviluppo della mente e quello della conoscenza. Stando a ciò che si ricava dalle testimonianze letterarie, filosofiche, artistiche e matematiche, la mente comune ha raggiunto il suo attuale livello già molti millenni fa. Non così il sapere scientifico che, nonostante lo sviluppo dello strumento matematico (che si è dimostrato indispensabile all’indagine del mondo e della materia), si è arrestato ai suoi primordi. Che cosa è mancato per equiparare il sapere al suo strumento? Azzardo una risposta che molti non condivideranno: la libertà di usarlo. E chi ha negato agli uomini la libertà di uso delle loro menti?Leggere di più ...Il potere, che ha preferito rinunciare a questo strumento piuttosto che correre il rischio di esserne sopraffatto.
Una cosa il potere teme più di un potere avverso: l’intelligenza diffusa e perciò non controllabile. E così ha inventato religioni e ideologie entro cui incanalare un sapere dogmatizzato e immutabile. Ma non ha fatto i conti con la spinta autonoma, anarchica del pensiero stesso che, non appena apertosi quasi per caso uno spiraglio nel muro compatto del potere, ha compiuto l’irruzione che lo ha portato a un primo effettivo contatto con la complessità del reale, con la materia non ideologizzata. Non una materia creata da Dio, quindi indagabile senza offesa per nessuno; ciononostante il potere sta tentando di riguadagnare il terreno perduto ricostruendo la vecchia immagine, ma soprattutto impedendo alle menti di cancellarla definitivamente. In questo c’è un singolare accordo tra ideologie anche diversissime, incompatibili tra loro: sbarrare la via alla conoscenza del mondo e della materia.
Si obietterà che innumerevoli sono le vie aperte a tale conoscenza e anche i nostri sistemi di comunicazione di massa non le ignorano. Vero, ma quante persone nel mondo vengono raggiunte dalle indispensabili informazioni? Una minoranza ininfluente. E non è tanto la mancanza di informazione che paralizza le menti quanto il persistere di sistemi inibitori – soprattutto le religioni monoteiste. Particolarmente responsabili di questo stato di cose sono le scuole, ovunque legate al potere localmente dominante, ma ovunque ostili allo sviluppo autonomo del pensiero.

giovedì 28 ottobre 2010

Sì al potenziamento illimitato della mente


Questo sì presuppone forse una dose eccessiva di ottimismo. Non nascondo di avere provato una certa titubanza nello scriverlo. Finora la mente umana non mi sembra abbia dato buona prova di sé, almeno a giudicare dal punto in cui ci ha portato. Sporadicamente ci ha riempito di meraviglia ma la scia di oscurità sul suo cammino non credo possa essere compensata da questi sprazzi di luce.Leggere di più ...È noto il comportamento –che noi giudichiamo ferocemente aggressivo– della vespa gigante giapponese nei confronti delle api. Il processo evolutivo della loro mente non ha portato in milioni di anni a una diminuzione della loro ‘ferocia’, ma solo a un perfezionamento dei sistemi difensivi delle api. Si dirà che in quel caso erano in gioco meccanismi istintuali, non certo riflessivi. Ma nella mente umana, dotata di riflessività, era ed è in gioco una facoltà che si vuole distinta positivamente dal più arcaico istinto, eppure produce –in minor tempo e maggior evidenza– gli stessi risultati, per giunta all’interno della sua specificità. Perché allora invocare un potenziamento illimitato della mente, che finora non ha saputo che potenziare l’aggressività che avremmo voluto arginare? Ma l’avremmo voluto veramente? O l’intelligenza non è che uno strumento di sopraffazione più potente dell’istinto?
Se non ci fossero vie di uscita e fossimo ‘costretti’ a pensare così, sarebbe forse meglio rinunciare a quegli sprazzi di luce e rassegnarci all’oscurità della violenza. E molti sono gli indizi che altre vie non ci sono. Vediamo proprio in questi giorni (agosto-settembre 2010) che gli ‘accordi’ tra Stati si fondano, come sempre, sul reciproco vantaggio economico –in larga parte privato– ottenuto a spese dei più deboli e con l’ottuso consenso delle classi ‘benestanti’. E la miopia diffusa è tale che, in vista di un ‘buon affare’, nessuno osa opporsi pubblicamente, neppure la Chiesa (da noi il Vaticano), sedicente protettrice dei deboli, che all’occasione è assai brava a tacere.
Vedo che ho consumato quasi fino in fondo lo spazio preventivato per i singoli postini e non sono ancora riuscito a spendere neppure una parola per motivare il sì di apertura. Come è possibile restare ottimisti sul nostro futuro di umani leggendo anche solo le notizie ‘positive’ riportate dai giornali? Il potenziamento illimitato della mente deve ancora iniziare il suo cammino, e questo sì proviene dalla faccia negativa dell’utopia. Passerà mai da quella positiva?

martedì 26 ottobre 2010

SÌ a un limite nell’avere


Nell’era del capitalismo più sfrenato la sola idea di mettere un limite all’avere suona quasi come una bestemmia. C’è libertà se non siamo liberi nel possesso? Già siamo ciò che siamo e non ci è concesso essere di più; almeno che non vi siano limitazioni alla nostra capacità di accrescere il nostro avere. L’essere ci viene imposto dalla natura o giù di lì, l’avere siamo noi a fabbricarlo con le nostre capacità, il nostro lavoro, la nostra intelligenza. Tutt’al più possiamo ammettere qualche limitazioni all’avere ottenuto senza un impegno personale: avere ereditato, vinto alla lotteria, trovato per caso. Non so se ci sia qualcuno che pensa così. Vediamo però quotidianamente che sono in molti ad agire come se pensassero così. Il nostro sistema tributario sembrerebbe improntato a un limite per l’accrescimento incontrollato sia del capitale che del reddito, ma non si contano gli stratagemmi per sfuggire a questo limite. La sua osservanza penso comunque che sarebbe assai meglio garantita da un’intima convinzione che da leggi e controlli esterni, ma come arrivare a un’intima convinzione? Promuovendo una cultura del limite. Fino allora però considerando l’eccesso di avere un furto alla collettività e agendo di conseguenza.

domenica 24 ottobre 2010

SÌ a una giustizia ecoequilibrata, non punitiva


Che intendo per giustizia ecoequilibrata?
Una giustizia che tenga conto di tutti i rapporti che intercorrono tra membri della società umana e la casa celeste comune a tutti, rapporti che per quanto possibile dovrebbero favorire se non garantire la conservazione della biosfera e in particolare della nostra specie. Leggere di più ... Una giustizia del genere ha molto dell’utopico ed è quindi realisticamente inattuabile. Ciò non toglie tuttavia che possa orientare la parte giudicante meglio di un astratto imperativo categorico o di una morale ipocrita o, peggio ancora, asservita a un potere religioso. Per una tale giustizia, più che di colpa si parlerebbe del danno che un certo comportamento ha apportato a un individuo, a un gruppo sociale, all’ambiente, alla comunità dei viventi. Queste due ultime conseguenze in particolare verrebbero considerate con maggior attenzione che non avvenga allo stato attuale. La sanzione corrispondente non avrebbe tuttavia carattere punitivo ma varrebbe unicamente a ricomporre un equilibrio rotto. Ha poco senso fare appello a una responsabilità personale, quando il concetto stesso di responsabilità si sfalda all’analisi in una pluralità di elementi difficilmente valutabili: condizioni economiche, sociali, fattori genetici, educativi, culturali, religiosi ecc. Anche la ricomposizione di un equilibrio rotto non può essere ottenuta con un risarcimento spesso impossibile da ottenere e che vale allora la reclusione punitiva? Solo a tacitare l’istinto di vendetta del danneggiato; tutt’al più a rendere il danneggiatore più consapevole dei propri atti. Possibile che la nostra cultura non abbia a disposizione altri strumenti formativi che la vendetta o la punizione?

venerdì 22 ottobre 2010

SÌ alla disponibilità all’aiuto


Ho terminato da poco uno studio sulla relazione d’aiuto e non ripeterò quanto già detto in quell’occasione. Mi limito a prevenire l’incauto lettore che, sedotto dal buonismo del titolo, sperasse di vedere confermate certe sue più che legittime aspettative di cristiana carità, giacché nulla del genere troverà in questo scritto, orientato piuttosto a rafforzare il nostro egoismo specifico (di homo sapiens) e biologico (di animali partecipi della vita). Ritengo inoltre che un’eventuale nostra sopravvivenza per i prossimi decenni sia maggiormente favorita da un’universale relazione d’aiuto che dall’ipotesi di una crescita produttiva ed economica infinita.

giovedì 21 ottobre 2010

Una piccola nota sull’incontro del 15 al 18 ottobre a Cantalupo


Cosa abbiamo fatto? Principali risultati:

1) “Esperienze grafico-pittoriche di base” - È stata validata la nuova struttura che valorizza le Tavole, adottando le decisioni praticamente finali in quanto a testo e figure.

Il testo è una chicca. Abbiamo capito, credo, perché sia stato ‘dimenticato nel cassetto’ o quasi dai tempi della Kaimana. Richiedeva e una riforma strutturale e una dignificazione formale. Diventerà la probabile stella della parte di “Esperienze” del Volume III.

2) “Postini”. Si stanno affermando come nuova opera piena di interesse. Siamo ormai a quota 418 (abbiamo completato l’inventario a data 18 ottobre 2010). Inoltre, abbiamo compiuto un inventario dettagliato di quelli già pubblicati nell’oblò (sia come video, sia come trascrizione), mettendolo in rapporto con l’inventario complessivo. Attraverso varie fonti risultano essere trascritti all’incirca il 25% del totale.

La parte iniziale, quella nella quale l’opera non ha preso ancora direzione, è stata riordinata succintamente. Inoltre sono stati definiti criteri per fare l’annotazione dei postini, e abbiamo rivisto una quarantina proprio per fissare questi criteri. Naturalmente stiamo prendendo in considerazione, come ‘note’ spontanee, quei commenti sorti nell’oblò.

3) “Epistole politiche” – abbiamo rivisto il progetto di costruzione, considerando gli ultimi contributi (grazie Letizia, Francesco, Oliver!). Siamo a quota 55/85, quasi due terzi del totale.

4) Sul progetto complessivo “Indagini Metaculturali”, è stato deciso di illustrarlo con disegni di Paola. A tale scopo identificheremo nel nostro prossimo incontro sette serie diverse ben caratterizzate e selezioneremo del materiale per eventuali prove di riproduzione.

5) Progetto “tutela” – le partiture dell’anno 2003 (dodici quaderni, diciannove opere) sono state preparate per la scannerizzazione. Il quaderno di appunti 1997-1998 è stato scannerizzato e a breve l’archivio sarà riorganizzato, indicizzato e pronto per la consultazione.

E naturalmente, lo zabaione! Nonché chiacchierate varie tra di noi e con vari amici. Alla prossima!

mercoledì 20 ottobre 2010

SÌ alla disponibilità all’ascolto



No, non intendo parlare di musica, per lo meno non subito, in apertura, ma di una normale situazione di qualcuno che parla e qualcuno che ascolta. La disponibilità di quest’ultimo e l’attenzione con cui ascolta dipendono per lo più dal suo interesse per gli argomenti proposti dall’altro. E, poiché è raro che tra quello e questi vi sia convergenza, larga parte della comunicazione intercorsa si perde in un indistinto brusio di fondo. Se viceversa gli argomenti proposti accendono la mente anche dell’ascoltatore, questi tenderà ad appropriarsene tagliando fuori il proponente e concentrandosi su ciò che gli risponderà. Un vero ascolto partecipato lo si incontra raramente, perché è difficile, in quanto richiede una momentanea decentrazione del pensiero in quello dell’altro. I nostri ascolti sono quasi sempre ‘con riserva’ e, mentre ascoltiamo, la nostra mente lavora su questa ‘riserva’ piuttosto che sul messaggio in arrivo. A scuola, nel migliore dei casi, ci insegnano a parlare, a esprimerci con chiarezza ed efficacia. Ben di rado ci viene detto che anche l’ascolto richiede una sua tecnica.

  

È abbastanza ovvio che l’esercizio dell’ascolto abbia un suo ambito privilegiato nella musica. Non in quella che quotidianamente ci avvolge indifesi (e neppure possiamo dire che l’ascoltiamo, tanto poco impegna la nostra mente) ma nell’altra, la musica oggi fuori moda, la cui complessità definiva anche una modalità di ascolto a lei adeguata, ed è la mentalità che al cervello richiede un massimo di concentrazione e di lavoro analitico-interpretativo facendosi così ‘paradigma dell’ascolto tout-court’. Non è infatti la musica in quanto tale che qui ci interessa; la più banale delle canzonette può, per particolari ragioni, essere ascoltata con l’intensità in genere riservata a composizioni come il Quartetto Op. 132 di Beethoven. Per lo più, lo si direbbe uno spreco di energia come se si usasse una gru per sollevare un grano di mais, ma posso immaginare una situazione in cui per estrarre tutta l’informazione contenuta in un grano di mais io abbia bisogno di un’energia di ascolto superiore a quella che mi può fornire una gru. L’informazione non è una grandezza assoluta ma una variabile legata alla domanda.

E che cosa si può chiedere a un oggetto musicale oltreché di essere piacevole e divertente? Di muovere la mente e non solo gambe e braccia dell’ascoltatore; di parlare alla sua ragione non meno che alla sua emotività. ed è questo che la musica sa fare, se raggiunge chi la sa ascoltare. E lo fa distribuendo l’informazione di cui è capace su una gran quantità di parametri, fisici (frequenza, intensità, durata, qualità ... del suono), sintattico-grammaticali (unità discorsive, frasi, periodi, sezioni ...), semantici (unità, combinazioni di significati ...), formali ecc. La stessa distribuzione di cui, per la comunicazione verbale, si è incaricata la parola. E allora? dove sta la peculiarità dell’ascolto musicale?

In questo: che, laddove la parola, per significare con chiarezza, si dispone su stringhe lineari, che il cervello percorre linearmente, salvo turbolenze occasionali, la musica –quella cui intendo riferirmi– ha soprattutto una struttura polilineare, la cui percezione richiede una capacità di sintesi sia verticale (nella contemporaneità) che orizzontale (nella successione temporale). Ma, dicendo questo, non abbiamo neppure sfiorato la stratificazione ‘culturale’ della musica che in ogni suo punto si richiama al suo passato e anticipa il suo futuro.

Di qui il privilegio di un ascolto integrato della musica.

lunedì 18 ottobre 2010

SI' alla ricerca di convergenze





Un esempio. Il postino precedente segnala una forte opposizione tra ‘industria bellica’ e ‘industria del mantenimento’. Una convergenza a questo primo stadio è ovviamente impossibile: i soldi disponibili servono a fabbricare cannoni o a restaurare quartieri medievali, i due progetti sono incompatibili, a meno che non si pensi che il miglior restauro sia prenderli a cannonate per ricostruirli ex novo.

Se però notiamo che le due succitate espressioni hanno in comune la parola industria, un primo passo convergente potremmo trovarlo in quest’identità parziale. Industria rimanda a produzione, prodotto; e prodotto a valore commerciale, rapporto tra costo e prezzo. Sarebbe poi sufficiente che i prodotti dell’industria del mantenimento, a parità di costi, fossero più appetiti di bombe e missili, e il problema sarebbe risolto: per una convergenza suggerita da un’identità verbale. Purtroppo però gli umani preferiscono bombe e missili al restauro di un quartiere medievale.





sabato 16 ottobre 2010

SÌ alla riconversione dell’industria bellica in industria del mantenimento


Il conosciuto "Throne of Weapons" de Cristovao Canhavato (Kester) -vedasi il progetto africano Transforming Weapons in Tools (British Museum)- scende per strada colpendo (nel buon senso del termine) i bambini ...


Esiste, è pensabile un’industria del mantenimento?

La locuzione nasce in opposizione a ‘industria bellica’, che ha necessariamente una connotazione distruttiva. E allora, perché non ‘industria costruttiva’? Perché anche questa sembra includere la sua contraria: distruzione di qualcosa che c’era prima, se non altro dell’ambiente preesistente. E di una ‘industria costruttiva’ la terra è piena e non sembra che ci sia bisogno di investirvi altri capitali. Comunque, non intendo affatto pronunciare un NO a questo tipo di industria, come ai tipi collegati: ‘industria dei consumi’, ‘industria dello smaltimento (dei rifiuti)’, ‘industria estrattiva’ ecc.

In che senso il mantenimento dell’esistente può alimentare un’industria? Alcune modalità derivate sono ben note e praticate, ad esempio il turismo che troppo spesso degenera tuttavia in forme distruttive (tipo ‘riviera adriatica’ o ‘impianti di risalita’). Neppure queste modalità vorrei condannare senza appello in quanto hanno aperto alla fruizione collettiva luoghi e attività prima accessibili solo a un’esigua minoranza. Se un NO vorrei qui decisamente pronunciare è contro l’industria bellica, per cui si invoca una radicale trasformazione.

Industria del mantenimento: quanto spesso si sente rimpiangere, anche di fronte a splendide realizzazioni della moderna tecnologia, uno stato di cose precedente? E non è sempre il tedioso laudator temporis acti a far sentire la sua voce, ma anche la persona, per nulla retriva, che sa valutare con pari competenza e il vecchio e il nuovo. Il punto tuttavia è un altro: non l’uno o l’altro, ma uguale sviluppo delle tecnologie per rinnovare e quelle per mantenere, la decisione deve poter contare sulle ‘pari opportunità’. Spesso nei tempi passati una realtà, per esempio urbanistica –penso a certe ville rinascimentali–, è stata sacrificata all’industria edilizia, certo più redditizia nell’immediato di una industria del mantenimento ancora poco sviluppata.

Oggi le cose sono un poco cambiate e si comincia a intravedere come il mantenimento –la conservazione– paga spesso più dell’innovazione. È una questione culturale da non valutarsi tuttavia nell’ottica esclusiva di una sola cultura. Un’analisi metaculturalmente condotta offre migliori garanzie, sempreché la società disponga di un’appropriata industria del mantenimento.

giovedì 14 ottobre 2010

SÌ al confronto pacifico

Un dubbio. L’espressione ‘confronto pacifico’ ha un senso o non è altro che una contraddizione in termini rivestita d’ipocrisia?

Due ippopotami confrontano la loro apertura boccale e sarà questa a decidere se il confronto si risolverà a favore dell’uno o dell’altro. Il confronto è stato pacifico?

Più che pacifico direi che è stato ‘sostitutivo’. Ha sostituito cioè un confronto aggressivo con uno simbolico. Niente di pacifico, il ‘senso’ dell’aggressione resta; l’intelligenza istintiva ha evitato lo spargimento inutile di sangue. Un comportamento del genere è frequente tra i mammiferi. Tra gli insetti ha portato addirittura a differenziare, nell’ambito di una stessa specie, gruppi più o meno omogenei di individui, quasi sottospecie, accomunati da certe caratteristiche che ne favoriscono per esempio l’accoppiamento (cervi volanti). In questi casi è l’evoluzione stessa ad aver risolto il problema evitando gli scontri persi in partenza.

Talora anche gli uomini ricorrono a modalità sostitutive o a deterrenti per non arrivare allo scontro diretto. Parleremo allora di confronto pacifico o non piuttosto di ‘confronto (prudentemente) evitato’?

Quando diremo che un confronto è pacifico? Distinguerei ulteriormente tra confronto pacifico e confronto svolto pacificamente. Ad ambedue riconoscerei il diritto al , con maggior convinzione peraltro per il secondo tipo.

Posto che un confronto possa essere pacifico, la forza attributiva del verbo essere (x è un y) definisce già di per sé una categoria di confronti pacifici che non potrebbero non esserlo. Esempio: il confronto tra due oggetti solo per distinguerne la lunghezza (o il peso o l’odore). In casi del genere il riguarda nient’altro che una costatazione o una misurazione e non vedrei neppure, salvo un’eventuale lesa privacy, la necessità di rafforzare l’operazione con un ideologico.

Nel caso invece di un confronto –per esempio sportivo– in cui il risultato dipende, sì, da una constatazione o misurazione, ma non coincide con essa, la qualificazione di pacifico è essenziale per riconnettere una pratica sociale –uno sport– all’ideologia della pace.

martedì 12 ottobre 2010

SÌ alla pace



Suona quasi come un’ovvietà su cui è vana retorica insistere ...

Ed effettivamente le invocazioni alla pace risuonano in ogni tempo e luogo (anche e soprattutto quando l’aria è piena dei suoni contrari), cosicché la parola stessa suona falsa: un’ovvietà, e per giunta falsa ...

Bisognerebbe realizzarla senza parlarne.

Perché la pace si realizzi debbono essere d’accordo tutti i contendenti. Basta che uno non lo sia, ed ecco fermarsi due schieramenti, l’uno favorevole, l’altro contrario al dissidente, e della pace resta solo la vuota parola.

Eppure oggi la pace non è un optional, ma un imperativo categorico, la cui inosservanza si paga in miliardi di vite umane se non con l’estinzione totale della specie. Non ne abbiamo la certezza, ma il rischio lo conosciamo tutti. E ognuno pensa che alla fine sarà qualcun’altro a pagare e, guarda a caso, proprio noi la scamperemo! Il guaio è che anche gli altri pensano così. Solidarietà intraspecifica!

Per molti, troppi, l’espressione “sì alla pace ...” va integrata con “... alle mie condizioni”. Altrimenti: “sì alla guerra, ma sei tu che l’hai voluta!”

lunedì 11 ottobre 2010

Índice


SÌ a

1 – la pace ,

2 – il confronto pacifico,

3 – la riconversione dell’industria bellica in industria del mantenimento,

4 – la ricerca di convergenze,

5 – la disponibilità all’ascolto,

6 – la disponibilità all’aiuto,

7 – una giustizia ecoequilibratrice, non punitiva,

8 – un limite nell’avere,

9 – il potenziamento illimitato della mente,

10 – lo studio della materia,

11 – lo studio del vivente e delle sue esigenze,

12 – il rispetto della finitezza,

13 – il potere come fattore di regolazione,

14 – l’equilibrio (dinamico, non statico) nei rapporti di forza,

15 – il capitale come ‘strumento per ...’,

16 – l’uguaglianza nella diversità,

17 – la polverizzazione del potere,

18 – l’ideologia della sufficienza,

19 – l’ideologia della parità.

domenica 10 ottobre 2010

Una nuova serie - i postini del SÌ



Una straordinariamente positiva, socievole, collaborativa, addirittura simpatica Holcocephala Fusca, (famiglia degli Asilidi, sottofamiglia delle Trigonomiminae) fotografata da Thomas Shahan

Premessa

Sto tentando di costruire questa serie di postini del simmetricamente a quella dei postini del no per ragioni –tra il logico e l’estetico– di equilibrio tra due atteggiamenti valutativi, a nessuno dei quali dare la prevalenza. Non nascondo però che l’atteggiamento positivo, questi postini del , mi costano, fin dalla compilazione di un indice, molto maggiore fatica dei precedenti. Sono più le cose che non vanno, in questo mondo, di quelle che vanno? O ci colpiscono di più quelle di queste? Oppure ci piace di più dire no che dire ?

Fatto sta che le nostre simpatie vanno piuttosto al dissenso che al consenso, anche se di regola, almeno nelle competizioni elettorali, vince il consenso. Del resto le nostre società sono così fatte da privilegiare comunque il consenso, né saprei come potrebbe essere diversamente. Forse non opponendogli banalmente il dissenso, ma ascoltando le ragioni di ambedue e, quali che siano le conclusioni, non considerarle mai come la ‘vittoria’ dell’una o dell’altra parte, ma solo come una ragionevole convergenza?

mercoledì 6 ottobre 2010

Le difficoltà di dire SÌ a qualcosa


Nel postini di ieri ho parlato di un Fini, il cui errore politico consisterebbe nell’aver “male interpretato” le spinte autonomisti che oggi assediano da ogni parte il ‘mondialismo’ che sia il grande capitale sia i suoi detrattori vedono come unica soluzione al problema della sopravvivenza.

In che senso Fini sarebbe in ‘errore’ nel proporre un ritorno ai nazionalismi e, soprattutto, esiste una terza via che non veda nel futuro un ritorno prurificato al passato, ma neppure si culli nel sogno di un welfare capitalistico finanziato dalla fame nel mondo?

Sarebbe bello saper rispondere così, su due piedi, a quesiti di questa portata. Al solito, è abbastanza facile dire NO a Fini e a Berlusconi così come altri dicono NO a Bersani, a Di Pietro o a chi volete voi. Le difficoltà cominciando quando si vuole dire SÌ a qualcosa. Il NO regge per generazioni, il sì si logora ai primi ostacoli e affonda in genere in breve tempo, a meno che non indossi una camicia di assolutismo, nero o rosso o bruno che sia. È possibile una stabilità democratica? Gli Stati Uniti sembrerebbero dare una risposta positiva, ma a costi non per tutti tollerabili; enormi dislivelli sociali, razzismo, bigottismo religioso e politico, prepotenza internazionale e così via. Eppure gli Stati Uniti restano tuttora un modello di cui tener conto, quello sovietico essendosi autodistrutto prima del tempo senza lasciare eredi, a meno di non voler considerare tale la Cina, che oggi dovrebbe cominciare ad aver paura di sé stessa e del suo esplosivo sviluppo.

Un modello gli Stati Uniti?
E quale altro sennò?
Forse l’India di cui so poco e niente?
O l’Unione Europea, troppo collusa con il capitale americano?

Credo che il modello di cui abbiamo bisogno tocca costruircelo da noi, ma non ragionando, o meglio non ragionando unicamente al livello dei politici di professione, ma ascoltando ciò che hanno da dire coloro che con la politica di vertice non hanno mai avuto a che fare, dal contadino all’operaio, dallo studente al rocchettaro, dall’imprenditrici alla casalinga, all’insegnante elementare. Come arrivare a un dialogo politico generalizzato, a una democrazia partecipativa?
Anzitutto non demonizzando la politica come nei film americani, ma praticandola fin dai banchi di scuola. Poi studiando dei modelli comunicazionali allargati nell’era di internet e dei blog non dovrebbe essere così impossibile!

martedì 5 ottobre 2010

Differenziazione culturale mancata



Molto bene costruito, il discorso di Fini, ben argomentato, ben esposto. Il discorso di un politico di destra, non imbonitore e palesemente falso come quelli di Berlusconi e neppure abborracciato e populista ai limiti dell’analfabetismo, come quelli di Bossi, ma pur sempre bassamente nazionalista e patriottico. Sembra impossibile che una persona intelligente, sorvegliata, credo anche onesta e convinta di ciò che dice, quale Fini si è da sempre mostrato ai suoi elettori, sia restato ancorato a posizioni ideologiche decisamente indifendibili e fuori tempo. Non voglio usare per lui la qualifica politica di ‘fascista’, troppe sono le volte in cui Fini ha preso pubblicamente la distanza da quel regime, il cui principale difetto è stato quello di essere, appunto, un regime in un tempo che ragionava ormai in termini di democrazia. Credo anche nella sincera democraticità di Fini, ma questo non lo assolve ai miei occhi dall’esserlo in una forma ancora una volta fuori tempo. Essere nazionalisti, patriottici, seppure entro un orizzonte democratico, vuol dire, a mio parere, aver male interpretato un’esigenza, oggi ovunque avvertibile, di differenziazione, di policentricità culturale da opporre alla monocultura imposta dal modello unico del capitalismo concorrenziale di stampo americano.

lunedì 4 ottobre 2010

Un oggetto storico ...



... (un'opera del passato) è fruibile come attuale se la sua fruizione è regolata da reticoli soddisfacenti le condizioni d'uso del pensiero emergente nella attualità.

Musica-Società, 11, 1975

domenica 3 ottobre 2010

Ancora qualche riflessione su Arterie


Particolarmente notevole nello svolgimento delle quattro giornate è stata, a quanto in molti mi hanno riferito, l’atmosfera di gioiosa serenità che ha accompagnato tutte le prestazioni. Nessuna competitività, nessun desiderio di primeggiare, ma soprattutto nessun interesse economico in gioco: l’immagine di un mondo inesistente ma possibile, la dimostrazione che anche in una società impostata sul guadagno c’è chi lo propone ad altri interessi, altre gratificazioni. Secondo gli studiosi delle interrelazioni umane, il fattore economico sarebbe dominante e avrebbe nella produzione materiale il suo motore. Sappiamo però da sempre (e Arterie non fa che confermarlo) che, anche in tempi di recessione -e forse soprattutto in questi-, l’umana volontà di essere e di manifestarsi trova altri canali di attuazione che non siano il guadagno, la crescita economica. Oggi non c’è forza politica che non punti alla crescita, quasi che senza di essa non sia possibile la sopravvivenza; quando piuttosto è molto probabile il contrario, che, su un pianeta piccolo e delle risorse per forza di cose limitate, una crescita illimitata della popolazione, dei suoi bisogni e dei consumi porti alla rapida estinzione della specie responsabile di questo ‘errore’. “Chi si ferma è perduto” si diceva un tempo, e possiamo anche dirci d’accordo, ma oggi ‘fermarsi’ vuol dire conservare e seguire il modello della crescita infinita, modello inadatto alla sopravvivenza.

Non chiedetemi quale sia il modello giusto. Non lo so. So solo che dobbiamo costruirlo. Qualche suggerimento lo troviamo sparso per il mondo, anche qui, a casa nostra.

sabato 2 ottobre 2010

Una linea



Forse ho esagerato col postino della volta scorsa. Per farmi perdonare (prima di proseguire per quella strada) vi voglio raccontare una storia, o meglio una ‘parabola’ in due tappe, che, a essere sinceri, non ho ben capito neppure io.

Una linea

Il pennarello scorreva come a caso sul foglio. La sua traccia era irregolare, ora più spessa, ora più sottile; ora diritta, ora curva, ora angolata; a tratti incerta, tremolante, quasi svanita, poi di nuovo decisa, imperiosa, sicura di sé; la direzione: variabile a capriccio, come se a tracciarla fosse stata una formica trasportata lontana dal suo nido; frequenti anche le interruzioni di cui però non si poteva mai essere certi che non fossero la fine; così come non si poteva essere certi di quale fosse il principio o un’occasionale ripresa; una linea senza inizio né fine, o meglio in cui inizio o fine potevano essere in un qualsiasi suo punto, anche coincidente (“ma fin est mon commencement”); se poi ci si fosse interrogati sul ‘perché’ di quella linea, sul ‘perché’ del suo stare al mondo, le risposte sarebbero state infinite o nessuna.

– – – – – – –

Da vari anni e il grande foglio con quella linea si trova nella Galleria Guggenheim di New York, dove ogni visitatore ha il diritto di continuarla a suo piacere. Non tutti fanno uso di questo diritto, mentre alcuni si fermano a lavorare per ore. La linea ha occupato ormai ogni minimo spazio libero, così che la superficie del foglio appare uniformemente nera. Ma la linea continua …

venerdì 1 ottobre 2010

Definizione 1 di IMC


Ed eccoci di nuovo a IMC, all’Ipotesi Metaculturale. Ma ora, per rispetto verso coloro che non la conoscono, mi tocca ripetere una delle definizioni (perché, come vedremo in seguito, ve ne sono più di una). Scelgo quella più utilizzata, anche se meno precisa:

Definizione 1.

Ogni nostro atto o pensiero, se non altro in quanto possibile oggetto di comunicazione, ha in sé una componente culturale che va relativizzata alla cultura che l’ha prodotta.

Questo che vuol dire?

Che qualsiasi cosa diciamo, facciamo o pensiamo a che fare con una qualche cultura, cioè con un accordo sociale, valido all’interno di quella cultura ma non sappiamo se anche altrove. Quindi non vi sono valori assoluti, validi in tutte le culture?

Sia che rispondiamo sì o che rispondiamo di no, la nostra risposta suona come assoluta. Come mai?

Semplicemente perché l’abbiamo inserita in un sistema logico binario, a due sole uscite, o sì o no. Basta che l’inseriamo in un sistema a più uscite –‘forse’, ‘chissà’, ‘dipende’ …– che l’assoluto scompare. Alcuni saranno contenti di questa sparizione, altri no. Per evitare che si arrivi allo scontro tra i e i no, occorrerebbe un sistema che rassegnasse a ciascuno dei due termini un ambito di validità entro il quale essa possa considerarsi assoluta.

In altre parole un sistema del genere permetterebbe gli assoluti, purché localizzabili nell’Universo degli Universi Culturali Locali.

Ma noi lo conosciamo un universo del genere, o per lo meno sappiamo come costruirlo: per mezzo di IMC! Facendo cioè l’ipotesi di un universo che non si identifichi con nessuno degli UCL (Universi Culturali Locali) ma tutti li comprenda entro un ‘superuniverso’ che abbiamo chiamato UMC (Universo Metaculturale).

Dovrebbe essere chiaro che a nessuno degli UCL e nemmeno a UMC va attribuita un’esistenza reale, né ipotetica, ma solo metodologica, avente come fine la costruzione della pace.