lunedì 31 ottobre 2011

Lettera di una limaccia a un’altra limaccia

[233]
Sposo mio, sposa mia amatissima,
non so come chiamarti
o chiamare me stessa,
se sposo o sposa.
Tutti distinguono maschi e femmine.
Noi no. Forse perché
non c’intendiamo di sesso?
Chi? noi, i campioni?
Tu, la mia femmina, io il tuo maschio,
tu, il mio maschio, io, la tua femmina.
Sposo alla sposa che è sposo alla sposa,
sposa allo sposo che è sposa allo sposo.
Unione reciproca, incrociata, perfetta.
Unio mystica.
Coincidentia oppositorum,
amore teologalis.

“E in nome di questo amore,
lumacone mio,
lumacona mia,
prenditi questa coltellata nella pancia.”
“Se è questo che vuoi,
lumacona mia,
lumacone mio,
sempre in nome del nostro amore,
eccoti la coltellata di ritorno”.
Così dicemmo allora,
oggi ci dividono
molti metri di scia,
e a noi non resta
che intonare insieme
Plaisir d’amour
ne dure qu’un moment
…”
(da Lettere di famiglia, 2005)

domenica 30 ottobre 2011

Pratica dell'abbraccio di base

sabato 29 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali – Avvoltoi


[232]

Lui. – Dio mio, come sei grassa!
Lei. – Anche tu non scherzi!
Lui. – Ma cosa mangi?
Lei. – Carogna.
Lui. – Anch’io.
Lei è lui (all’unisono). – Un cibo sano e nutriente!
Lui. – Se non fossimo in tanti a litigarcelo…
Lei. – … e non facessimo tanto baccano!
Lui. – Un po’ di festa, va bene, ma tutte quelle beccate!
Lei. – Sai che ti dico? La prossima carogna ce la teniamo per noi.
Lui. – E come vuoi fare? Dall’alto ci vedono tutti!
Lei. – Così (gli dà una beccata al cuore).
Lui (morendo). – Carogna!
Lei (cominciando a mangiare). – Appunto!

venerdì 28 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali. Parrocchetti

[231]
(Lei e lui, in tandem)

Non so dire che tu non dica,
non so fare che tu non faccia,
Dico solo ciò che tu dici,
faccio solo ciò che tu fai,
ma lo faccio con chi mi pare,
e non lo vengo a dire a te.
(segue separazione consensuale)

giovedì 27 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali. Cervi volanti (due monologhi)

Fotografia di Natura Mediterraneo
[230]
Lei. – Eccolo che torna alla carica. Con quel suo testone e le mandibole spalancate come per incutere paura. A chi? A qualche maschietto piccolo forse. A me no di certo, che con le mie mandibole corte e forti potrei tagliargli di netto una zampa. Ma a che scopo? Come maschio funziona abbastanza bene e questo mi basta. È piuttosto stupido, è vero, nonostante il testone, ma a me che importa? Ciò che conta è che non sia stupida io, e so di non esserlo.

Lui. – Certo, è una ragazza fortunata ad avere me come compagno. Pensare che potrei averne quante ne voglio! Ogni tanto un finto combattimento con un finto avversario, tutto ciò che rischio è un ruzzolone giù dal ramo, quando ne trovo uno più forte di me, ma capita di rado. L’importante è che lei non mi veda, ne andrebbe della mia dignità… La sera, una volantina da una quercia all’altra… tutto sommato, una bella vita. Eccola che mi attende, fedelissima, almeno spero… Non è molto intelligente, ma a me che importa? Come femmina va benissimo; di testa, basta la mia.

mercoledì 26 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Leoni

[229]
Lui (tra sè) – Sei sopraffatto. Credo che col prossimo pretendente dovrò venire a patti: qualche ruggito, un paio di zampate con le unghie ritratte, poi gli cedo metà del mio harem a patto che nessuno lo venga a sapere.
Una delle Lei – Poveretto! Non ce la fa più, mentre a me piacerebbe quel giovanotto che è venuto ieri… Chissà se si potesse trattare… (si accorda con le altre cinque, poi va da lui) È ora di democratizzare la nostra società. Non è più il tempo della ius prima noctis e affini. Del resto anche tu non sei più all’altezza della tua fama. Non ti chiediamo di abdicare. Tieniti la corona ma per il resto lasciaci fare.

martedì 25 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Rospi

[228]
Lei – … sta comodo lassù il signorino? …mi duole di non essere più larga di così… ma sì, fatti pure un sonnellino… al momento giusto ti sveglio io…
Lui – Ma cosa avrà da brontolare? Che dovrei dire io, che dopo averla aiutata per ore a liberarsi delle sue uova, mi sento dire: “Ora lasciami in pace! Pensa tu a fecondarle!”

lunedì 24 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Pesci

[227]
Lui – … a forza di fecondarti le uova, mi è venuta fame.
Lei – Serviti pure; me ne avanza ancora qualche migliaio.
Lui – Uova, sempre uova, non sai fare altro…

domenica 23 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Mantidi

[226]
Lui - Sei bellissima, mi piaci da morire…
Lei – Non mi tentare!
Lui – … mi piaci che ti mangerei…
Lei – È un’idea! (gli stacca la testa con un morso)

venerdì 21 ottobre 2011

Erasmino


L'ultima incisione di Albrecht Dürer (1526), nella Collezione Reale di Kopenhagen

Su invito di Fernando e sperando sia di qualche interesse, voglio riassumere in questo breve intervento le impressioni da me riportate dalla lettura della biografia Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, di Stefan Zweig, 1934 – io l’ho letta in italiano, nell’edizione Rusconi del 1981 intitolata semplicemente Erasmo da Rotterdam.

La prima cosa a saltarmi agli occhi è la somiglianza del titolo originale tedesco con quello di un quasi-contemporaneo lavoro di Thomas Mann, Leiden und Größe Richard Wagners («Dolore e grandezza di Richard Wagner»), uscito nell’aprile del 1933. E in effetti, più che di una biografia si tratta di un ampio saggio biografico sul tipo del lavoro manniano, concepito cioè senza tenere troppo conto dell’immagine per così dire «storicamente tramandata» di Erasmo ma affidandosi invece per lo più alla propria sensibilità. Zweig, pur con tutte le precauzioni della saggistica scientifica, si arrischia a ricostruire la figura di Erasmo a partire dall’idea che si è fatto di essa (impresa di per se poco «scientifica»); la sua onestà intellettuale gli impedisce però, come è ovvio, di forzare e manomettere, e ogni volta che l’identificazione tra idea e persona fallisce, lo ammette con un dispiacere che non può che suscitare simpatia. In questo senso, direi che «dolore e grandezza» o «trionfo e tragedia» siano in gran parte attributi propri delle ideologie dei due autori, e non dei personaggi storici di cui si «ricostruisce» la figura, e sarà perciò difficile qui parlare di Erasmo da Rotterdam prescindendo da Stefan Zweig.
Leggere di più ...Se seguiamo l’autore, l’ideale che Erasmo, con la sua vita e le sue opere, incarna quasi perfettamente è l’ideale pacifista. Dopo una breve riflessione sul perché Erasmo oggi (nel 1933) sia quasi dimenticato (perché oscurato «da figure più vigorose e impetuose di altri riformatori universali», e perché «ben poche notizie divertenti ci offre la sua vita privata: un uomo del silenzio e del lavoro indefesso riesce di rado ad avere una biografia appassionante»), subito Zweig pronuncia la sua dichiarazione d’amore:

«Vogliamo quindi riassumere qui con chiarezza quello che ancora oggi, e proprio oggi, rende a noi caro Erasmo da Rotterdam, il gran dimenticato: il fatto che egli, tra tutti gli scrittori e i pensatori dell’occidente, è stato il primo europeo cosciente, il primo bellicoso amico della pace, l’avvocato più facondo dell’idealità umanistica. Il suo tragico destino di essere rimasto sconfitto nella sua lotta per un indirizzo più equo e più armonico del mondo spirituale, lo lega ancor più intimamente al nostro sentimento fraterno» [p. 7].

La venatura autobiografica è esplicitamente dichiarata. Un’altra cosa invece mi colpisce: la definizione di «primo bellicoso amico della pace». Continua:

«Erasmo ha amato molte cose che noi pure amiamo: la poesia e la filosofia, i libri e le opere d’arte, i linguaggi ed i popoli, ed ha amato senza distinzioni l’umanità intera, per una finalità moralizzatrice superiore. Egli non ha veramente odiato in terra che una cosa sola, quale antitesi della ragione: il fanatismo» [p. 8].

Se quel primo «bellicoso» poteva essere una trovata poetica, «l’odio per il fanatismo» lascia davvero perplessi. In tutto il libro non una sola volta ci è dato pensare che Erasmo provi odio per qualcosa o qualcuno (semmai stizza, disprezzo…). Secondo Zweig invece egli «odiò tutti gli ostinati e gli unilaterali […] tutti gli angusti campioni di ogni classe e ogni razza […]. Con tutta l’energia del proprio ingegno brillante e preciso, combatté quindi, in tutti i campi e per tutta la vita, i presuntuosi fanatici di una loro propria illusione – solo in ben rari momenti felici si accontentò di sorriderne» [pp. 8-9]. L’ideale erasmico può forse conciliare pacifismo e odio del fanatismo? Egli stesso sembra escluderlo:

«Per lui non vi è nel campo teologico né in quello filosofico una verità assoluta e valida per tutti. La verità ha sempre molti aspetti e molti colori, e il diritto del pari, perciò “mai il principe dovrebbe essere più prudente che nell’indursi alla guerra, né dovrebbe insistere nel suo diritto, giacché chi non considera la propria causa giusta?”» [p. 81].

Ma cos’è il «fanatismo» per Erasmo?

«Ogni volta che Erasmo alza la voce contro la guerra, l’odio e l’angustia mentale, egli diventa appassionato, ma questa passionalità del suo sdegno non giunge mai a offuscare la limpidezza dello sguardo. Idealista per il cuore, ma scettico per la ragione, egli ha coscienza di tutti gli ostacoli che nel limite della realtà si oppongono all’attuazione di tale “pace mondiale cristiana”, all’impero della ragione umana. Colui che nella sua Laus stultitiae ha descritto tutti gli aspetti della follia e della incorreggibile sragionevolezza umana, non è tra quei sognatori idealisti che credono di poter annientare o anche soltanto addormentare con la parola scritta, coi libri, con le prediche o i trattati l’istinto di violenza innato nella natura umana […]; non ignorava che forse sarebbero occorsi millenni di educazione etica e di raffinamento culturale per sbestializzare ed umanizzare la razza umana» [pp. 82-83].

La violenza si manifesta quando manca il libero pensiero: una tale affermazione è già di per sé rivoluzionaria. Con un colpo di spugna, Erasmo cancella la linea rossa che per tutto il Medioevo ha collegato la pace alla cieca osservanza del dogma, alla mortificazione della ragione: non più la fede, bensì l’«impero della ragione umana» conduce alla «pace mondiale cristiana».

«Pensatore lungimirante, aveva da tempo veduto come l’istinto di violenza in sé non costituisca ancora un pericolo per il mondo. La mera violenza ha corto respiro; ella si dibatte cieca e furente, ma senza una meta al proprio volere, con breve pensiero, destinato ad afflosciarsi impotente dopo una fugace esplosione. […] Solo allorché l’istinto di violenza è al servizio di un’idea o l’idea di esso prevale, ne sorgono i veri tumulti, le rivoluzioni cruente e distruggitrici. Solo una parola d’ordine trasforma la massa in partito, solo l’organizzazione ne fa un’armata, solo un dogma ne fa un’eresia. Tutti i grandi conflitti nell’ambito dell’umanità hanno tratto il loro movente non tanto dall’istinto di violenza insito nel sangue umano, quanto da un’ideologia capace di scatenare tali istinti e di sospingerli contro una parte predestinata dell’umanità. È stato il fanatismo, questo bastardo fra spirito e forza bruta, a volere imporre all’universo intero la dittatura di un pensiero, anzi del proprio pensiero, quale unica forma lecita di vita e di fede, e a scindere così la comunità umana fra amici e nemici, fra seguaci e avversari, eroi e delinquenti, credenti ed eretici» [pp. 83-84].

Dunque il fanatismo non coincide con l’ideologia: in esso Erasmo (con Zweig) «odia» il processo di sclerotizzazione delle idee in ideologie, non le ideologie stesse ( tantomeno le vittime dell’ideologia, che egli cerca invece di ricondurre alla ragione). Certo, l’umanista non si rivolge mai ai «condotti-sedotti», alla folla incolta: a cavallo tra ‘400 e ‘500, la possibilità di una didattica di base non è nemmeno lontanamente concepibile (anche se quello che Zweig chiama il perseguimento, nel lavoro di Erasmo, di «una sintesi suprema di tutte le idee» è effettivamente vicino a IMC). Gli umanisti, come lo scrittore sottolinea in alcune pagine davvero belle, «rappresentano in sostanza non già un contrasto alla cavalleria, ma un suo rinnovamento sotto forma intellettuale» [p. 89], il che costituisce il loro limite più grande.

«Nemmeno per un istante Erasmo e i suoi pensano di concedere al popolo, incolto e pupillo – per essi ogni persona incolta è minorenne –, neppure il più piccolo diritto, e benché astrattamente amino l’umanità intera, si guardano bene dall’accomunarsi al profanum vulgus. […] Appunto questo ignorare il popolo, questa indifferenza di fronte alla realtà, tolse al regno di Erasmo ogni possibilità di durata e alle sue idee ogni immediatezza ed efficacia: lo sbaglio primo ed organico dell’umanesimo fu di avere voluto istruire il popolo dall’alto, invece di tentare di comprenderlo, imparando da lui» [pp. 88-90].

Ci aspetteremmo che Zweig, frequentatore dei migliori salotti, collezionista di mobili preziosi (il tavolino del suo studio era appartenuto a Beethoven, con grande invidia del suo vicino –anch’egli collezionista–, Franz Werfel), senta su di sé il peso della propria affermazione. Non è così: egli si ritiene al sicuro da certi rimproveri, come pure considera al di sopra di ogni biasimo lo stesso Erasmo. Sa però che dietro all’esibito elitarismo dell’ambiente in cui vive si nasconde l’incapacità di una classe intera a rivolgersi all’uomo comune, in altre parole quella debolezza che nei giorni in cui Zweig scrive lascia spazio all’ascesa del nazismo.

«In ciò sta la tragedia dell’umanesimo, la causa del suo rapido declino: le idee erano grandi, ma non gli uomini che le proclamavano. Un grano di ridicolo permane di questi idealisti da camera, come sempre negli accademici riformatori del mondo. Sono tutte anime aride, ben intenzionate, rispettabilissime, sono pedanti lievemente vanitosi, che portano i loro nomi latini come una maschera intellettuale: la loro grottesca minuziosità fa sempre avvizzire i più rigogliosi pensieri. Questi minori compagni di Erasmo sono commoventi nell’ingenuità professorale, assomigliano un poco a quelle brave persone che ancor oggi si incontrano adunate nelle società filantropiche e riformatrici: idealisti teorici, che credono nel progresso come in una religione, sognatori a freddo […]» [p. 91].

Dover riconoscere nello stesso Erasmo uno «zampognaro della pace» (come direbbe Hans Castorp de La montagna incantata), dover raccontare la dieta di Worms e quella di Augusta e far notare la sua assenza, ammettere incredulo che «il gran dimenticato» mancò a tutti gli appuntamenti della storia, che disertò ogni opportunità di conciliare cattolici e protestanti: tutto questo gli è sommamente penoso. Eppure non abbandona il suo intento iniziale, e la biografia di Erasmo da Rotterdam è in fondo lo sforzo di distillare da una figura tutto sommato umana, il tipo universale del mediatore e del pacificatore. Che tale compito di pacificazione non possa prescindere da un potenziamento diffuso e capillare del pensiero è, a ben vedere, il fulcro di IMC, e a questo punto che parlino Erasmo da Rotterdam, Stefan Zweig o Boris Porena non fa poi molta differenza.

Dario Peluso

giovedì 20 ottobre 2011

Commento ai tre postini precedenti


[225]
Così come sono si tratta di postini assai poco metaculturali giacché prendono inequivocabilmente posizione contro: la tecnologia, il progresso, l'universo mediatico. I deboli interventi di un interlocutore fittizio non traggono in inganno: qui viene esposto un parere personale in forma di verità, come il più delle volte si usa fare anche quando si premette –più per ossequio a una moda che per convinzione– la formula relativizzante ‘secondo me…’ Qui, se ipocrisia c’è, funziona al contrario. Lo stile usato è quello della certezza, il luogo in cui si manifesta –questi ‘postini’– rimanda alla relatività metaculturale. Come interpretarli allora?

Come argomenti su cui discutere, da rivoltare nella mente ora consentendo, ora opponendo, sempre però disponibili a modificare il nostro atteggiamento se altri argomenti interverranno con forza sufficiente. Ho pensato con questi tre postini –ma forse con tutti gli altri se non con tutto ciò che ho scritto in questi anni recenti– a un modello di eserciziario da proporre per un corso di formazione metaculturale.

(scritto il 31 Luglio 2010 - conclusione del Quaderno IV)

mercoledì 19 ottobre 2011

Tre postini sulla senescenza attraverso la tecnologia (e iii)

[224]

"Ma tu ce l'hai altrettanto anche con i canali mediatici che forniscono informazioni utili, per esempio in forma di 'nozioni' che altrimenti dovresti faticosamente ricercare in luoghi difficilmente accessibili, con grande dispendio di tempo".

Ancora una volta, tu pensi allo stadio finale, al ‘risultato’, quasi che la via per raggiungerlo contasse solo per questo. Eppure proprio lungo la via si aprono alternative che possono portare in tutt’altra direzione, forse anche più promettente. Inoltre è proprio nella devianza che la mente si impegna al massimo, e il lavoro della mente è ciò per cui e di cui viviamo. Ma anche ciò che va perduto quando la via viene percorsa a velocità tecnologica, trasformando un processo di acquisizione nell’apprendimento di una nozione previamente impacchettata e pronta per l’uso. Il taglio del processo a favore dello stato finale svaluta nel tempo anche quest’ultimo nel momento che lo si raggiunge per direttissima, perdendo di fatto tutto il lavoro speso lungo la strada. “E che importa –dirà il solito interlocutore– ora che hai il risultato?”

Semplicemente che ho dimenticato come si fa a raggiungere un risultato.

martedì 18 ottobre 2011

Tre postini sulla senescenza attraverso la tecnologia (ii)

[223]

"Perché ce l'hai tanto con la tecnologia? Dopo tutto, anche tu hai la macchina, viaggi in aereo, ascolti la radio, fai lo zapping televisivo, consulti Wikipedia?"

Certamente anch’io, come tutti, delle novità della tecnica non posso, o meglio, non riesco a fare a meno.

È proprio questo il punto. Dal momento in cui si affacciano sui mercati, le novità tecnologiche diventano indispensabili e noi loro schiavi. E più le novità si fanno sofisticate e risolvono i problemi che esse stesse hanno posto il giorno prima, tanto più le vediamo come indispensabili e quasi non ci capacitiamo come finora non ce ne eravamo accorti. È un meccanismo perverso di cui tutti cadiamo vittime per quanto cerchiamo di opporci. Una specie di ubriacatura collettiva, una droga che nessuna legge proibisce, che anzi viene incentivata dalla pubblicità, a cui è concesso di entrare dovunque, soprattutto però nei nostri cervelli. Di questi vengono indebolite le difese, naturali o artificiali che siano, attraverso la riproposizione, infinite volte reiterata, e la veste accattivante sotto cui l’oggetto da smerciare nel raggiungere il compratore predestinato.

lunedì 17 ottobre 2011

Tre postini sulla senescenza attraverso la tecnologia (i)

[222]

Ecco, ora vorrei servirmi anch'io della metafora dell'invecchiamento (con tutto ciò che di spurio si trascina dietro) e per giunta per basare su di essa una critica ideologica all'attualità che, se fosse un altro a farla, molto probabilmente non l'accetterei.

L’attuale fase della civiltà ominide, salvo piccole oasi relitte, è di palese senescenza, preludente all’estinzione. Il malanno sembra aver colpito indistintamente tutte le culture, da quando si è manifestata la tendenza all’omologazione al solo modello euroamericano. Fino a poco tempo fa questo modello ammetteva due varianti in conflitto tra di loro nella cosiddetta ‘guerra fredda’, oggi risolta con l’estinzione di una delle due. La variante rimasta ha finito per imporsi, se non altro come meta da perseguire, a tutta la popolazione umana. È venuto così a mancare il principale induttore di trasformazione, il confronto con il ‘diverso’, da cui dipende la sopravvivenza di ogni entità biologica, compresa la nostra. Invano tentiamo di conservare artificialmente la diversità, l’omologazione diffusa ci impedisce e la nostra resistenza si fa ogni giorno più debole. E qual’è lo strumento omologante?

La tecnologia, in particolare quella informatica. Molti diranno: “È però innegabile che in molti settori la tecnologia è alla base del miglioramento delle condizioni di vita che un po’ alla volta raggiungerà tutti gli abitanti della terra”.

Sì ma qual’è il prezzo di questo miglioramento? Non starò qui a ripetere cose che tutti sappiamo benissimo. Le sappiamo, ma ci rifiutiamo di metterlo in conto quando ne va della nostra comodità. Ma questa comodità non porterà atrofizzazione di certe parti del corpo, per esempio le gambe o le braccia, sempre meno essenziali per spostarsi o per produrre? Forse, ma in tempi così lunghi da non doverci preoccupare nella nostra breve vita. E se questa si allungasse? Se braccia e gambe non dovessero più servirci, perché non dovremmo rimpiangerle?

Una regressione mi spaventa tuttavia, più di quella corporea, tecnicamente dominabile: la regressione della mente, assai più rapida dell’altra. Bastano due o tre generazioni di astensione del pensiero e il cervello dirotta le sue potenzialità verso altri usi come l’accomodamento al pensiero altrui. È accaduto infinite volte: le religioni, le ideologie, le mode attentano di continuo all’autonomia delle menti. Oggi poi la tecnologia informatica corre in aiuto di questi ‘signori del pensiero’: l’omologazione televisiva, pilotata da enormi interessi finanziari, viene accolta passivamente se non con piacere da miliardi di individui che abdicano al proprio cervello per assumerne uno industrializzato. Per qualche tempo alcuni hanno puntato su internet per riscattare il loro pensiero dal servaggio televisivo, ma basta navigare qualche ora in rete per accorgersi di come anche questa sia progressivamente invasa dalla ‘stupidità secondaria’, cioè indotta dai ‘signori del pensiero’, che sarebbe meglio chiamare ‘affossatori delle autonomie mentali’. Dicono che la nostra è una società democratica. Ma di che tipo è una democrazia che inibisce il pensiero individuale solo per l’interesse di pochi, che antepone il guadagno –che unicamente a questo si riduce la cosiddetta ‘crescita economica’– a un effettivo sviluppo delle nostre capacità critiche e propositive. Viviamo, tutti più o meno, in un regime di monopolio del pensiero, tanto quanto lo erano il fascismo di Mussolini, il nazismo di Hitler o il comunismo di Stalin. Non so se questi regimi ammettono delle varianti positive. Non credo. Credo però che la democrazia l’ammetterebbe.

domenica 16 ottobre 2011

Attenti ai giudizi impliciti!

[221]
La metafora dell'invecchiamento è tra le più usate per descrivere il declino dei popoli, delle civiltà. Ovviamente l'espressione non va presa alla lettera, nel senso che i singoli componenti di una certa civiltà nascano già vecchi o invecchino più rapidamente che in altra. Eppure su scala biologica ha senso parlare di ‘senescenza’ di una specie, addirittura di gruppi di specie, come quando, alla fine del mesozoico, le ammoniti, prima di estinguersi, proliferarono in forme aberranti… Ma, se quelle forme si fossero incontrate – come in qualche caso è avvenuto– in periodi precedenti, lontani ancora dall’estinzione, avremmo ancora parlato di senescenza? Lasciamo ora i tempi lunghi dell’evoluzione biologica e veniamo quelli, assai meglio afferrabili, della cultura. Il cittadino romano della decadenza era anche lui ‘decadente’? Per certi versi possiamo dire di sì, per esempio osservando la produzione poetica della tarda latinità, inquinata dal Cristianesimo ma nostalgica della classicità. Ma perché “inquinata”, perché “nostalgica” e non semplicemente ‘altra’, come ‘altra’ era la classicità latina da quella greca? Attenti ai giudizi impliciti!

sabato 15 ottobre 2011

Das Alter


[220]
Das Alter ist ein höflich Mann:
Einmal übers andre klopft er an;
Aber nun sagt niemand: Herein!
Und vor der Türe will er nicht sein.
Da klinkt er auf, tritt ein so schnell,
Und nun heißts, er sei ein grober Gesell.
Goethe

[La vecchiaia è persona gentile:
ogni tanto bussa alla porta;
ma nessuno dice: avanti!
E non le piace restare alla porta.
Così gira la maniglia ed entra di colpo,
poi dicono che è una maleducata.]

Pratica igienica di base

venerdì 14 ottobre 2011

È bene pensarci per tempo


[219]
Cerco di generalizzare le riflessioni di ieri, togliendole del mio specifico caso e testandole su un processo cui tutti andiamo incontro, anche se non sempre la vita dà il suo assenso: l'invecchiamento.

Eros ci abbandona, l’udito, la vista calano, il gusto perde di godibilità, il passo si fa incerto, traballante; siamo impediti fin nelle più normali attività come lavarci, vestirci, gli interessi che fino a ieri ci legavano alla vita, cedono all’indifferenza, quasi ci sono nemici, la memoria ci abbandona in quanto non ne avvertiamo più l’utilità, la partecipazione non ci attira, la curiosità si spegne. Un quadro che, a pensarci quando la vecchiaia ancora non infierisce, ci appare leopardianamente desolante. Eppure, a viverci dentro, ma non lo è. Lo diventa nella misura in cui non l’accettiamo. La ‘fisiologia’ del vecchio non è meno ‘naturale’ di quella del bambino o dell’adulto. Il suo pensiero allora invecchia come il corpo, non di rado però oppone resistenza, e qui sta il guaio: non nell’invecchiamento là dove c’è, ma nel cervello o in quella sua parte che lo rifiuta. Che fare allora?
Educare il cervello, e non solo da ultimo, ma fin da quando il pensiero della vecchiaia neppure lo sfiora, a goderne come di una cosa conclusa un impegno assolto. A come concludere una cosa, assolvere un impegno, è bene pensarci per tempo, e anche su questo la scuola, la società dovrebbero abituarci a riflettere.

giovedì 13 ottobre 2011

... la liberazione da un gravoso impegno imposto

[218]
Spesso mi meraviglio di quanto poco mi sia costata la chiusura della mia attività di compositore. Mi domando se in sessanta anni e più non si fosse radicata in me, tanto da doverla estirpare con la forza, mentre invece si è dissolta senza neppure lasciare un rimpianto, anzi quasi come la liberazione da un gravoso impegno imposto. Eppure l’avevo intrapreso per scelta e sempre dichiarato che fosse un piacere, un divertimento privato, visto che nessuno me la richiedeva né ne prendeva notizia. Evidentemente questo piacere era controbilanciato da una fatica, di cui non tanto il corpo quanto la mente provava le conseguenze. C’era poi il secondo impegno, da molti anni sempre più pressante e ormai in grado di prendere definitivamente il posto dell’altro, anche nella sua componente ludica. Ora che è rimasto solo, e lui che comincia ad affaticarmi come prima la composizione. Perfino questi postini, anziché scorrere spontanei e senza difficoltà come mi ero immaginato, sono una quotidiana preoccupazione, alla quale non saprei peraltro rinunciare, come un tempo non rinunciavo alla giornaliera paginetta di musica.

martedì 11 ottobre 2011

La sostituzione è ormai compiuta

[217]
La sostituzione che mi riguarda è ormai compiuta: da compositore mi sono trasformato, prima in ricercatore didattico, poi in formatore sociale, infine in filosofo della cultura (Kulturphilosoph, dicono i tedeschi). La cosa strana è che non ho mai percepito un effettivo cambiamento nel mio modo di pensare. È come se avesse indossato un diverso abito, pur restando un compositore. Già nel 1973 in Musica-società:
Oggi il lavoro di 'composizione' si estende alla società. [...]
'Comporre' musica e società, dove quest’ultima è anche soggetto del comporre
”.
Non avevo, allora, ben chiaro che cosa ciò volesse dire (certo non fondare una società di concerti), tanto meno intuivo che cosa si sarebbe potuto fare al di là della musica. Per arrivare a questo dovevo ricevere l’aiuto dei bambini, di tutto il mondo della scuola e, ancora oltre, di una società non ancora invasa dal welfare è disponibile a esperimentare modelli alternativi. Purtroppo, mentre di bambini siffatti ne ho incontrati molti, anche in tempi recenti, scuola e società gli ho visto imbarbarirsi fino all’ingestibilità nei giardini artificiali del benessere mediatico.

domenica 9 ottobre 2011

A proposito di sostituzione...


[Nota editoriale: Eleviamo ad articolo il generoso commento di Bradipo al 'postino' di ieri sabato. Troppo succoso per lasciarlo languire tra le liane dell'oblò]

A proposito di sostituzione...

 Non mi esprimo quasi mai nel tuo blog, caro Boris, perché in genere le cose che scrivi mi stanno bene, e anche se le loro qualità dovrebbero provocare numerose risposte, normalmente sono troppo pigro per farlo (del resto, non a caso mi chiamo 'bradipo' qui). Ma secondo me, la tua descrizione di Boris compositore che si sta man mano sviluppando nei postini degli ultimi giorni non è molto felice perché non è abbastanza vicina a ciò che senz'altro non soltanto io percepisco come "realtà" in questo caso. Anzi, dirò di più: la distanza tra questa tua visione e "i fatti" comincia a diventare irritante. Quando tu parli come epistemologo, filosofo, sociologo, politico, didatta o quel che sia, mi starebbero bene delle prese di posizione anche lontane da quelle mie personali, purché alimentate dai soliti tuoi ragionamenti ben condotti: allora acconsento e taccio. Adesso però ti pronunci su di te come musicista, e dài l'impressione di ragionare bene, ma non lo fai. Qui non posso fartela passare liscia, quindi protesto. Mi spiego.



La storia della volpe e dell'uva vorrebbe suggerire, se ho ben capito, che –nonostante i tuoi sforzi prolungati– i risultati musicali della tua produzione siano di rado a un'altezza che ti pare auspicabile, e che da tutti i ragionamenti sulla tua lenta "disaffezione per il comporre", dal tuo tentativo di attribuire un ruolo di "sostegno dell'eccellenza" anche a quei prodotti compositivi secondo te meno felici e, alla fine, dalla tua spiegazione del proprio malcontento dovuto all'incapacità di dare il meglio di te costantemente – che da tutto ciò il lettore dovrebbe in qualche modo concludere che ci si sarebbe dovuto aspettare da te composizioni di una qualità parecchio migliore (soprattutto negli ultimi anni), le quali però purtroppo non sei stato capace di produrre. 

Ma stiamo scherzando?

 Siamo per caso al corrente di quanto Schubert fosse felice e contento delle cose che scriveva? Abbiamo ragioni di pensare che Bach si congratulasse ininterrottamente per la sua genialità? Sappiamo se Mahler è stato portato dal suo percorso "dove gli sarebbe piaciuto arrivare"? Non penso. Nell'analogia tra il musicista Boris e la favola di Esopo stai sostituendo un argomento valido con uno truffaldino. Lo si capisce quando si va a vedere la morale della favola (cito dalla ormai di nuovo accessibile wikipedia italiana): "È facile disprezzare quello che non si può ottenere". Il ragionamento da te esposto suggerisce: Boris Porena è un compositore mediocre. Semmai aveva la "speranza di raggiungere il livello del più modesto dei Lieder di Schubert", l'ha persa da mo'. E ciononostante non si lamenta di aver conservato le tracce del suo cammino compositivo il cui insuccesso l'ha portato alla sostituzione dell'argomento musicale con un altro. Che bravo. 

Invece no! Sebbene riesca a intravvedere ben tre analogie tra la favola e tutte queste amenità tue, il tuo scivoloso ragionamento conduce all'errore. La prima analogia si osserva tra la favola e la tua ovvia insoddisfazione di aver toccato il tuo "livello massimo" che assai raramente. E sia (come si potrebbe mettere in dubbio questa tua sensazione personale?), ma stai imbrogliando le acque insinuando che la maggioranza dei risultati materiali dei tuoi sforzi siano per questo mediocri. Non ci siamo, Boris.

No, non ci siamo. Che tu ti veda cosí da compositore mi pare già abbastanza triste, ma allora lascia almeno lo spazio alla costatazione della gente –che necessariamente sa giudicare questo assunto meglio di te– che, come del resto commentavo qualche giorno fa, non hai nessun motivo per credere che l'uva sia amara, visto che hai raggiunto regolarmente ottima frutta. Il tuo caso mi ricorda quello di Maurits Cornelis Escher. Anche lui diceva in età ormai avanzata che era tristissimo di non essere riuscito a mettere su carta ciò che aveva visto "nel buio della notte". Suona bene, ma cavolo, guarda un po' la perfezione dei suoi disegni e la stupefacente qualità delle idee sottostanti! 

Del resto è curioso vedere che ti stai sbagliando proprio a proposito dell'argomento musicale. Questo fatto alimenta una delle mie ipotesi preferite, cioè che la musica è ciò che ti definisce di più e che ti sta più vicina anche emozionalmente, perché è proprio in quei casi che il giudizio fallisce più facilmente.

 La seconda analogia si riconduce al tuo più volte ripetuto enunciato curioso che sei riuscito a fare il compositore senza essere in possesso di quasi tutte le qualità che si sospettano necessarie per un tale mestiere. La volpe fa i salti e arriva in alto nonostante il suo fisico che non l'aiuta nell'impresa e che suggerirebbe tutt'altri movimenti. Bé, allora tanto più di cappello per aver acchiappato –contrariamente alla volpe– tanta uva buonissima.


E la terza analogia? Hai mai pensato perché la volpe di Esopo sta provando a mangiarsi l'uva? Non so un millesimo di ciò che sai sugli animali tu, ma secondo me nessuna volpe del mondo aspirerebbe a mangiarsi l'uva. A Esopo non sarebbe costato nulla di piazzare un nido pieno di succulenti uccellini sul ramo di un albero che si sarebbe rivelato troppo alto per essere raggiunto dalla volpe. Allora i suoi salti in alto sarebbero divenuti credibili! Ma cosí la storia puzza. È un caso di sostituzione anche qui. Tu provi a sostituire eventuali ragioni per il tuo disagio personale con la presunta, ma inesistente mancanza di qualità di oggetti reali (le tue composizioni, per intenderci). La volpe invece si comporta semplicemente in modo assurdo da più di un punto di vista. 
Magari c'è di meglio ogni tanto, Boris. Ma consolati con la volpe: c'è sempre di peggio! La morale della favola: non ti sottovalutare. Hai ottenuto tutto.




Bradipo

sabato 8 ottobre 2011

Processi di sostituzione

[216]
Mi viene il sospetto che i discorsi dei postini precedenti altro non siano che una parafrasi della storia della volpe e dell'uva.

Anche se fosse?

Vorrebbe dire che il malcontento ha stimolato il mio pensiero a costruirsi una linea difensiva capace di resistere anche ad attacchi provenienti dall’interno.

Da prima assai che smettessi di scrivere musica, mi andavo preparando un’attività ‘seconda’ che mi permettesse di sostituire quella primaria di ‘compositore’. L’aggancio con quest’ultima era assicurata dalla pratica compositiva (poi promossa a culturale) di base, già iniziata nel ventennio precedente. Dalla pratica culturale di base si è sviluppata nel corso degli anni l’Ipotesi metaculturale (IMC) con i molteplici filoni didattici, pedagogici e epistemologici che ormai i frequentatori di questi postini conoscono. IMC e attività derivate hanno un po’ alla volta e oggi definitivamente e anche emotivamente rimpiazzato la composizione musicale. Il cammino è del tutto analogo a quello poc’anzi descritto. IMC, una renarrazione de “La volpe e l’uva”.

Il risultato mi induce a vedere in questi processi di sostituzione uno dei più efficaci strumenti produttivi a nostra disposizione.

venerdì 7 ottobre 2011

E io ho insistito caparbiamente


L'insistenza del trasporto verde/blù, di Judith Krause e Shelley Sopher (2007)
[215]
Sì, è vero, a un certo punto ho deciso di smettere (di scrivere musica) ma a ottant'anni suonati ed era già da molto che il calo delle forze si era fatto sentire e anche la speranza di raggiungere il livello "del più modesto dei Lieder di Schubert" era ormai tramontata. E io ho insistito caparbiamente.

Eppure, a cose fatte, non mi dispiace di aver insistito e di aver conservato la testimonianza di tutto un percorso che, se anche non mi ha portato dove mi sarebbe piaciuto arrivare, non mi ha neanche lasciato ai piedi del colle e mi ha permesso di capire quanto occorre per arrivare all’agognato livello.

A dire il vero, non ho mai desiderato di raggiungere un particolare livello, né alto né basso, perché non ‘credo’ nei livelli, soprattutto non credo abbia senso aspirare a quello raggiunto da un altro. Più sensato, aspirare al proprio. Ma questo non lo conosciamo prima di averci provato fino in fondo. E la conoscenza del livello raggiunto da altri non ci serve che di stimolo per innalzare il nostro. E anche l’insoddisfazione che ci assale più o meno regolarmente non la misuriamo sugli altri – anche se così crediamo– ma su noi stessi. Senza conoscerlo, ‘sentiamo’ però quale il nostro livello massimo e il malcontento ci deriva dal non riuscire a toccarlo che assai raramente. Solo a pochissimi è dato di potersi mantenere per lunghi tratti al loro rendimento ottimale. Sciocco rammaricarsi di non essere tra quei pochi.

giovedì 6 ottobre 2011

Non ne sono che il coronamento

214]
Una domanda
Se non sei del tutto convinto di quello che fai, se addirittura non ti piace "come il più modesto dei Lieder di Schubert", perché hai continuato a farlo per una vita intera?

Una risposta
Perché a ogni nuovo inizio ho sperato che fosse la volta buona e mi sono detto: se non è questa sarà la prossima. E così sono andato avanti riempiendo man mano un armadio.

Una riflessione
E ho capito che l’esperienza umana non è fatta solo di eccellenze, anzi, queste non ne sono che il coronamento, sotto il quale c’è il sostegno di migliaia di travi, faticosamente accostate e cementate perché alla sommità non resti traccia di quella fatica.

mercoledì 5 ottobre 2011

Il mio allontanamento dalla nobile arte dei suoni

[213]
In questi giorni Patrizia Conti sta aggiornando il catalogo pubblicato nel libro L'Utopia possibile di Giorgio di Martino, e questo mi dà l'occasione di riguardare le mie composizioni dal 2003 al 2009, anno in cui ho smesso definitivamente l’attività musicale dopo che, nel 2006 l’avevo già interrotta per un anno. Anche se non sono più in grado di leggere la musica al pianoforte, mi rendo ancora conto di ciò che vedo scritto. Così vedo con chiarezza il lento declino delle mie capacità inventive negli ultimi anni, declino che mi sembra giustifichi appieno la mia decisione di smettere. Non so pronunciarmi sulla mia ‘inventiva’ precedente, so solo che, comunque stessero le cose, il declino c’è stato, accentuato ancora nei due anni di ‘falsa ripresa’. La disaffezione per il comporre ha radici lontane, rintracciabili fino negli anni Novanta, quando ho cominciato a dubitare seriamente, non tanto e non solo di me come compositore, ma, assai più in generale, della musica come espressione autonoma della società. Che la musica sia espressione, oltreché del singolo, anche della sua cultura di appartenenza, è opinione ormai corrente; meno chiaro è invece il grado di autonomia che le compete, soprattutto nella fase di massificazione culturale (e di appiattimento delle diversità sul modello euroamericano) che il mondo intero sta attraversando. Non è la prima volta che fenomeni di universalizzazione linguistica si dànno nell’occidente europeo, come anche in altre parti più o meno ampie del nostro globo. Quanto alla musica, basta ricordare il medioevo cristiano o l’età della polifonia rinascimentale o la koinè settecentesca. La novità che mi fa guardare con molto maggior sospetto la koinè rock-pop dei nostri giorni e la collusione con l’industria e il mercato. Comunque, una buona parte dei miei dubbi sulla musica dei giorni nostri ricade su di me, sulla mia incapacità ad accettarla e sulla conseguente, progressiva disaffezione negli anni recenti. Non so se attribuire a questa disaffezione il calo di capacità cui accennavo poc’anzi, o viceversa. Può infatti essere che la crescente difficoltà, anche tecnica, a trovare soluzioni compositive che mi soddisfacessero sia alla base del mio allontanamento dalla nobile arte dei suoni, sulla cui perdurante ‘nobiltà’ ci sarebbe non poco da dire.

martedì 4 ottobre 2011

Temporalità autoferrotramviaria della 'città eterna'

[212]
Nelle fotografie di altri tempi siamo spesso attratti da oggetti su cui non avremmo pensato di fermare la nostra attenzione. Così l’altra sera, scorrendo le immagini di una Roma scomparsa, ci ha colpito una grossa locomotiva a vapore che Thomas non aveva visto per così dire ‘in natura’, di cui però gli avevo parlato più volte. Indotti da questa fortuita immagine, il nostro interesse si è rivolto in genere ai veicoli da trasporto dei decenni passati. Dai tram a cavalli siamo passati a quelli a trazione elettrica, ai vari modelli di autobus, alle automobili delle varie case produttrici, alle biciclette, fino ai compressori stradali, le macchine dei vigili del fuoco e così via. Così per esempio mi sono riaffiorati alla memoria i numeri e le sigle di linee di trasporto urbano oggi indicate in tutt’altro modo, ma soprattutto con tutt’altro percorso. Alcune collegavano il centro a una periferia che nessuno oggi qualificherebbe più come tale, altre ci davano addirittura l’illusione di condurci ‘fuori’, in aperta campagna. Ci si liberava dalla città semplicemente prendendo un dramma; ormai essa ci insegue come un felino la sua preda.

lunedì 3 ottobre 2011

Ancora della Roma scomparsa


Scorcio di Villa Ludovisi, Walter Crane (1875)
[211]
Che cosa ci colpisce di più in una città scomparsa? Certo non le parti che non lo sono. Nel caso di Roma, per esempio, non le chiese e non il Campidoglio o i grandi palazzi nobiliari del cinque-seicento (benché anche questi ci appaiano diversi per il diverso contesto urbano); ma neppure il Foro romano per la sua immobilità millenaria. Ci colpiscono invece le singole mancanze di oggetti che ricordiamo esserci stati come anche la presenza di oggetti non più rintracciabili. Fondamentale è sempre il confronto con il presente. Quando questo per qualche ragione non si istituisce –o perché il tempo trascorso eccede il nostro ricordo, o perché il mutato contesto non lo sollecita– cala la componente emotiva e subentra una ricostruzione solo razionale. Così non posso rimpiangere la splendida Villa Ludovisi, che ho conosciuto solo in immagine, ma potrei oppormi, per analogia, a chi volesse distruggere Villa Doria per speculazione edilizia.

In poche parole, il confronto con il passato può convincerci di quanto sia migliore, più vivibile il presente. Allo stesso tempo dovrebbe servire a farci consapevoli del prezzo pagato per questa migliore vivibilità. E il prezzo, c’è da sospettare che stia diventando troppo alto.

domenica 2 ottobre 2011

Roma scomparsa


La valle del Colosseo, circa 1880
[210]
Ogni cosa cambia fisionomia nel tempo, tant'è che, anche a distanza di pochi anni, stentiamo a riconoscerle o non le riconosciamo affatto. Tanto più quanto più rapidi sono i cambiamenti che le vicende storiche portano con sé e quanto più i luoghi ci sono famigliari. Abbiamo Thomas e io appena scorso su un sito internet alcune serie di fotografie di ‘Roma scomparsa’ risalenti da mezzo secolo a un secolo e mezzo fa. Stante il mezzo secolo che ci divide, le nostre relazioni sono state alquanto diverse: alcune immagini, che per lui non erano che una curiosità archeologica, per me erano pezzi di vita vissuta, altre, che per me appartenevano ancora a un presente solo di poco ampliato, per lui erano preistoriche quanto può esserlo lo scheletro di un dinosauro. Alcune foto mi richiamavano alla mente cose e situazioni descrittemi da mio padre e quindi riferibili anche a cento anni or sono.

Per tutti e due, Thomas e me, c’era comunque un tempo irraggiungibile dalla memoria diretta e infinitamente lontano, e un altro tempo più o meno vicino che sapevamo esserci stato. Mentre però il tempo infinitamente lontano era lo stesso per tutti e due, l’altro, quello vicino, era assai diverso, perfino nella parte trascorsa insieme.

sabato 1 ottobre 2011

Distanza culturale, emotiva, sociale, musicale

[209]
Parlando della Wandererphantasie ho accennato di sfuggita ai Ländler, ai Momenti musicali, ma non alle Sonate, che pure sono, per genere e forma, le più affini a quella.

A mio parere, le Sonate schubertiane sono fra le opere difficili a comprendersi del loro autore. Questo non per colpa sua, che anzi vi profonda a piene mani la sua divina ‘semplicità’. La ‘colpa’ del suo grande e idolatrato vicino di casa, le cui Trentadue Sonate, man mano che vedevano la luce, avevano già il posto prenotato sull’Elicona. È difficile immaginare oggetti più diversi raggruppati in raccolte più differenti. Fin dai primi esempi di uno Schubert ancora adolescente, nulla se non la definizione di genere accomuna le sue Sonate a quelle dell’Altro e ciò dimostra quanto foro fuorvianti siano talora tali definizioni.

Non sono questi postini il luogo più adatto per entrare in particolari musicologici. Bastano comunque due orecchie e un minimo di dimestichezza con i due autori e la musica di quegli anni in genere per rendersi conto della distanza culturale, emotiva, sociale, musicale che separa due Sonate che per caso hanno lo stesso numero d’opera 53 – la cosiddetta Aurora o Waldstein di Beethoven e la Sonata in re maggiore di Schubert… o mi sbaglio e di questa distanza oggi ben pochi si accorgerebbero?