martedì 31 gennaio 2012

Un colpo di fortuna


Claviger testaceus (Preyssler, 1790) fotografato da Josef Dvořák
[340]
Era l’estate del 1943. Su tutti i fronti si muore a migliaia, a centinaia di migliaia, intere città scompaiono sotto i bombardamenti. La mattanza durerà ancora un paio di anni, facendo dell’Europa un immenso cimitero che seppellirà alla fine un’intera generazione di giovani poco più grandi di me. Avevo sedici anni e conoscevo già, per averli visti, gli effetti di un bombardamento a tappeto, ma gli effetti di un’educazione borghese, ideologicamente protetta, riuscivano a chiudermi gli occhi, quasi che questo che ci capitava intorno non fosse affare nostro.

È così restavo trascorrendo i miei giorni in una modesta villeggiatura a Montepiano, in Toscana – niente Cortina d’Ampezzo e tantomeno Amburgo come negli anni precedenti. Dopo i primi giorni, un poco deludenti, scoprii chiede anche Montepiano offriva a un’incipiente coleotteraro, quale ero allora, tanto da soddisfare la mia voracità di specie nuove. Ne avevo catturato già un buon numero –tra cui alcuni Pselafidi, Colidiidi mai visti prima– quando capitò il colpo di fortuna (io almeno lo considerai tale) che ancora oggi mi sta scolpito nella memoria, anche per le circostanze che lo accompagnarono.

Mi ero allontanato alquanto dal paese e gironzolava per i boschi di querce che circondano Montepiano di, sempre in cerca dei miei amati coleotteri. Ad un tratto sento distintamente una voce maschile chiamare da un vicino casolare: “Dario! Dario!” Mi soffermo un momento a riflettere: “No, non mi chiamo Dario”, quindi riprendo a salire sull’altura che avevo appena affrontato. Dopo circa una mezz’ora raggiungo un piccolo pianoro, sul quale vedo giacere un grosso sasso alquanto allettante per la sua piattezza (sotto questo tipo di sassi si trova in genere una ricca fauna di coleotterini). Con un certo sforzo riesco a rigirarlo e –o delusione!– tutto nereggia di formiche. Avevo scoperchiato un nido di questi insetti. Stavo per rimettere la pietra al suo posto quando, guardando meglio, scorgo, tra la confusione delle formiche, alcuni insettini che nonostante il loro aspetto aberrante, riconosco come coleotteri. Credo di aver gridato: “Clavigeridi”, poi di aver dato mano alle pinzette, riuscendo a impadronirmi di un certo numero di loro.

[I Clavigeridi sono una famiglia di coleotteri, affini agli Pselafidi, lunghi un paio di millimetri, mirmecofili, cioè coabitanti con le formiche, che li nutrono e proteggono in cambio di una sostanza zuccherosa secreta da apposite ghiandole. La mirmecofilia ha prodotto, nel corso dell’evoluzione, degli adattamenti che fanno dei Clavigeridi dei coleotteri molto particolari: senza occhi, con apparato boccale rudimentale, antenne di soli sei articoli, ali mancanti ecc.]

Stavo ritornando trionfante al paese, quando ecco pararmisi davanti tre militari col mitra puntato: “Alt, tre passi di distanza! Cos’hai in quella boccetta?” Fui colto dal terrore di dover votare sull’asfalto della strada il suo prezioso contenuto. Cercai di spiegare, quelli però, sempre col mitra puntato, a tre passi di distanza, mi accompagnarono in caserma, dove fui raggiunto da mio padre di chiarire ogni cosa. Quattro di quei Clavigeridi ornano ancor oggi, ignorati da tutti, la mia collezione. Che cosa era successo? Gli abitanti di quel casolare da cui avevo sentito chiamare “Dario! Dario!” mi avevano preso per un paracadutista inglese intento a minare un traliccio dell’alta tensione, e, visto che non rispondevano, avevano pensato bene di avvisare il locale comando. Io frattanto mi ero allontanato per le montagne e solo al mio ritorno, un paio di ore più tardi, era stato raggiunto dalla pattuglia. La guerra, oltreché uccidere, rende anche sospettosi.

lunedì 30 gennaio 2012

Pluralità di immagini


Nudo che scende la scala, di Marcel Duchamp (1912)
[339]
L’operazione che il nostro cervello solitamente compie –complice la parola– è la riduzione di una pluralità di immagini all’immagine unitaria di una cosa. Ed è la stessa mente che sa anche scomporre questa immagine unitaria in una pluralità di immagini che interpreta l’occasione come ‘componenti’. Anche queste componenti ricevono una loro individualità come cose, solo se c’è una parola che l’esprime. Altrimenti si fondono e confondono in uno sfondo indistinto che neppure ha un nome o, se c’è l’ha, non è localizzabile, per esempio ‘paesaggio’. Difficilmente diremmo che il paesaggio è una cosa, semmai che è un ‘contenitore’ imprecisato di cose imprecisate.




Non sappiamo come si comporti il cervello degli animali. Di un cane supponiamo che interpreti i dati fornitigli dai suoi sensi suppergiù come facciamo noi, ma già per una talpa resteremmo dubbiosi. Di come vede il mondo una mosca non abbiamo la minima idea. Sappiamo che i suoi occhi sono immobili, ma che la pluralità di immagine che i nostri ci mostrano in rapida successione, grazie alla loro mobilità, nella mosca –e negli altri artropodi– è resa nella contemporaneità dalla pluralità degli omatidi nei loro occhi composti. Se e fino a che punto il cervello degli artropodi è in grado di sintetizzare queste ‘componenti’ in una visione unitaria dell’oggetto non sappiamo. E poi che cos’è per loro un oggetto? Gli serve distinguere una sedia da chi ci sta seduto sopra, un’automobile dai suoi abitanti o anche solo dal volante? Perfino un gatto o un cane non riconoscono un loro simile in fotografia perché non ne percepiscono l’odore, che sappiamo che cosa è per loro un individuo, un essere umano, un animale. Conosciamo il ‘sapere’ di un altro dalle sue reazioni, cioè dalla successione di immagini che ci invia nel tempo. Da un bambino che alla nostra domanda ‘quanto fa 2 + 2’ risponde ‘4’ inferiamo che abbia qualche conoscenza di aritmetica, mentre potrebbe avere solo quella o anche nessuna, se per esempio non facesse che ripetere il suggerimento di un computer. Composizione e scomposizione di qualcosa che riconsidera un ‘oggetto’, così come l’acquisizione di un ‘concetto’, di un ‘sapere’ sono probabilmente prestazioni cerebrali largamente diffuse tra i viventi; come avvengano, se similmente per tutti o come risposte altamente differenziate a stimoli analoghi dell’ambiente non saprei dire.

domenica 29 gennaio 2012

Diversità

[338]
Molte persone provano avversione, addirittura schifo, anche per i coleotteri più belli sia nei colori che nella forma. Ho conosciuto alcuni non sopportavano la vista neppure della splendida Morpho (un genere di farfalle) brasiliane, di un irreale azzurro iridescente. Richiesti se non vedessero anche loro lo splendore di questi insetti, mi hanno risposto che sì, lo vedevano, ma il solo fatto che avessero un corpo e delle zampe era sufficiente per renderli repellenti ai loro occhi. Da giovane ciò mi bastava per cancellare queste persone dalla lista delle persone da frequentare. Più tardi proprio l’esperienza con i ditteri, descritta nel postino precedente, mi ha reso un poco più comprensivo per chi non solo pensa ma ‘sente’ anche diversamente da me.

Spesso pensiamo, ingenuamente, che le cose siano in un certo modo e che ci sia un solo modo di riconoscerle per quello che sono. È bene che ci disabituiamo a questa visione ideologica del loro essere e che ci abituiamo a vedervi una compossibilità non solo di immagini diverse ma di modi di essere effettivamente diversi.

sabato 28 gennaio 2012

Antipatia

[339]
Non ho simpatia per i ditteri, mosche soprattutto, per cui provo anzi, del tutto immotivata, un’avversione che sconfina nella paura. Normalmente dico a me stesso e agli altri che avversione e paura dipendono da scarsa conoscenza e vengono superate dalla dimestichezza con ciò che ci terrorizza. Proprio le mosche mi hanno convinto dell’irrazionalità di certe reazioni: ho studiato i ditteri, li ho osservati, posso dire di conoscerli abbastanza bene, soprattutto i più comuni, eppure ho difficoltà ad addormentarmi se c’è una Calliphora in stanza, pur sapendo che al buio non volano.


Vi sono poi alcuni ditteri che addirittura mi terrorizzano, come l’Asilus crabroniformis e la Laphria gibbosa, grosse mosche predatrici, del tutto innocue per l’uomo, alle quali non riesco neppure ad avvicinarmi. Qualche anno fa, in Slovenia, ho avvistato appunto una Laphria appostata su una trave. Mi sono subito allontanato, inseguito da un’orda di tafani che ce l’avevano con me. A circa venti-trenta metri di distanza ho visto la Laphria staccarsi dal suo appoggio e un attimo dopo ho avvertito il suo minaccioso ronzio tra i capelli, quindi l’ho vista allontanarsi con un grosso tafano trafitto dal suo rostro. La notte ho sognato di essere assalito, non da un tafano, ma da un’enorme Laphria.

Pratica del russamento di base

venerdì 27 gennaio 2012

L'insidiosa melma del fiume

[336]
Mi sento in dovere di portare a termine il racconto dell’episodio autobiografico del bruco di Acherontia incontrato una quindicina di anni fa sulle rive melmose del Tevere, racconto affondato poi nella melma dei ricordi come stavamo affondando allora, il bruco ed io, nell’insidiosa melma del fiume.

Lui aveva fermato la sua corsa sulla mano che l’aveva catturato, mentre io cercavo di liberare le mie gambe dalla molle fanghiglia che aveva catturato me. Ero capitato in un deposito di sabbie mobili lasciate dal fiume, che evidentemente era stufo di portarsele appresso fino al mare, e aveva pensato di liberarsi con lo stesso sistema anche di me. Io e il bruco, però, non eravamo d’accordo e protestavamo, lui riprendendo vigorosamente la sua passeggiata, io affondando sempre più nel fango. Frattanto sopra di noi, lungo le sponde alte del fiume, passava un gregge di pecore, apparentemente senza pastore ma in compenso con un buon numero di pastori maremmani, rassicuranti forse per le pecore, certo non per noi. Fortunatamente non ci degnarono neppure di uno sguardo. Io comunque cominciai a preoccuparmi, anche in considerazione del sole che calava inesorabilmente. Il mio amico, anziché addormentarsi, si faceva sempre più vispo e, per non perderlo, non potevo che farlo passare da una mano all’altra, mentre le gambe erano ormai del tutto immobilizzate. Provai a ragionare: aumentando la superficie portante avrei potuto galleggiare sul fango e forse raggiungere alcuni ciuffi di erbe acquatiche dell’aspetto tenace e resistente, cui aggrapparmi e tirare…

Piegai il corpo a squadra ed effettivamente le cose andarono come previsto, nonostante l’amico mi remasse contro, nel senso che rendeva più difficile ogni mia mossa. Lasciai al fiume scarpa e calzino sinistri, in compenso il fiume mi riempì di fango fino ai capelli.

Eravamo sani e salvi, il bruco ed io. Raggiungemmo la macchina, che provvidi a insozzare come non mai. Qui trovai una scatola per l’Acherontia, che, alcuni giorni dopo s’incrisalidò per poi sfarfallare la primavera successiva e volarsene via a saccheggiare la prima arnia incontrata. Che ci facesse il suo bruco, divoratore di solanacee, sulle rive melmose del Tevere, proprio non lo so.

giovedì 26 gennaio 2012

Ancora ignaro del fatto…

[335]
L’avevo visto che attraversava frettolosamente sulle sue sedici zampe, non dico la strada –che di strada non c’era traccia su quella fanghiglia– ma la traiettoria presumibile dei miei futuri passi, il grosso bruco dell’Acherontia atropos (la famosa ‘testa di morto’) che avevo già incontrato anni prima su un lillà del giardino di casa e che mi aveva dato uno splendido esemplare adulto, oggi tra le pochissime farfalle da me trattenute per la mia modesta ma assai appariscente collezione di Lepidotteri, in prevalenza esotici, pazientemente acquistata nel corso di decine di anni, a cominciare proprio da una Acherontia atropos che mi era stata ceduta dal proprietario di una sala da tè di Sanremo –credo fosse il 1938–, il quale aveva adornato il suo locale con esemplari di farfalle, accuratamente preparati incorniciati per la gioia di un ragazzetto undicenne appassionato di insetti e discreto conoscitore, per la sua età, ma ancora ignaro del fatto che questa passione, trasferite più tardi sull’ordine dei coleotteri, non lo avrebbe abbandonato per tutta la vita…

martedì 24 gennaio 2012

Il tempo tra mito e realtà

[334]
Ho ricevuto alcuni giorni fa una pubblicazione che mi ha tenuto occupato più di una settimana per la singolarità dell’argomento, la serietà della trattazione e la bella veste tipografica. È il catalogo di una mostra tuttora visitabile* presso il Museo Civico Archeologico di Anzio, mostra del titolo
Anzio e i suoi Fasti

e dal sottotitolo accattivante riportato in testa a questo postino. L’elemento anche iconograficamente unificante sia la mostra che il catalogo è costituito dai Fasti –modernamente ‘calendari’– che presso i romani erano associati ai nomi dei due consoli in carica nell’anno in questione.

A parte i reperti riguardanti i Fasti, la raccolta esposta al pubblico comprende una statua di Hermes, copia presumibile da un originale di epoca classica, una coppa d’argento di incerta datazione, due brocche presumibilmente coeve, alcune lastre votive e un interessante rilievo mitraico.

Per me, che per le solite ragioni, non posso visitare la mostra in loco, la disponibilità di un così bel catalogo è particolarmente gradita, e non solo per l’accurata riproduzione dei reperti, ma per l’originale silloge di testi letterari e filosofici concernenti il più problematico dei parametri di cui ci serviamo per descrivere la nostra esperienza del reale: il tempo. La domanda si che cosa sia è già mal posta: il tempo non è, no può essere una ‘cosa’ perché, se lo fosse, dovrebbe essere, come tutte, nel tempo. E avremmo un’insulsa tautologia. Il ‘luogo’ del tempo potrebbe essere la nostra mente, che allora dovrebbe contenere non solo Greci e Romani, ma anche mammut e dinosauri, oltre mio nonno e il Big Bang. E anche qui non ci siamo… Negheremmo noi il tempo? E se lo negasse la vita stessa nella morte?

Gli antichi –ma quanti tra di noi si conservano antichi– opposero ai viventi, prigionieri di un tempo finito, gli immortali “che abitano le cime del nevoso Olimpo, ed il Tartaro tenebroso nei recessi della Terra delle larghe vie…” (Esiodo). Ma gli immortali non si comportavano diversamente dai mortali, e allora questi ultimi persero ogni rispetto per essi e li sostituirono con un Dio solo, fuori dal tempo e dallo spazio. Ma anche questo non poteva soddisfare il loro desiderio di capire. Il Dio solo e inafferrabile decise allora di generare un figlio nel tempo, capace di morire e nel contempo di vivere in quanto Spirito, ma gli uomini continuarono a non capire.
“Che cosa è il tempo? Se nessuno me lo chiede lo so, se devo spiegarlo a chi me lo chiede non lo so” (Agostino)
“Il passato non è più, il futuro non è ancora, il presente me lo porto sempre appresso” (ragazza anonima)
– – – – –
Una succinta ma essenziale raccolta di citazioni greche e latine si legge circa a metà catalogo, di cui –per chi non può recarsi alla mostra– costituisce il cuore, al quale confluiscono anche le altre sezioni: frammenti di archeologia mentale.

* La mostra ebbe luogo tra Luglio e Dicembre 2010. Il postino qui riprodotto data dell'autunno 2010.

lunedì 23 gennaio 2012

'Libero arbitrio'?


Acquarello di Noah Hutton
[302]
Non sono un creazionista né seguace di un qualche credo religioso, ma neppure ho una fede incondizionata nella scienza e nella ragione. Perfino la matematica non mi ispira quella certezza indubitabile simboleggiata dall’espressione 2+2=4. Certezza si, indubitabile anche, solo dopo esserci accordati su determinate ma arbitrarie regole di gioco.

Quanto precedentemente detto sulla nostra responsabilità di ‘singoli’ non risulterebbe menomamente indebolito se mi riconoscessi nel creazionismo o in una fede religiosa. Penso al contrario che la presenza di un Creatore che ci concedesse il ‘libero arbitrio’ –e la maggior parte delle fedi lo fa– non farebbe che rafforzare in noi l’esigenza di corrispondere a questa concessione facendoci carico della responsabilità per ogni nostro atto. Se poi fossimo seguaci di un determinismo assoluto, per cui non ci fosse spazio per il l’ibero arbitrio’ e quindi per la responsabilità individuale, vorrebbe dire che questa responsabilità è automaticamente iscritta nell’atto stesso da noi compiuto e da questo pienamente assolta.

domenica 22 gennaio 2012

La nostra fragilità


A Mezza Strada (Half Way Through), 2006, di Peter Callesen
Carta non-acida in formatto A4 di 115 g/m2, matita e colla
[301]
Fermiamoci però alla nostra singolarità umana, per la quale abbiamo inventato un concetto fino allora inedito tra i viventi: il concetto dell’io, collettore di infiniti atti percettivi, appercettivi, distintivi, associativi, produttivi ecc. Gli atti, in quanto propri, anche se in varia misura, di tutta la materia vivente, precedono di molto la formazione dell’io, cui spetta la funzione agglutinanti, poi unificante dell’io ‘umano’. Non possiamo escludere infatti altre forme agglutinanti affini al nostro io, anche se non coincidenti con esso (ad esempio l’io sovraindividuale esprimentesi nella tribù e, in un modo assai più cogente, nella società degli insetti).

Quanto all’io individuale, specifico probabilmente di Homo sapiens, almeno nella sua forma attualmente più evoluta, si tratta di un’‘invenzione biologica’ responsabile di due opposti orientamenti:
  • moltiplicazione dei centri esplorativi sui rapporti tra la nostra specie e l’ambiente,
  • conseguente sovrastima dell’individuo, quasi che l’atto esplorativo significasse automaticamente presa di possesso.
Mentre il primo orientamento, lasciando di fatto immutato (se non per quel tanto che ogni atto osservativo muta l’oggetto osservato) il rapporto specie-ambiente, il secondo –‘la presa di possesso’– non solo lo alterava pesantemente, ma, preludeva alla sua catastrofica rottura.
Ed è abbastanza chiaro chi ne uscirà con le ossa rotte: tutti e due con la differenza che l’ambiente con la sua plurispecificità è indefinitivamente in grado di rigenerarsi, avvantaggiandosi anzi dell’avvenuta distruzione, mentre la specie singola, come qui Homo sapiens, ha poche probabilità di ricostituirsi nella sua singolarità.

In altre parole, il fatto di essere ‘singolare’ (sia come specie, sia come individuo) ci investe di grandi responsabilità che possono farsi per noi motivo d’orgoglio, come anche banco di prova per la nostra fragilità. Su questo investimento si giocano il nostro successo o il nostro fallimento. Di ciò dovremmo avere sempre coscienza quando ci autoproclamiamo figli di Dio e signori del Creato.

sabato 21 gennaio 2012

Un 'profilo standard'

[300]
Alla fine del precedente postino ho parlato di un ‘profilo standard’ del Homo sapiens. Esiste un tale ‘profilo’?

Domanda insensata finché si intende ‘esistere’ o come quando diciamo ‘il quaderno nel quale scrivo esiste’ o ‘io esisto’, cioè affermiamo l’esistenza di qualcosa riferendola alla nostra percezione sensoriale. Abbiamo una tale percezione nel caso in questione? Evidentemente sì, giacché non ci capita mai di confondere un essere umano con una talpa o un coccodrillo. Ma un ‘profilo’ non è tanto la descrizione di un percetto quanto la percezione di un costrutto della mente sprovvisto di esistenza sensibile. Ripeto la domanda: esiste un tale ‘costrutto della mente’, depositato per esempio in un testo scritto? A livello morfologico suppongo di sì, per quanto non abbia mai letto nulla in proposito. Alcune immagini, riprese dal ben noto fotografo Andrew Zuckerman, mostrano un individuo di scimpanzé che non avrei alcuna difficoltà a includere nel genere Homo. L’ulteriore limitazione imposta dal termine ‘standard’ complica ancora di più le cose. Come definire, all’interno della specie Homo sapiens, un modello, applicabile a tutti gli individui e pure suscettibile di migliaia di miliardi di varianti, tante quante sono le effettive occorrenze di quel modello sulla terra nel corso della sua storia? Dovrebbe essere un modello che dia ragione di Einstein, di Dante e di Bach come della mente umana più semplice, del santo come del delinquente, del torturato come del torturatore, di te, di me e di tutti coloro che potrebbe capitarci di incontrare. Abbiamo un modello del genere o è anche solo pensabile la sua costruzione mentale?

Per gli animali, nel regno degli istinti che ci piace distinguere da quello dell’intelligenza, non abbiamo grandi difficoltà a individuare costanti comportamentali da attribuire a modelli’ più o meno riconoscibili. Per l’uomo siamo più restii a generalizzare. Ognuno di noi si percepisce come un unicum, una singolarità del vivente, e forse lo è, allo stesso titolo però di un gatto, di un ornitorinco, di una mosca e, chissà, di un batterio.

venerdì 20 gennaio 2012

Pietro Cosimi

Grégoire de Tours, Histoire des Francs, libri primo a sesto, frontispicio

[299]
I due postini che precedono altro non intendono che rendere testimonianza di un’individualità ‘extravagante’ che, a chi gli chiedeva conto del perché di certe sue extravaganze, sapeva rispondere solo: “Perché sono fatto così!” Il suo ‘opus maximum’, la trilogia, parte in prosa, parte in poesia, I Merovingi, tratta un tema non precisamente attuale, anche se, ispirandosi al vescovo Gregorio de Tours, biografo ufficiale del feroce casato franco, la narrazione termina al ‘Circolo bocciofilo rionale’.

Non facilmente inquadrabile nel profilo standard di homo sapiens, Pietro Cosimi resta tra i personaggi più singolari –alla lettera!– che io abbia conosciuto.

giovedì 19 gennaio 2012

Cerambicidi II

[298]
Io amo i Cerambicidi, ma meno di tanti altri entomologi. E chi sono questi altri? Sono gli allevatori che conservano tronchetti di legno in attesa che un giorno compaia, in uno stato di smarrimento, il Cerambicide del mistero; infatti spesso non si sa quale specie esca dall’allevamento. A parte che io non ho intenzione di fare tanta fatica, preferisco trovare la specie in campagna sui rami abbattuti, sui fiori, per terra, di giorno o di notte al lume della torcia elettrica. Ma il peggio è altrove. Che si può fare in un’Italia oggettivamente sempre più nella categoria del brutto, del desertificato? Gli entomologi ne soffrono, e che fanno? Se ne fuggono all’estero, a caccia. Io non sono d’accordo. Per quanto amaramente temo di dover assistere alla fine entomologica del mio paese. Di Cerambicidi –e tanti altri insetti– ne troverò ogni volta di meno: ciò che si adatta al peggio, che infesta e si antro pizza; non ne raccoglierò, poverini, e mi ostinerò a girare attorno a Roma fra uno sfasciacarrozze, un prato bruciacchiato, uno scarico abusivo, il mefitico dell’atmosfera, i corsi d’acqua spumeggianti di detersivo, le nuvole di moschini, gli ettari incendiati, il rombo degli aerei ed automobili, cosciente che i coleotteri diverranno sempre più rari e temendo di morire con loro.

Fine citazione da Pietro Cosimi: La Collezione d’Insetti – Riflessioni e Fantasie, Roma, 1998.

mercoledì 18 gennaio 2012

Cerambicidi I


Una Rosalia alpina nell'interpretazione dell'origamista ungherese Péter Budai

[297]
[Includo nei Postini due testi sui Cerambicidi –la stessa famiglia dell’Aegosoma scabricorne di cui al postino precedente– del mio amico entomologo e poeta Pietro Cosimi]

Alcuni grandi Cerambicidi presentano all’entomologo una vera regalità; il loro trono è l’albero: imponente, ombroso, solitario, virgiliano, haendeliano.

Chi sono e dove stanno. Il nero granulato della Cerambyx cerdo sulla quercia, il verde o blu violetto scambiati dell’Aromia moschata in accoppiamento sui rami del salice, il celeste e il nero vellutato della Rosalia alpina un tempo pullulante presso le segherie appenniniche, lo splendore del Rhopalopus hungaricus suo legno rosato dell’acero. Sono questi, comuni o rari, i principi tra i Cerambicidi italiani. Altri ne esistono, non indegni; però vivono spesso di notte, sicché non appaiono a suscitare lo stesso senso di sorpresa. Il Cerambicide, con le sue antenne simili a bracci di cetra, è la maestà dell’albero, come l’aquila presso la rupe, l’orso bianco sulla neve, il guizzo lunato del delfino.

martedì 17 gennaio 2012

… la nostra visione parcellizzata, individualizzata della materia vivente…

[296]
L’Aegosoma scabricorne è un bel coleottero della familia dei Cerambicidi non raro in Europa, anche in ambiente cittadino, dove vive a spese di molte specie di latifoglie. Lo si incontra spesso nei viali alberati, soprattutto di notte, in volo o mentre deambula sui tronchi. I maschi sono notevoli per le lunghe antenne provviste, in particolare gli esemplari di grossa taglia, di spine e tubercoli che gli hanno valso il nome specifico. Le femmine hanno le antenne più corte, normalmente filiformi, e sono provviste, cosa non frequente tra i coleotteri, di un lungo ovopositore esterno.

Qui a Cantalupo in Sabina, dove vivo, gli alberi –prevalentemente tigli e platani– che fiancheggiano il viale principale, mostrano sui tronchi i grandi fori di uscita degli adulti. Ogni due o tre anni, a fine estate, mi capitava d’incontrarne uno, in genere maschio, ma di modeste dimensioni. Quest’anno (2010), nel solo mese di agosto, ne sono entrati dalle finestre aperte ed illuminate, ben sei, tutte femmine e piuttosto grosse. È l’inverso di quanto si osserva negli insetti in generale, tutti in forte, catastrofica diminuzione ormai da parecchi anni. Perché questo improvviso aumento e perché delle sole femmine? Non credo nella casualità dei fenomeni, piuttosto nella loro imperscrutabilità, cioè nella nostra incapacità a comprenderli. Sono soprattutto i comportamenti improvvisamente collettivi in specie solitamente solitarie a metterci in difficoltà. Ho sempre trovato il Calosoma sycophanta (uno splendido carabide verde oro), per individui isolati, salvo nelle annate di invasione di certi bruchi (Lymantria dispar), quando si può trovarlo a centinaia intento a sterminarli in massa (è la ragione per cui il famelico coleottero è stato importato negli Stati Uniti a protezione dei frutteti). Come fa il Calosoma a sapere in anticipo –quando cioè si tratta di deporre le uova in numero sufficiente– che il prossimo anno ci sarà l’invasione della Lymantria? Probabilmente è la nostra visione parcellizzata, individualizzata della materia vivente a renderci incomprensibili fenomeni di tutta normalità.

lunedì 16 gennaio 2012

Gravitas

GRAVITY // UN RÊVE DE DEMAIN di Filip Piskorzynski su Vimeo.

domenica 15 gennaio 2012

Raffica di postini (e vii)


[274]

Se i problemi si potessero risolvere, non metterebbe conto di campare.

[Fine raffica]

sabato 14 gennaio 2012

Raffica di postini (vi)


[273]

Se i problemi si potessero risolvere, sarebbero già stati risolti.

venerdì 13 gennaio 2012

Raffica di postini (v)


[272]

Se i problemi si potessero risolvere, non metterebbe conto porseli.

giovedì 12 gennaio 2012

Raffica di postini (iv)


[271]

Spesso il vero è così vicino al falso da non potersene distinguere.

mercoledì 11 gennaio 2012

Raffica di postini (iii)


[270]

Corollari ai due postini precedenti:
i problemi non si risolvono, si spostano (questa però non è nuova).

martedì 10 gennaio 2012

Raffica di postini (ii)


[269]

Credo, ahimé, che i veri problemi siano come li ho descritti nei postini precedenti.

lunedì 9 gennaio 2012

Raffica di postini (i)


[268]

Talvolta la soluzione di un problema si allontana quanto più ci si avvicina ad esso.

domenica 8 gennaio 2012

... una qualche ragione occulta...


[267]

Perché ho inserito tra gli attuali postini i precedenti testi del 2004, non ancora assurti al rango di ‘postini’?
Le risposte sono molteplici:
• perché mi andava di farlo,
• perché è mia abitudine –già da compositore– di agganciare l’uno all’altro i miei lavori mediante riprese, autocitazioni,
• per illudere me stesso di star lavorando sempre alla stessa opera,
• perché non mi veniva in mente nulla e non volevo perdere la giornata,
• per pigrizia,
• per far pensare il ricevente a una qualche ragione occulta,
• non c’è un perché,
• ………

sabato 7 gennaio 2012

Quattro postini del 2004 (dal tedesco) e IV.


Ritrovamento paleontologico di Laetoli, in Tanzania
[266]

Orme di Australopiteco
Tra queste le tue orme.
[Fine postini del 2004]

venerdì 6 gennaio 2012

Quattro postini del 2004 (dal tedesco) III.


[265]
All’angolo della strada
sempre la vecchia puttana.
I suoi nipoti orfani
hanno un tetto,
hanno da mangiare,
vanno a scuola.

giovedì 5 gennaio 2012

Quattro postini del 2004 (dal tedesco) II.


Crateri del Moon National Monument, Arco, Idaho, USA - Jordan Lofthouse
[264]

Lava pietrificata.
In mezzo le braccia
di una quercia bruciata.
In mezzo al nero un punto verde.

mercoledì 4 gennaio 2012

Quattro postini del 2004 (dal tedesco) I.



[263]
Vedi laggiù quel formicaio?
Sopra, dentro brulica la vita.
Se ti avvicini,
viene spruzzato di acido.
Tutt’intorno non troverai
un bruco, un coleottero, un qualsiasi altro insetto.
La vita non tollera la concorrenza.