venerdì 28 febbraio 2014

Tratta IV.1 – La forma dialogica



Illustrazione di Rayaan Cassiem


[Dialogante 2]                  Mi domando perché ho –abbiamo– scelto per questo ‘progetto’ la forma dialogica.
[Dialogante 1]                  Strano me lo domando spesso anch’io.
[Dialogante 2]                  Forse perché offre dei vantaggi espositivi: spezza una continuità che può risultare difficile da sostenere; in un certo senso permette a chi scrive e a chi legge di riposare…
[Dialogante 1]                  …e di far riposare di tanto in tanto la mente. Questo succede infatti nei dialoghi reali, quando la parola dell’altro, specie se conosciuta o prevedibile ci lascia spazio per pensare alla replica.
[Dialogante 2]                  Ma nel nostro caso la mente è una e il lavoro lo fa sempre lei.
[Dialogante 1]                  Non è necessariamente così. Anche se fittizio, il dialogante vede le cose da un altro punto di vista, il che alleggerisce la pressione che grava sul primo.
[Dialogante 2]                  Spesso poi la struttura dialogica comporta ripetizioni e varianti più o meno codificate di uno stesso concetto, quando non espressioni stereotipate di assenso o dissenso. Il tutto facilita, e non di poco, il lavoro dei dialoganti, cioè dell’unico parlante (o scrivente). Questo è particolarmente evidente nei dialoghi della classicità a cominciare da quelli platonici, dove assai spesso almeno uno dei due dialoganti riempie assai a buon mercato lo spazio riservatogli.
[Dialogante 1]                  Anche nei dialoghi compresi entro lavori teatrali di ampio respiro, la scrittura dialogica, oltreché ovvia nel suo uso, distende nel tempo le sue argomentazioni, favorendone la comprensione da parte del fruitore.
[Dialogante 2]                  E che pensi della forma dialogica inserita in una narrativa come si osserva abitualmente nei romanzi, nelle novelle e simili?
[Dialogante 1]                  Non ho mai scritto romanzi e neppure vere e proprie novelle. Certo, anche le parabole, le storielle e i postini ricorrono spesso al dialogo, ma si tratta per lo più di un espediente che non implica una funzione caratterizzante un personaggio, come nell’epica, grande o piccola che sia. Ricordo che, quando ero più giovane, ero spesso infastidito dalla sovrabbondanza di “disse”, “rispose”, “replicò” ecc. e preferivo un bel saggio filosofico a una pagina di pregevole narrativa (Thomas Mann naturalmente escluso). Capisco che quei termini sono di fatto ineliminabili, e raccomanderei agli odierni narratori di far uso di tutta la loro fantasia per evitarli quanto possibile. 

martedì 25 febbraio 2014

Tratta III.6 – … se fossimo soli al mondo…



[Dialogante 1]                  Sì, è la consapevolezza il nostro fine. Altri mireranno al sapere, al saper fare, noi piuttosto al sapere ciò che si fa, al perché e al come lo si fa. Abbiamo fiducia negli esseri umani e pensiamo che, se sapessero veramente ciò che fanno, molte cose non le farebbero.
[Dialogante 2]                  Molto evangelico. Sei religioso?
[Dialogante 1]                  Se per ‘religioso’ intendi adepto di una particolare religione, dico decisamente di no, se però intendi ‘interessato al perché delle religioni’ le cose cambiano e non ho difficoltà ad ammettere non solo che il problema mi tocca da vicino, ma che sono anche affascinato dalla figura di Cristo, molto meno dalla religione che ne hanno tratto.
[Dialogante 2]                  Chi l’avrebbe tratta?
[Dialogante 1]                  Uomini in cerca di potere. Ma torniamo al nostro progetto.
[Dialogante 2]                  Dì pure al tuo progetto, al quale mi hai associato solo perché non sono altro che una tua finzione letteraria…
[Dialogante 1]                  …come del resto il progetto stesso di un libro “che non scriverò mai”.
[Dialogante 2]                  Dunque il progetto sarebbe –è anzi- il raggiungimento della consapevolezza, dell’autonomia nel pensare e nell’agire.
[Dialogante 1]                  E tu ci credi?
[Dialogante 2]                  A che cosa? Al progetto o al suo raggiungimento?
[Dialogante 1]                  Se ci credessimo veramente, sapremmo anche come realizzarlo. Il guaio è che ci crediamo a troppe condizioni. Per esempio che l’autonomia non costi nulla. Che sia un nostro diritto. Che quella degli altri non intralci la nostra…
[Dialogante 2]                  Forse la parola stessa è autocontraddittoria. Autonomo, etimologicamente è chi si dà da solo le proprie leggi, in altre parole il tiranno.
[Dialogante 1]                  La cosa potrebbe pure andare bene, se fossimo soli al mondo. Ma non lo siamo e sempre meno lo saremo. Già si parla di sette, tra poco di otto miliardi, e otto miliardi di individui autonomi sono certo un bel problema, specie se la loro autonomia si misurerà sugli standard europei o americani.
[Dialogante 2]                  Molti infatti restringono il concetto alla propria persona: io, autonomo, gli altri si arrangino.
[Dialogante 1]                  Forse andrebbe rivisto il concetto di ‘autonomia’. Come anche quello di libertà. Ma di questo ragioneremo un’altra volta.

lunedì 24 febbraio 2014

Tratta III.5 – Improvvisa consapevolezza



[Dialogante 2]                  E qual è questo punto?
[Dialogante 1]                  Ecco, vedi: noi umani facciamo una netta distinzione tra mente e corpo, anche se sappiamo benissimo che l’organo preposto al pensiero è il cervello, una parte del corpo composta, come ogni altra, da cellule. E ci teniamo moltissimo a questa distinzione, tanto è vero che remuneriamo assai diversamente le rispettive prestazioni. Sappiamo anche che ogni attività del corpo è regolata dalla mente, crediamo però che una ve ne sia, appunto il pensiero, esclusivamente esercitata dal cervello.
Orbene, praticando il Feldenkrais, ho spesso l’impressione di pensare, non solo col cervello, ma con l’intero corpo. Mi chiederai cosa produce in me questa singolare impressione: l’improvvisa consapevolezza che anche il pensiero è movimento, non diversamente dal sollevamento di una gamba, anzi è lavoro in quanto deve vincere la resistenza che gli oppone l’inerzia muscolare e non solo quella. Anche la mente conosce l’inerzia, particolarmente difficile da superare.
Il Feldenkrais produce consapevolezza, e questa è particolarmente utile quando, ridottisi, per l’età o per altre cause, gli automatismi che guidano i nostri movimenti sia muscolari che neuronici, abbiamo bisogno di ricostruire le sequenze comportamentali che ci permettono la sopravvivenza.
[Dialogante 2]                  Mi ha colpito la tua metafora di un pensiero realizzato attraverso le connessioni corporee.
[Dialogante 1]                  Non è una metafora. È proprio la sensazione indotta dal movimento reso cosciente dall’autoanalisi, secondo quanto accade nella pratica del Feldenkrais.
[Dialogante 2]                  Se non sbaglio è ciò che da anni state perseguendo come Centro Metaculturale, seppur con altri mezzi.

domenica 23 febbraio 2014

Tratta III.4 – Nessuna parte staccata dal resto





[Dialogante 1]                  Eccoci appena usciti da un’altra delle parentesi che potrebbero alla fine costituire la vera ossatura dei nostri appunti; staremo a vedere. Ma tentiamo ancora una volta di rientrare in carreggiata.
Attualmente sono interessato a un ponte tra me e un metodo di educazione (nel mio caso di rieducazione) corporea che è conosciuto col nome di metodo Feldenkrais. Sono ormai molti anni –non so quanti– che Valentina, operatrice appunto del Feldenkrais, ha in cura la mia mobilità, fortemente regredita negli ultimi tempi.
[Dialogante 2]                  E la cura ti giova?
[Dialogante 1]                  Posso dire con sicurezza che è assai gradita al mio corpo, al quale durante la mia vita non avevo mai dedicato sufficiente attenzione.
[Dialogante 2]                  E perché non l’avevi fatto?
[Dialogante 1]                  Probabilmente per influsso di mia madre che, pur essendo una donna molto bella, ha sempre privilegiato l’educazione mentale a quella corporea.
[Dialogante 2]                  E ora ti sei deciso a prendere in considerazione anche il rivestimento dell’anima?
[Dialogante 1]                  La cosa è più seria di come sembra. A parte il fatto che in molti mi hanno consigliato una cura fisioterapica, sono stato attratto dal Feldenkrais per le sue evidenti affinità con IMC.
[Dialogante 2]                  Come può un trattamento di fisioterapia avere a che fare con una vera e propria filosofia quale si è rivelata nel tempo essere IMC?
[Dialogante 1]                  Anzitutto il Feldenkrais non è fisioterapia, anzi, per certi versi ne è l’opposto.
[Dialogante 2]                  Spiegati meglio.
[Dialogante 1]                  La tradizionale fisioterapia si concentra volta per volta sulle parti sofferenti o invalidate del corpo, isolandole in un certo qual modo dal resto, mente compresa. Nel Feldenkrais nessuna parte del corpo viene considerata solo in sé, staccata dal resto.
[Dialogante 2]                  Un metodo olistico come ce ne sono tanti.
[Dialogante 1]                  Non dico che sia l’unico, dico solo che mi ha convinto per aver coinvolto nel suo ‘tutto’ anche la mente.
[Dialogante 2]                  Qualsiasi metodo olistico ha una sua ‘teoria’ che si rivolge all’intelletto.
[Dialogante 1]                  Probabilmente hai ragione, non sono un esperto di questo campo. Io comunque conosco questa e sulle altre non mi pronuncio. Vorrei però aggiungere che con il Feldenkrais, almeno con l’interpretazione che ne dà Valentina, la comprensione avviene prima nel corpo, poi nella mente, o, meglio, avviene sì nella mente ma dopo che il corpo l’ha percepita. Per esempio, ricordo il nostro primo incontro ‘terapeutico’: steso su un ampio lettino, a occhi chiusi e del tutto rilassato, avverto una leggera pressione sull’alluce destro: “Toh, ho un alluce: lo so, ma in genere non ci penso… e, poco più tardi: ma ho anche altre dita e tutte queste, oltreché esserlo singolarmente, lo sono anche in quanto facenti parte del piede… Forse è così che il neonato un po’ alla volta costruisce l’immagine mentale del proprio corpo…” E così via.
[Dialogante 2]                  Interessante, ma dov’è l’aspetto terapeutico, curativo?
[Dialogante 1]                  Non è tutto qui, ovviamente. Ma fin da principio siamo indotti, non solo a pensare, ma anche a percepire olisticamente, con il particolare sempre collegato al tutto, come se chi ha mal di denti dicesse: mi fa male il corpo nel –o attraverso il, o per mezzo del– dente. E, a pensarci bene, è proprio così.
[Dialogante 2]                  E potrebbe capitare che, per curare un mal di testa, occorre agire su un piede o viceversa: molta medicina orientale, come l’agopuntura, funziona su basi di questo tipo.
[Dialogante 1]                  Non conosco le origini del Feldenkrais, ma non escluderei influenze orientali, ormai diffuse in tutto il mondo, ma un altro è il punto che più m’interessa.

sabato 22 febbraio 2014

Tratta III.3 – Come un principiante



[Dialogante 1]                  Giacché me lo ricordi, in musica la ripetizione –anche letterale- gioca un ruolo essenziale. Assolve per esempio al compito di dare un significato ai termini di un discorso.
[Dialogante 2]                  Ma come, e certi semiologi le hanno addirittura negato la capacità di produrre significati?
[Dialogante 1]                  Forse – ma anche questo è fortemente controverso- se per ‘significato’ si intende un referente esterno al linguaggio*, la ripetizione crea appunto un referente interno che assolve a molte delle funzioni referenziali proprie della parola.
[Dialogante 2]                  Vuoi dire che in musica la semplice riconoscibilità di un elemento produce, a ogni suo riapparire nel contesto, una reazione emotiva analoga alla reazione intellettiva che si prova nel riconoscere una parola?
[Dialogante 1]                  Suppergiù intendo questo. Penso che nell’esperienza musicale la ripetizione ricopra, almeno in parte, il ruolo che nel linguaggio verbale spetta essenzialmente al concetto. Una struttura musicale, resa riconoscibile dalla ripetizione, possiamo dire che ‘diventa concetto’, questo almeno nella nostra tradizione da Beethoven a Mahler.
[Dialogante 2]                  Sarà forse vero entro quei termini culturali; ma non lo è certo né prima né dopo. Per esempio la stessa riconoscibilità non è necessaria nella Neue Musik del secondo Novecento…
[Dialogante 1]                  … che infatti non ha conquistato piena cittadinanza nella cultura musicale moderna…
[Dialogante 2]                  …sulla quale però converrà fare un discorso a parte…
[Dialogante 1]                  … basato però su principi non applicabili ad altri tipi di musica.
[Dialogante 2]                  Credi che ci siano principi ‘universali’ applicabili cioè a ogni tipo di musica?
[Dialogante 1]                  ……… La mia estraneità alle esperienze di avanguardia, mi ha portato fuori strada come un principiante.
[Dialogante 2]                  Anche la tua ‘incrollabile’ fiducia in IMC ti tradisce quando c’è di mezzo l’attaccamento alla tua cultura…
[Dialogante 1]                  Credi che mi dispiaccia?
[Dialogante 2]                  No, per come ti conosco.

* musicale nel nostro caso

venerdì 21 febbraio 2014

Tratta III.2 – Ripetizione 'variata'



[Dialogante 2]                  Vedo che stiamo ripercorrendo fasi già percorse da almeno una ventina di anni. Pensi che ciò sia necessario?
[Dialogante 1]                  Necessario forse no. Utile probabilmente sì, giacché finora quasi nulla è stato pubblicato in materia, e anche l’edizione delle Indagini metaculturali, cui sta lavorando un nutrito staff di operatori, è ancora ben lungi dall’essere conclusa anche nella forma privata oggi prevista.
[Dialogante 2]                  Allora è per questo, per anticipare ciò che le Indagini tratteranno più diffusamente, che sta nascendo questo progetto, tratte.
[Dialogante 1]                  Spero che non sia solo per questo, siamo ancora agli inizi…
In ogni caso, credo molto nelle ripetizioni. Ognuna di esse porta con sé qualche novità, anche solo quella dovuta al tempo che passa e agli inevitabili cambiamenti di prospettiva. Lo diceva già Eraclito: non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume.
[Dialogante 2]                  Eh già: gli antichi avevano già detto tutto…
[Dialogante 1]                  … eppure oggi viviamo ben diversamente da allora. Le nostre ‘ripetizioni’ ci hanno fatto fare molta strada!
[Dialogante 2]                  Avrei detto che tu lo avresti negato…
[Dialogante 1]                  Perché negare l’evidenza? Ci sono molte cose tra cielo e terra che evidenti non sono. E poi non è detto che l’evidenza abbia diritto alla ‘verità’.
[Dialogante 2]                  Shakespeariano?
[Dialogante 1]                  Un’altra ripetizione ‘variata’.
[Dialogante 2]                  Ogni tanto ti ricordi di essere stato musicista.

giovedì 20 febbraio 2014

Tratta III.1 – Repertorio esiguo



[Dialogante 2]                  Cominciamo piuttosto ad occuparci del progetto presente, anche se non aspira ad essere realizzato.
[Dialogante 1]                  D’accordo. Permettimi però di dire che non è che il progetto rifiuti per principio una realizzazione. La ritengo impossibile allo stato attuale per ragioni che non sto a ripetere, ma non la escludo affatto in futuro ad opera di forze più fresche, e allora anche il progetto potrebbe non essere più lo stesso ma essere collegato a questo appunto da un ponte, oppure essere proprio lui questo ponte. Ogni progetto, realizzato o no, può essere considerato, oltreché per se stesso, anche come una tratta, un progetto futuro o collaterale. L’insieme dei progetti e delle tratte, ovviamente variabile a seconda dei punti di osservazione, l’abbiamo chiamato ‘cultura’ o, metaculturalmente, UCL, mentre l’insieme –illimitato- delle culture, presenti o passate, reali o possibili, addirittura impossibili, formerebbe l’universo metacuturale, UMC. Come già detto altre volte, mentre a termini come ‘cultura’, ‘universo’ siamo usi attribuire un certo grado di realtà, alle sigle UCL, UMC e simili conviene assegnare un valore solo metodologico, non essendovi alcun oggetto reale che vi corrisponda.
[Dialogante 2]                  Ma, se le cose stanno così, non potremmo fare a meno di quegli ‘enti inesistenti’ (senza la contraddizione in termini) e servirci unicamente delle parole di uso corrente?
[Dialogante 1]                  Certo che potremmo. Ma, come in matematica i simboli algebrici facilitano enormemente la generalizzazione delle operazioni di calcolo e, in logica, la ricca simbologia grafica quasi riproduce i corrispondenti meccanismi mentali, altrettanto fanno le poche sigle della teoria metaculturale
[Dialogante 2]                  Ma il repertorio di simboli connessi con IMC è assai esiguo. Non potrebbe essere utile un suo ampliamento?
[Dialogante 1]                  Probabilmente sì, e penso che, se ce ne sarà bisogno, qualcuno se ne occuperà.