domenica 30 dicembre 2012

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (iv)


[504]
“Ma non è dell’opposizione razionale/irrazionale che vogliamo occuparci e neppure della liceità di un pensiero autocontraddittorio. Il nostro proposito è piuttosto quello di chiarirci sul significato del termine ‘politico’ che riteniamo essere troppo spesso usato, se non a sproposito, certo con dei significati secondi, terzi… che poco hanno a che fare con quello ci piacerebbe fosse il primo…”
“E quale sarebbe?”
“ ‘Politico’, cioè attinente alla polis, alla comunità dei cittadini, in breve alla collettività, la cui ampiezza non è valutabile se non in relazione al territorio considerato. Orbene, ai tempi dell’antica Grecia questo territorio di rado eccedeva le dimensioni di quella che oggi si direbbe una provincia o una regione e quando ciò accadeva, era amministrato per un tempo limitato o in forma alquanto dissimile da una odierna comunità nazionale. Quando poi sia le dimensioni che i modi di governo di avvicinavano a quelli dell’impero romano, anche il significato di ‘politico’ si avvicinò al nostro odierno: voglio dire che il suo asse portante cessò di essere l’interesse della comunità per ridursi a quello dei gruppi di potere, talora a quello di un singolo autocrate, quale che fosse il titolo pubblico che lo giustificava. Da allora cominciò a essere considerato un ‘buon politico’ chi riusciva a far coincidere gli interessi suoi privati con quelli pubblici dei suoi amministrati, e da ultimo, quando, scomparsi gli altri, restò soltanto il suo interesse privato, questo finì per coincidere con il ‘potere assoluto’.
Oggi il discorso politico si mantiene perlopiù entro i limiti concessi dalla democrazia, sebbene questi siano alquanto incerti e pieni di falle. Inoltre la politica è ancora troppo intrisa di ideologia del potere per presentarsi come una forza libera e affidabile. Esiste, può esistere una politica siffatta?”

sabato 29 dicembre 2012

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (iii)


Illustrazione di Ben Wiseman; Fonte: Brendan Hoffman / Bloomberg News-Corbis
[503]

“Fammi capire: il potere da un lato segnerebbe il top dell’appetibilità, dall’altro lo definisci un’illusione, un’inafferrabile chimera. Scusami, ma ci vedrei o una contraddizione o un sintomo di regresso mentale…”
“Né l’una né l’altro. E’ piuttosto la contraddizione che sta acquistando diritto di cittadinanza nel pensiero…”
“E questo mi preoccupa non poco. Se lasciamo campo libero alla contraddizione, uccidiamo il pensiero, almeno così come lo conosciamo.”
“Non voglio né posso negarlo. Potrebbe però darsi che da questa morte nasca un nuovo pensiero, capace di risolvere alcuni almeno dei problemi irrisolvibili con il vecchio. Del resto neppure il pensiero autocontraddittorio mi risulta essere unanimità assoluta nella storia del pensiero.”
“Anzi, probabilmente ha un diritto di anzianità nei confronti del pensiero razionale, con il quale in fondo non c’è mai stata vera rivalità bensì frequente collisione.”
“Come vedi, non c’è di che preoccuparsi, il pensiero se la cava sempre.”

venerdì 28 dicembre 2012

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (ii)



 

[502]
“Ma il potere non ce l’abbiamo tutti, anzi sono in pochi ad avercelo. E per un potere che non è neppure nostro dovremmo rinunciare alla ‘verità’, alla ‘conoscenza’?”
“Dici bene, però nei fatti accade proprio questo.”
“Forse non abbiamo tutti il potere, ma la speranza, sì, quella non ce la toglie nessuno.”
“E che c’è nel potere che basti sperarlo per farci rinunciare a verità e conoscenza?”
“Chi ha il potere, verità e conoscenza se le fabbrica da solo.”
“Quindi, secondo te, il potere tende all’assoluto –eritis sicut deus– laddove le altre due accettano di essere relative.”
“Sì, per diventare assolute devono associarsi al potere…”
“… che di conseguenza vince su tutti…”
“… e resta il più appetibile.”

giovedì 27 dicembre 2012

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (i)


[501]
[Contrariamente a quanto dichiarato nei due postini precedenti, eccomi a continuare, presumibilmente di un altro centinaio di numeri, questa serie da cui non riesco a staccarmi.]


Anche se è ovvio che sia così, ripeto: ciò che sto per dire sono soltanto opinioni mie personali senza alcuna pretesa di più ampia validità. Penso peraltro che una loro condivisione gioverebbe a migliorare la nostra breve sosta sul pianeta che ci ospita, ma penso che anche questa sia solo un’opinione. Basta preamboli! Di che opinioni si tratta?
Si sente spesso dire, con una certa superficialità, che ‘tutto è politica’, con ciò intendendo che il nostro dire e fare, se e in quanto entra in rapporto, costruisce anzi un rapporto con l’altro da sé, può considerarsi un atto politico, per lo meno un atto provvisto di una componente politica più o meno riconosciuta e dichiarata da chi lo compie. Ecco, la mia opinione è che, anche quando crediamo di riconoscerla e la dichiariamo, questa componente è molto raramente quella riconosciuta e dichiarata.
“Vuoi dire che siamo incoscienti o imbroglioni?”
“Non necessariamente. Forse siamo noi stessi a essere ingannati.”
“E da chi?”
“Dalla nostra cultura, dalle nostre convinzioni, da ciò che ci hanno insegnato o in cui vogliamo credere.”
“E perché ci avrebbero ingannato, ma soprattutto perché ci saremmo fatti ingannare?”
“Per ciò che ci viene dato in cambio.
“E cosa ci viene dato in cambio?”
“Il potere, o meglio l’illusione del potere.”
“Perché la chiami illusione?”
Perché non facciamo in tempo a provarla che già la morte o la vita stessa ce la tolgono."

mercoledì 26 dicembre 2012

Musica e morale nell’opera di Thomas Mann


[499] 
Da qualche tempo sono venuto fortuitamente a contatto con un me stesso di più di mezzo secolo fa. Un giovane, Dario Peluso, valente –come ho potuto constatare– studioso di Thomas Mann mi è stato indirizzato dai suoi docenti di teoria della letteratura  per un mio articolo del 1958: Musica e morale nell’opera di Thomas Mann (credo che il titolo fosse questo). L’articolo l’avevo a suo tempo tratto dalla mia tesi di laurea, discussa l’anno prima all’università di Roma. Nei decenni seguenti persi ogni traccia sia dell’articolo che della tesi. Una ventina di anni or sono, un operatore, oggi presidente, del Centro Metaculturale, trovò su uno scaffale della facoltà di lettere una copia della tesi, che ritenevo perduta. Pochi anni dopo anche quell’unica copia scomparve, questa volta definitivamente… fino a due giorni fa, quando vedo sul mio Blog, curato dall’amico Fernando Sanchez (io non mi intendo né di Blog né di computer), l’articolo in questione, cioè il capitolo centrale della tesi. Mi è venuta allora l’idea di chiudere questo che sarà probabilmente il mio ultimo scritto con un richiamo al primo, che oltretutto è dedicato all’Autore mio compagno di lettura di una vita intera.

Nota della Redazione: la tesi di Boris è stata ricuperata negli archivi del prof. Bonaventura Tecchi, relatore della medesima. Intendiamo pubblicarla nel 2013.

martedì 25 dicembre 2012

Le connessioni


[498]
Nel corpo le varie parti che lo costituiscono sono abbastanza ben distinte per posizione, forma e funzione, al punto che sappiamo nominarle separatamente: gambe, braccia, occhi, orecchi, ma anche fegato, reni ecc. Più difficile comprenderne le connessioni, le interdipendenze, le funzioni in rapporto a un tutto che chiamiamo ‘individuo’ e che a sua volta non è che parte di un altro tutto: zoologicamente la specie animale, politicamente la società umana. Sappiamo bene che le parole non designano univocamente degli oggetti, ma disegnano più o meno arbitrariamente delle frontiere, così ‘creando’ appunto gli oggetti. Noi però li prendiamo per buoni e  li iscriviamo in un universo che chiamiamo ‘realtà’. Questo semplifica enormemente la cosa, però talvolta ne ostacola una comprensione più approfondita. Così la medicina distingue accuratamente i componenti dell’universo corpo, ma le sfuggono spesso appunto le connessioni. 

Più grave quando sfuggono le connessioni a un livello superiore, quando cioè non ci accorgiamo o non vogliamo accorgerci di ciò che un nostro intervento produce a un tutto che non siamo noi come individui, ma noi come società, come specie zoologica. Ogni volta che frazioniamo un ‘tutto’, è bene che non perdiamo di vista la sua unità primaria, a cui conviene che facciamo ritorno quando le parti tendono a sgretolarsi.

lunedì 24 dicembre 2012

La fiaba della politica (e iii)


[497]
A questo punto le cellule –siamo ritornati a loro–, anziché continuare nella rivalità su chi dovesse dominare e chi sottomettersi, inventarono le associazioni di cellule, sotto forma di organi appartenenti a unità di livello superiore, che tuttavia lo erano –erano cioè superiori– in un senso radicalmente diverso da quelli oggi in uso tra gli uomini, per i quali il concetto è legato a un’arbitraria graduatoria di ‘importanza’; a sua volta connessa con un differenziato trattamento economico. Così una condizione troppo favorevole alla crescita di un organo ne produce l’ipertrofia, come credo stia capitando al cervello di Homo sapiens, che oggi, attraverso la cultura, sta mettendo in forse la sua stessa sopravvivenza. Ma, mentre a livello di cellula, tessuto, organo, l’ipertrofia è tenuta a bada da un opportuno feedback organico, l’emancipazione della mente dalla corporeità fa si che questo non accade o accade troppo poco per le prestazioni immateriali del cervello. Il pericolo è reale e imminente. Come chiudere la nostra ‘fiaba politica’ della politica?

Prendendo esempio dalla nostra corporeità e inventando un feedback che tenga a freno l’emancipazione della nostra mente.


domenica 23 dicembre 2012

La fiaba della politica (ii)


[496]
[Torniamo alle cellule] 

Per un’altra stranezza, le cellule che dipendevano dal lavoro delle altre venivano considerate dominanti, mentre quelle che di fatto lo erano passarono in sudditanza. Perché il loro ruolo fosse così chiaramente separato da quello delle cellule lavoratrici le dominanti si raccolsero tutte in un solo organo, il cervello, che divenne così il supremo regolatore della vita. In lui si concentrò tutto il potere decisionale dell’individuo. [Stiamo nuovamente parlando di persone] La azione concrete venivano ora prefigurate da azioni solo mentali che facevano risparmiare grandi quantità di tempo ed energia sulle cellule lavoratrici e, per loro tramite, agli individui portatori. E così il ‘potere’ di questa centrale cellulare crebbe a dismisura, come del resto stava facendo il potere della politica nelle comunità umane. Anche queste di differenziavano in forme in qualche modo affine agli individui –tribù, nazioni, stati–, mentre i rapporti tra loro si sviluppavano secondo modalità analoghe, solo di ben altre dimensioni. Una lite, un diverbio tra individui, era ormai una guerra tra tribù, nazioni, stati con migliaia, milioni di morti, intere civiltà distrutte…

[continua al prossimo postino]

sabato 22 dicembre 2012

La fiaba della politica (i)


[495]
La politica nasce dalla biologia nel momento in cui una manciata di cellule decide di mettersi insieme e di condurre vita propria. Ma sono loro ad averlo deciso o una qualche attrazione fisica le ha spinte a unirsi? Fa qualche differenza? Non sappiamo. Sia come sia, a un certo punto si sono trovate assieme, e si saranno domandate se lo stare assieme implica che tutte facciano la stessa cosa. E devono essersi accorte che questo eccesso di ridondanza non giovava a nessuno. Nacque così la divisione del lavoro. A priori un lavoro valeva l’altro e non c’era ragione di litigare. Poi però si vide che conveniva non solo dividersi il lavoro, ma anche differenziarlo, cosicché alcune cellule si trovarono a compiere un lavoro più gravoso di altre. Penserete che le abbiano compensate con qualche beneficio extra. Al contrario, il loro lavoro cominciò a essere sottopagato. Col tempo infatti era invalso l’uso di compensare il lavoro con beni materiali che migliorassero la vita di quelli che lavoravano –non tutti infatti lo facevano e alcuni trovavano più comodo vivere sulle spalle altrui. Stranamente, questi ultimi erano anche i più rispettati e la gente (vi sarete accorti che non stiamo più parlando di cellule, ma di persone) sembrava contenta di mantenerli col proprio lavoro…

[continua al prossimo postino]

venerdì 21 dicembre 2012

Questione politica?



[494]
Il funzionamento del cervello tutto è meno che lineare. È la linearità del linguaggio verbale che ce lo fa apparire tale quando proviamo a descriverlo. Adottando il modello dell’attività visiva, immagino che si disponga per così dire su più piani: come comprendiamo con un solo sguardo non solo gli oggetti a distanza focale, ma anche, seppure indistinti, quelli posti su vari piani vicini e lontani, così la mente, nel concentrarsi sul pensiero che momentaneamente la occupa, non abbandona l’universo delle esperienze inscritte nella sua memoria, dal quale trasceglie quelle da utilizzare come sfondo del pensiero presente. Nel caso della mente il processo è certamente assai più complesso, perché, laddove lo sfondo di un’immagine visiva è dato, quello di un pensiero è costruito. Ma da chi? È come se le menti fossero almeno due: l’una per immagazzinare i dati con cui costruire gli sfondi, l’altra per costruirli effettivamente, forse una terza per accogliere – o formulare i pensieri cui quei dati fanno da sfondo…

Il paragone col computer è insufficiente perché dietro al computer c’è una mente che lo manovra e dietro questa una società che la condiziona. Che il funzionamento del cervello sia questione politica?

mercoledì 19 dicembre 2012

E che ne facciamo della libertà?


[493]
Se anche decidiamo quindi, come la maggioranza di noi ha già fatto, per la competizione, diamole delle regole fisse e un tribunale internazionale con pieni poteri repressivi per garantirne l’applicazione: di fatto, una dittatura del potere giudiziario. E che ne facciamo della libertà?

Per parte mia non me ne preoccupo troppo perché, per quanto sia anch’io affascinato dalla parola, me ne sfugge il concetto. Non è tanto alla perdita di una libertà, invero più gridata che convinta, cui intendo riferirmi, quanto al modello di sviluppo al quale affidare il nostro futuro, sempreché la cosa ci interessi. Il modello concorrenziale adottato dalla specie umana e, con forti limitazioni, anche da molte altre, si basa essenzialmente sull’eliminazione del concorrente, ma per simmetria, altrettanto sull’eliminazione nostra. Non vedo comunque una ragione che in questo gioco debba favorire la nostra specie rispetto ad altre. Oggi vediamo, è vero, l’estinguersi di un gran numero di specie animali e vegetali –il più delle volte ad opera dell’uomo– mentre la specie nostra cresce a dismisura, ma le sue probabilità di sopravvivenza, secondo attendibili studi, sono in sensibile calo. E non solo per i guasti ecologici da noi prodotti, ma anche per la meccanica interna del modello concorrenziale, sempre meno garantito nei confronti di un finale catastrofico.

martedì 18 dicembre 2012

Competizione o collaborazione?


[492]

Se questa domanda mi fosse stata posta fino a ieri, la mia risposta sarebbe stata senza esitazione: collaborazione. Oggi la risposta resta la stessa con in più un’esitazione. Dovuta a che?

Da un lato c’è l’autorità di Darwin che, anche a voler disconoscere il principio di autorità, un certo peso ce l’ha, e non indifferente. C’è poi il peso della società industrializzata; quasi unanime nella sua scelta per la competizione. E, ancora, l’ideologia del ‘progresso’, del ‘sempre di più’, della ‘crescita illimitata’, l’istinto –se vogliamo chiamarlo così- del dominio, della sopraffazione.

Dall’altro lato c’è poco più che l’ideologia della fratellanza universale con sporadiche emergenze di vantaggi locali; vien fatto di pensare a un’associazione di beneficienza. Ma allora perché esito ancora ad allinearmi decisamente con i fautori della competizione?

Proprio perché riconosco le ragioni vincenti della competizione e ne temo le conseguenze su di un pianeta piccolo come il nostro e una specie aggressiva come la nostra.

venerdì 14 dicembre 2012

Una garanzia indiscutibile


[491]
La sovrabbondanza di una cosa ci rende insensibili ad essa. Nello stesso tempo però ce la rende indispensabile. Viviamo in un mondo virtuale di immagini di cui non possiamo fare a meno, ma che ottundono in noi il senso della realtà, al punto che ci è più facile dubitare di questa che dell’immagine. 
“L’ho visto alla TV”: una garanzia indiscutibile, anche perché nessuno oserebbe discuterla. La scuola non ci ha abituato a farlo così come non ci ha abituato a indagare sulle verità che essa trasmette e neppure sul concetto stesso di verità. Nelle classi superiori permette forse che qualche dubbio si insinui, ma quando ormai è tardi e la mente ha introiettato l’assolutezza di quel concetto e finisce per fare anche del dubbio un dogma paralizzante qualsiasi iniziativa umana. L’azione più devastante del relativismo ‘assoluto’ è proprio questa: l’essersi identificato con l’ASSOLUTO tout-court, svuotando di senso ogni proposizione e riducendo a insulso gossip ogni tentativo di comunicazione tra umani. Non so se e quanto IMC sia in grado di aggirare questo ostacolo, so solo che ci sta provando: il risultato dipende esclusivamente dall’assenso che il pensiero collettivo vorrà concederle.

giovedì 13 dicembre 2012

Lo stesso quadro


[490]
Lo stesso quadro del postino precedente, ma dietro ogni bambino seduto intorno al grande tavolo c’è una fila interminabile di altri bambini, e non solo bambini: anche adulti, giovani che sembrano vecchi, i vecchi però sono morti anzi tempo, di malnutrizione, di AIDS, di una raffica sparata da un bambino di sì e no dieci anni.

Di immagini di guerra ne vediamo ogni giorno, nei documentari, nelle fiction, anzi non distinguiamo nemmeno più tra un reportage e un’accurata, tecnicamente pregevole ricostruzione, né c’importa granché distinguere. Anzi, quel bambino di cui al postino precedente tutto sommato ci colpisce di più che non la notizia di una nuova guerra scoppiata in qualche parte dell’Africa o dell’Asia. È sempre l’immagine ad avere la prevalenza sul fatto. E ancora: è il caso singolo più che non la tragedia collettiva a coinvolgerci emotivamente: in quello riusciamo a immedesimarci, questa resta tutt’al più ‘notizia’, e le notizie scorrono su di noi come l’acqua su di una superficie in pendenza.

È questa la sensibilità che dovrebbe salvarci dall’autoestinzione?

mercoledì 12 dicembre 2012

Proprio di fronte...


[489]

Immagino una tavolata molto grande e tutt’intorno bambini di ogni razza e colore intenti a mangiare allegramente e con gusto, ciascuno i suoi cibi preferiti, sicuri che ve ne saranno anche per il giorno dopo e per quello dopo ancora: ridono, scherzano, la vita è lì, davanti a loro, non c’è che da afferrarla con la forza della propria età, certi dell’oggi come del domani.

Ma chi è quel bambino accasciato per terra, in disparte, dai grandi occhi privi di sguardo e di sorriso, senza più la forza neppure di desiderare il cibo perché non si ricorda come si fa a mangiarlo? Voi lo guardate, perché siete presenti e quel bambino vi sta proprio di fronte…

… ma come può, il mondo, restare insensibile e col ciglio asciutto, come può non correre da lui a salvargli la vita con una briciola dell’abbondanza che lo circonda?...

Ma è solo il quadro della TV e le immagini che vi scorrono su hanno il solo scopo di spremerti qualche centesimo ad asciugare così il tuo umido ciglio. Quel bambino morirà e con lui milioni di altri, ma tu potrai dormire tranquillo di aver fatto quanto in tuo potere…