sabato 27 novembre 2010

Musica e letteratura nell'opera di Thomas Mann


Thomas Mann con su familia en Nidden, 1931 (fotografia de Wikimedia)

Ieri abbiamo menzionato l'articolo di Boris del 1958 ... ma chi lo va a cercare in biblioteca, anche sapendo che è stato pubblicato in Letteratura, rivista di lettere e di arte contemporanea, N. 31-32, Anno VI, Gennaio Aprile 1958, pagine 42 a 53? Risolviamo il problema di brutto. Eccolo qua e buona lettura!


Se il moralista (questo termine in nulla si opponga a quello di artista) Thomas Mann accoglie con tanta larghezza e per di più riconosce, si vanta di accogliere nella sua prosa tanto dello spirito e della tecnica musicale, ciò avviene perché per Mann, ancor più che per Nietzsche, l’incontro con quest’arte è avvenuto proprio sul terreno dell’etica, è stato cioè l’incontro di un grande moralista con l’arte che egli considerava moralmente più ambigua o, più semplicemente, con l’arte che egli considerava più morale. Giacché morale è per Thomas Mann tutt’altro che virtù, non si identifica cioè con i valori moralmente positivi, ma comprende in sé ogni momento anche i loro contrari, vive anzi proprio di questa intima antitesi, i cui termini si confondono talora, ma non si fondono mai in quella sintesi che sarà riservata solamente al concetto di umanità, trascendente la stessa morale.

Che un’arte, non dico quella di un determinato artista, per la quale già una simile valutazione sembrerebbe, a lume di talune moderne tendenze filosofiche, non essere accettabile, ma che tutta un’arte, il concetto stesso di questa venga chiamato a giudizio dal tribunale della morale, può apparire anacronismo, roba da riforma e controriforma, o al massimo da ottocento romantico e reazionario.

Leggere di più ...A questo punto si potrebbe però osservare che, se nella sua indagine sulla crisi del mondo contemporaneo Thomas Mann ne indica costantemente l’origine in quel periodo della storia della cultura tedesca in cui la musica era realmente intesa volta per volta come una filosofia, come una forma della morale, come una espressione del Germanesimo, addirittura come una religione, ciò vuol dire che per lui le cose stanno assai diversamente. Se e vero che Thomas Mann fa assai spesso uso del concetto che della musica aveva elaborato il romanticismo tedesco, è anche vero che in quest’uso si rispecchia proprio l’atteggiamento critico dello scrittore. Più giusto che parlare della musica ‘come l’intende Thomas Mann’, sarebbe dunque parlare della musica ‘come Thomas Mann se ne serve’; ma, giacché solo quest’ultima ha per noi una realtà, mi si perdoni talvolta l’improprietà dell’espressione.

Comunque le considerazioni sui valori morali e positivi e negativi della musica vanno intese nell’opera di Thomas Mann soprattutto in relazione al significato simbolico, più generalmente umano che esse assumono, e non quindi secondo l’orizzonte un po’ ristretto di chi voglia vedere in queste considerazioni una sorta di intrusione del nebbioso mondo della morale nella limpida e cristallina sfera della contemplazione estetica. Anzi, quando ci si convinca finalmente a vedere anche nella filosofia null’altro che una forma di espressione del pensiero umano, valida in sé come espressione e non in rapporto ad una ipotetica verità assoluta, una filosofia sorella dell’arte, da cui si distingua solo per una maggiore accentuazione dell’aspetto speculativo dei problemi di fronte a quello contemplativo, quando infine si voglia includere nella storia del pensiero anche il pensiero degli artisti, e, reciprocamente, considerare anche il pensiero filosofico alla stregua di un’intuizione artistica, allora forse l’idea di un’arte che non viva in un inafferrabile quanto ozioso limbo, sulla cui natura nulla ci è dato di sapere all’infuori di ciò che esso non è, l’idea di un’arte che sia invece nella realtà e viva in una sintesi di tutto ciò che è umano, potrà avere una sua rinnovata attualità, apparirà anzi una necessità assoluta per la sopravvivenza, che altro non si oserebbe sperare, dell’arte stessa.

Più che con il pensiero di Schopenhauer, il quale aveva una grande fiducia nella funzione catartica dell’arte, l’atteggiamento moralistico di Mann nei riguardi della musica ricorda da vicino quello di Nietzsche; solo che Mann era forse di tanto più moralista di Nietzsche di quanto Nietzsche era più musicista di Mann. Durante la travagliata vita del poeta-filosofo dell’ultimo ottocento la musica, pur rimanendo sempre al centro della sua problematica, viene ora esaltata come l’arte suprema, liberatrice dello spirito, ora condannata come arte anticlassica, decadente, moralmente sospetta, e questo in un susseguirsi di alti e bassi, di difese e tradimenti, che lasciano intendere quanto poco anche per lui, Nietzsche, la musica vivesse confinata nel limbo dell’estetica. Egli divideva, del tutto nello spirito del suo tempo, una musica dell’Ethos (prima di Beethoven) da quella del Pathos (dopo Beethoven, raggiunge il suo culmine con Wagner). La prima rifletteva gli stati d’animo nella loro astratta genericità, la seconda i moti dell’animo, le passioni, nelle loro determinazioni individuali. Una vera problematica, una morale nella musica esiste già per Nietzsche in fin dei conti solo in questa seconda fase; e giustamente, perche solo con il Romanticismo questa problematica prende coscienza di sé, si pone come tale, in definitiva solo con esso comincia ad esistere.

Abbiamo già notato come anche per Thomas Mann la musica come problema coincida con la musica romantica; così anche per Mann la valutazione morale, ora positiva ora negativa, della musica segue le tappe della sua critica al Romanticismo tedesco, o, più generalmente, al Deutschtum. A differenza però di Nietzsche, quando Thomas Mann arriverà con il «Doktor Faustus», a tirare le somme della sua critica, non tenterà più di trovare una scappatoia alla musica, un Bizet da opporre ad Adrian Leverkühn, ma travolgerà tutto, musica, tradizione romantica e Deutschtum, nell’apocalittico incendio del suo ‘Crepuscolo degli dei’.

Fin dal suo primo apparire nell’opera di Mann, la musica sta nel segno dello spirito, incapace, nella sua aristocratica solitudine, di riconoscersi alla vita, è cioè l’espressione di quell’estremo raffinamento spirituale che accompagna ogni processo di decadenza. Nella storia dei Buddenbrooks la musica è legata al nome del piccolo Hanno, cui manca ormai ogni forza vitale, che sa di essere l’ultimo e vuole anche esserlo; e prima ancora alla sfuggente figura della madre di Hanno, Gerda, che è come il simbolo della sottile forza disgregatrice che agisce nella famiglia di Thomas Buddenbrook.

Ma spirito, si è detto, è incapacità di vivere; lo spirito si manifesta quindi nella vita come debolezza, come anormalità, come malattia. Così un altro elemento fondamentale, ambiguo forse ancor più dei precedenti, viene ad unirsi alla musica, o, ciò che è lo stesso, all’arte, in quel sistema di relazioni concettuali che forma la «kleine Welt» del giovane Thomas Mann. Oltre la malattia, anche l’elemento erotico ne è fin da principio parte integrante. Così in un punto della storia dei Buddenbrooks, quando il piccolo Hanno si trova a suonare davanti a tutta la famiglia la sua Fantasia per pianoforte con la cadenza finale alla Wagner: quella sottile e trepida voluttà che lo pervade nei pochi istanti in cui la tensione armonica raggiunge il suo culmine e Hanno riesce a prolungarla ancora di una frazione di secondo sul tremolo dell’accordo estremo... non ha forse un carattere tipicamente erotico, di un erotismo infantile, inconsapevole, che tende a risolversi in se stesso, come ciò che Felix Krull bambino chiamerà «die grosse Freude»?

Ma solo con la novella «Tristan» musica malattia ed erotismo si fondono in un unico clima decadentistico, da cui però Thomas Mann stesso rimane, non in ultimo grazie alla estrema sorvegliatezza del suo stile, criticamente distaccato. La funzione erotica che la musica del Tristano, del resto in pieno accordo con la sua natura, esercita sulla coppia Detlev Spinell - Gabriele Klöterjahn, o meglio la funzione di simbolo per il loro Eros, sembra già rivestire un carattere moralmente negativo. La musica è sì ancora e sempre dalla parte dello spirito contro la vita, ma qui anche lo spirito non viene risparmiato dalla pungente ironia di Mann, che in questa novella si compiace di colpire indistintamente ambedue le forze rivali, quasi con questa critica abbia voluto prepararsi il terreno per la sintesi futura.

Nelle «Betrachtungen eines Unpolitischen» Mann tenta, parallelamente alla grande battaglia di ritirata del Deutschtum di fronte alla politica e alla democrazia, anche l’ultima difesa dello spirito contro la vita; ma, proprio combattendo per quelle idee che lo avevano accompagnato durante tutto il suo sviluppo dalla prima gioventù fino alla maturità, egli giunge a superarle.
E la musica? È singolare come la musica non segua il destino dell’arte letteraria, ma rimanga tra le cose che Thomas Mann ha superato, o crede di aver superato, con le «Betrachtungen». Già in queste è detto: «Das Verhältnis der Musik zur Humanität ist so bei weitem lockerer, als das der Literatur, dass die musikalische Einstellung dem literarischen Tugendsinn mindestens als verdächtig erscheint»[1]. Ancora naturalmente l’animo dell’autore e per la musica, avverso al «literarischer Tugendsinn», per l’etica contro l’estetica, e infatti: «...ist sie (die Musik) nicht wirklich die eigentliche moralische Kunst, welche Kunst ist eben dadurch, dass die Moral in ihr zur Form wird, und die vorzugsweise der Deutsche von jeher ‚als eine Tugend und Religion’ getrieben hat — das deutsche ‘l’art pour l’art’?»[2] . Ma morale non è virtù: lo spirito non vuol aver nulla a che fare con la humanitas: «Geist ist vielleicht nichts als Hass und keineswegs Humanität, Solidarität, Fraternität»[3], l’arte nulla con la virtù: «... die Kunst steht mit der Tugend auf keinem guten Fuß»[4]. Solo alla luce della sua posteriore conversione ad un ideale di humanitas, queste e simili affermazioni si intendono nel loro preciso valore morale: la humanitas di Thomas Mann sarà le mille miglia distante dalla piatta retorica della virtù, quale egli la deride nel Zivilisationsliterat; sorgerà invece da una profonda e complessa esperienza morale che ha voluto accogliere anche e soprattutto ciò che e moralmente ambiguo o addirittura negativo. Ma il progressivo distacco dal mondo della musica, cioè del romanticismo, dell’intimismo tedesco, della decadenza, della nostalgia di morte, sembra essere per Mann più che un ripudio, una rinuncia in senso goethiano; e la forza moralmente positiva si rivela proprio in questa rinuncia.

Nello «Zauberberg» compare ancora la musica; ma, nonostante le bellissime osservazioni su singole opere musicali, l’arte dei suoni è messa chiaramente in rapporto con un mondo moralmente assai dubbio. Per l’illuminista Settembrini essa è: «... das halb Artikulierte, das Zweifelhafte, das Unverantwortliche, das Indifferente ...»[5]; e non suonano quasi un lontano preannuncio del «Faustus» queste parole di Settembrini: «Die Kunst ist sittlich, sofern sie weckt. Aber wie, wenn sie das Gegenteil tut? Wenn sie betäubt, einschläfert, der Aktivität und dem Fortschritt entgegenarbeitet? Auch das kann die Musik, auch auf die Wirkung der Opiate versteht sie sich aus dem Grunde. Eine teuflische Wirkung, meine Herren! Das Opiat ist vom Teufel, denn es schafft Dumpfsinn, Beharrung, Untätigkeit, knechtischen Stillstand ... Es ist etwas Bedenkliches um die Musik, meine Herren. Ich bleibe dabei, dass sie zweideutigen Wesens ist?»[6]

Certo la figura di Settembrini e derivata da quella dello Zivilisationsliterat delle «Betrachtungen», cioè dell’antagonista di Mann in quel periodo. Tuttavia gli anni che separano le «Betrachtungen» dall’apparizione dello «Zauberberg» hanno mutato l’atteggiamento di Mann verso il Zivilisationsliterat dall’avversione alla comprensione, dal sarcasmo all’ironia.

Così ora Thomas Mann non è più del tutto dalla parte della musica contro il Zivilisationsliterat. Egli comprende la sua antipatia per la musica perché ne comprende le cause. Ancora una volta Thomas Mann mostra la singolare tendenza a lasciare immutata la posizione reciproca degli oggetti della sua indagine critica, ma a spostare gradualmente il suo punto di vista lungo tutto un semicerchio, sino a fargli raggiungere il punto opposto a quello di partenza. La musica infatti, nonostante il giudizio morale su di essa sia già alquanto cambiato, rimane sempre legata ai concetti di romanticismo, di conservatorismo, di Deutschtum, alla Stimmung di malattia, decadenza e morte, in breve a tutto ciò che costituiva fin dall’epoca dei «Buddenbrooks» la «kleine Welt» del primo Mann. Il «Lindenbaum» di Schubert, di cui si parla più di una volta nell’ultima parte del libro, e si «eine Lebensfrucht», un frutto della vita, ma «vom Tode gezeugt und todesträchtig»[7]. Mann riconosce ora, e non lo avrebbe riconosciuto all’epoca dei «Buddenbrooks» e nemmeno delle «Betrachtungen», che la malattia, la decadenza e la morte, di cui in quel Lied è come il presentimento, debbono diventare oggetto di superamento, di «Selbstüberwindung». «Ja, Selbstüberwindung, das mochte wohl das Wesen der Überwindung dieser Liebe sein»[8]. Nella «Selbstüberwindung» Mann riconoscerà d’ora in poi la grande lezione morale di Nietzsche. Simbolo del mondo da superare è la musica, la musica romantica, qui un piccolo Lied di Schubert, altrove l’imponente opera di Richard Wagner. Thomas Mann non smentirà mai il suo amore per questo mondo; anzi, quanto più la sua coscienza glielo mostrerà nell’incerta luce del dubbio e anche il suo amore gli apparirà quasi una colpa, tanto più egli sentirà di essere legato ad esso, tanto più avvertirà la propria corresponsabilità, e così anche in quel tremendo atto di accusa che è il «Doktor Faustus» egli preferirà coinvolgervi se stesso, piuttosto che rinnegare quel mondo.

Nelle Storie di Giuseppe la musica non può trovar posto. Nonostante le ovvie ragioni storiche, si sarebbe tentati di porre in relazione questo con il fatto che nel Giuseppe Thomas Mann è forse meno moralista che altrove, giacché questa sua opera vive in una atmosfera di altissima umanità, al di là della stessa morale.

Ma quando, con incredibile trapasso, il clima tra apollineo ed ermetico, come distaccato dalla realtà storica contingente, del Giuseppe, si trasmuta in quello demoniaco e storicamente scottante del «Doktor Faustus», la musica e con essa il problema morale tornano a campeggiare sulle rovine di un ideale di umanità distrutto da un mondo incapace di intenderlo.
Lo spirito, che si era unito alla vita nella sublime sintesi intravveduta da Castorp e realizzata da Giuseppe e dal Goethe del «Lotte in Weimar», rinnega ancora una volta in un infinito peccato di superbia la sua compagna. Ma una negazione delle forze positive della vita può tramutarsi in una affermazione delle forze negative di essa: così si rende possibile il patto con il diavolo. La musica, che sta oggi sotto il segno dello spirito, è divenuta impossibile, è il simbolo della impossibilità di vita per lo spirito orgogliosamente chiuso in se stesso. Anche la musica per esistere ha bisogno di legarsi alle forze della vita.

Mann dà una sola soluzione: quella di Leverkühn. La musica di Leverkühn sta in un rapporto colpevole con la vita; è legata alle forze che la negano, alla morte; nascerà in collaborazione con il demonio. Adrian Leverkühn cerca la redenzione da questa sua colpa in una estrema intellettualizzazione della musica, nella sottomissione totale dei suoi mezzi di espressione al potere ordinante dell’intelletto. Ma quanto più egli confida nelle sole forze dello spirito, tanto più il suo legame con le potenze negative della vita si stringe. Il «Weheklag Doktor Fausti» sarà l’opera che, al di là della razionalizzazione integrale del suo linguaggio, avrà riconquistato la libertà dell’espressione; sarà il lamento di un uomo che ha finalmente realizzato il «Durchbruch», ma il «Durchbruch» verso la negazione, verso la morte, e fissa ora lo sguardo disperato nell’eterno nulla.

Che non sia Thomas Mann a vedere così il problema dei rapporti tra spirito e vita e dimostrato in primis dalla ben diversa soluzione datane nel Giuseppe e nel «Lotte in Weimar», in secondo luogo dal fatto che egli nel «Doktor Faustus» analizza proprio le conseguenze di un tal modo di vedere e non esita a condannare il suo protagonista. Ma, se l’analisi critica si rivolge di fatto a tutta la cultura tedesca romantica e postromantica, non appartiene forse Thomas Mann stesso a questa cultura? Non ha difeso egli, in tempi passati certo, ma con opere che sarebbero vissute bene a lungo oltre quei tempi, lo spirito, la musica, l’idealismo romantico, in una parola il Deutschtum? E tuttora, non è forse il Faustus un monumento, una celebrazione senza precedenti della problematicità tedesca, quand’anche sotto forma di accusa, anzi, proprio grazie a questa forma, anche un riconoscimento della natura profondamente morale (morale non e virtù) di questa civiltà? E Adrian stesso non ha forse molti caratteri comuni con Thomas Mann, tanti quanti ne ha il buon Zeitblom? Infine il libro stesso non ha in tutto e per tutto la forma estremamente intellettualizzata delle opere di Leverkühn? Non è Mann colpevole dello stesso egocentrismo?

Qui si rivela l’aspetto più profondo di Thomas Mann moralista: in questa tendenza a comprendere tra gli oggetti della sua analisi critica anche la propria opera e se stesso in una specie di pubblica resa dei conti, in un gesto di Ecce homo. Così il «Doktor Faustus» ha anche una sua funzione pedagogica: come nel Giuseppe l’umanità è raggiunta attraverso la chiarificazione del mondo dell’inconscio alla luce della ragione e della coscienza, così nel Faustus la salvezza, se salvezza ci può essere al di là di ogni speranza, si identifica proprio con la assoluta consapevolezza del peccato. Nel «Doktor Faustus» non vi è nichilismo, come talvolta e stato detto; i concetti di Dio, amore e grazia non vengono eliminati con frivoli sofismi, bensì sottoposti alla radicale critica del nostro tempo, della nostra cultura. È chiaro che una parte di questa critica è anche quella di Thomas Mann: ma le conseguenze di essa sono nella loro terribilità la migliore prova della sua colpevolezza di fronte alla morale e alla umanità. Il libro ci si presenta quindi anche come una severa critica all’ipercriticismo del nostro tempo.

Che la musica appartenga per sua natura in gran parte al regno dell’irrazionale, che cioè abbia in sé una forza che sfugge al controllo della ragione, è stato espresso più volte e in vari modi da Thomas Mann fin dall’epoca delle «Betrachtungen eines Unpolitischen». Ora la sua ambiguità viene per così dire oggettivata, da un lato nella completa razionalizzazione dei mezzi tecnici, dall’altro nella irrazionalità dei risultati espressivi, simboleggiata dal patto con il diavolo. Pur essendo più che mai la musica partecipe del mondo della morale, la valutazione morale di essa oscilla sempre più verso il polo negativo.
Adrian Leverkühn mostra fin da giovanissimo un critico disprezzo per il rapporto diretto che la musica ha con i sensi, per questo suo «calore vaccino», e invoca a raffreddarlo il potere ordinante della ragione. L’arte che sente i suoi legami con il sensibile come una colpa e che aspira a purgarsene in una ascetica spiritualità (la stessa vita di Leverkühn sarà quella di un asceta) è quindi ancora l’arte di cui è detto nelle «Betrachtungen» «dass die Moral in ihr zur Form wird», l’arte morale appunto perché sintesi di peccato e penitenza. In questa sintesi, così diversa da quella luminosa del Giuseppe, è un aspetto fondamentale del «Doktor Faustus».

Essa ci riporta ad un’epoca in cui i concetti di peccato e penitenza, merito e grazia, condanna e redenzione, paradiso e inferno. Dio e diavolo erano al centro del pensiero degli uomini e ne dirigevano le azioni. Non più il mondo mitico della Bibbia tanto lontano nel tempo da non aver quasi più un suo tempo, bensì il mondo relativamente recente del medioevo e della Riforma protestante, trasportato per giunta nell’epoca nostra, rivissuto alla luce dell’esperienza romantica e contemporanea. Il binomio musica e morale si trasforma qui, coerentemente al carattere trascendente del pensiero medioevale e luterano, in musica e teologia e anche nel suo contrario, musica e demonologia. Ma teologia e demonologia subiscono ora un processo di secolarizzazione, si direbbe di riassorbimento nella sfera dell’umano, sotto l’azione di quel fermento tutto moderno che è la psicologia. Eppure nel libro ben poco è rimasto del potere di redenzione che Thomas Mann aveva altre volte riconosciuto alla psicoanalisi di Freud. Come nel Giuseppe, così anche nel «Doktor Faustus», Mann scende profondamente nel mondo dell’inconscio: ma questa volta il tentativo di conquistare all’umanità quel mondo non porta alla salvezza, ma alla perdizione. Adrian è la controfigura di Giuseppe. Un nuovo mito viene creato ed interpretato ad un tempo: il mito dello spirito che nel suo sfrenato orgoglio vuole affermare se stesso oltre i limiti che separano l’umano dall’extraumano; il mito di un superuomo che per superbia rifiuta il concerto di grazia e di perdono e sfida l’eterna bontà a misurarsi con il suo incommensurabile peccato. Adrian Leverkühn giunge così sino a voler accentrare su di sè tutte le colpe del suo popolo e, ancor più, di tutta l’età sua. La figura mitica del capro espiatorio ha una sua nuova incarnazione: infatti Adrian ha molti tratti in comune con Gesù Cristo, quand’anché per il tramite di Nietzsche. Il «Durchbruch» di Adrian dalla solitudine dell’io all’umanità si compie proprio al momento in cui egli diviene pienamente consapevole di questa sua funzione mitica e prorompe in un lamento che è anche il lamento dell’umanità del suo tempo, del nostro tempo.

Nel libro assistiamo al confluire e al confondersi di valori moralmente positivi e valori moralmente negativi, sì che spesso gli uni trascolorano nei loro contrari ed alcuni concetti, come quelli di grazia e di tentazione, assumono un significato del tutto insolito, si direbbe opposto al loro significato abituale. Così anche la musica, che secondo Lutero era «Un dono di Dio, bello e generoso, affine alla teologia» e che ancora nelle «Betrachtungen eines Unpolitischen» è considerata, se non come un dono divino, tuttavia come una «espressione in suoni dell’etica protestante», nel «Doktor Faustus» è ormai vicina alla demonologia, è anzi legata in un patto metafisico con il diavolo.

Quando Adrian, abbandonata la via laterale della teologia, sta per darsi interamente alla musica, egli scrive all’amico e maestro Kretzschmar: «Sie halten mich für berufen zu dieser Kunst und geben mir zu verstehen, ‚dass der Schritt vom Wege’ zu ihr gar groß wäre. Mein Luthertum stimmt (monosillabo) dem dazu, denn es sieht in Theologie und Musik benachbarte, nahe verwandte Sphären, und persönlich ist mir obendrein die Musik immer als eine magische Verbindung aus Theologie und der so unterhaltenden Mathematik erschienen. Item, sie hat viel von dem Laborieren und insistenten betreiben der Alchimisten und Schwarzkünstler von echemals, das auch im Zeichen der Theologie stand, zugleich aber in dem der Emanzipation und Abtrünnigkeit, nicht vom Glauben, das war gar nicht möglich, sondern im Glauben; Abtrünnigkeit ist eine Art des Glaubens, und alles ist und geschieht in Gott, besonders auch der Abfall von ihm»[9].

Ho riportato per intero questo passo, perché lo considero estremamente indicativo per intendere i rapporti tra teologia, demonologia e musica, come si configurano nel «Doktor Faustus» di Thomas Mann. Di qui al patto con il diavolo non è che un passo. Le parole decisive sulla musica oramai non saranno più dette da Adrian stesso, ma dal suo diabolico interlocutore ed alter ego.

In che rapporti sta il diavolo con la musica? A metà circa del suo colloquio con Adrian in casa Manardi egli prende a parlare di problemi musicali, dapprima in veste di critico e teorico, analizzando con acume e conoscenza la odierna crisi del linguaggio musicale.. Ma ben presto egli scopre le carte: «Eine hochtheologische Angelegenheit, die Musik −wie die Sünde es ist, wie ich es bin ... Nein, musikalisch bin ich schon, lass das gut sein. Und da hab ich dir nun den armen Judas gesungen von wegen der Schwierigkeiten, in die, wie alles heut, die Musik geraten. Hätt ich es nicht tun sollen? Aber ich tat es doch nur, um dir anzuzeigen, dass du sie durchbrechen, dass du dich zur schwindlichten Bewunderung deiner selbst über sie erheben und Dinge machen sollst, dass dich das heilige Grauen davor ankommen soll»[10].

Ecco la promessa, la vera promessa del demonio: non il tempo, i ventiquattro anni, semplici e vuoti, ma un tempo infernale in cui egli, e il diavolo solo lo può, gli renderà possibile l’impossibile. La musica di Adrian nascerà dal faustiano patto con il diavolo. Ma il diavolo non è il signore della critica, per quanto dimostri di saperla esercitare assai bene, forse anche meglio di Mefistofele; egli è il signore dell’entusiasmo, dell’ebbrezza, della rinnovata barbarie, che è barbarie due volte perchè viene dopo l’estrema raffinatezza, una barbarie che s’intende di teologia, conosce la passione mistica, ha il gusto dell’avventura proibita, una barbarie che nasce da una cultura decaduta dal culto, che ha creduto poterlo rimpiazzare con il culto di se stessa ... Qual è la contropartita che il diavolo chiede, o meglio che ha già chiesto e ottenuto da Adrian Leverkühn? Naturalmente, secondo la buona tradizione, la sua anima. Ma il demonio è geloso, aggiunge al patto una clausola del tutto nuova e antitradizionale: Leverkühn non dovrà amare. Il perché di questa clausola: il patto è stato contrassegnato proprio da un atto di amore, non il sangue è stato il suo suggello, ma il sottile veleno di una malattia erotica. Tornano in questo particolare del patto altri due dei motivi fondamentali dell’opera di Mann: la malattia e l’erotismo, ancora una volta uniti alla musica. Così il microcosmo, la «kleine Welt» del giovane Mann è di nuovo al completo, ma sì presenta ora con una ricchezza di intrecci e di interrelazioni tra i suoi elementi, quale non era stata in alcun altra sua opera. Tutto il libro è una grandiosa ‘ripresa variata’, composta sotto la spinta di una straordinaria coscienza critica e autocritica; in particolare il discorso del diavolo è uno dei momenti più alti, per arte e per potenza di pensiero, di tutta l’opera manniana, raggiunto con una elaborazione nuovissima di motivi vecchi ormai di parecchi decenni.

Nel «Doktor Faustus» la musica è più che la sola espressione della intima tragedia di Leverkühn; essa è, o meglio la maniera come Adrian l’intende è il simbolo, l’essenza del suo peccato e del patto diabolico. Ogni altra rivelazione della demonicità di Leverkühn è in fin dei conti secondaria: così il destino di Ines, così la morte di Rudi, così la straziante fine del piccolo Echo. È vano rilevare la irrazionalità di certi rapporti tra i personaggi (in più punti del «Doktor Faustus», infatti, l’irrazionale affiora alla superficie, nonostante la severa razionalità della costruzione), giacché questi rapporti vanno considerati come una proiezione sul piano della realtà di ciò di cui la musica è la rappresentante sul piano del simbolo, quasi una sorta di esemplificazione. La musica è il vero peccato di Adrian, perche per essa egli ha rinnegato la sua umanità.

L’atteggiamento di Thomas Mann nei riguardi della musica è, come abbiamo visto, di natura più etica che estetica. E questo non solo nel periodo giovanile della sua produzione, ma anche al tempo del grande romanzo della vecchiaia. La straordinaria padronanza che egli ha della materia, la conoscenza precisa delle difficoltà intime tra le quali la musica conduce oggi la precaria sua vita, non impedisce che il suo interesse sia sempre rivolto ad una sfera di superiore umanità. Così, a loro volta, le verità morali ed umane che si fanno strada in una lotta difficile e quasi disperata attraverso tutto il libro, potrebbero essere di valido aiuto anche per la vita ulteriore, se non per la rinascita, della musica. Siamo infatti giunti ad un punto dove non è più possibile andare avanti con sole considerazioni estetiche. Oggigiorno un’arte che si perda nell’idea di un’estetica disinteressata e che quindi voglia vivere solo di se stessa e solo in se stessa, una tale arte soffocata da un’aria che essa stessa ha reso irrespirabile, è non solo moralmente ma anche fisicamente perduta. In un primo momento l’arte, conquistata con l’idealismo romantico la sua indipendenza, ha celebrato i suoi trionfi in un titanismo ingenuo e narcisistico. In seguito, occupandosi sempre più di se stessa e dei suoi problemi, e divenuta critica, ipercritica, ed ha perso la sua ingenuità. Il moderno Faust è Adrian Leverkühn, lo speculatore dello spirito.

Come potrà la critica ridiventare arte? Come potrà avvenire il «Durchbruch» dell’arte verso l’umanità? Mann ci dà una soluzione negativa: la musica di Adrian è «eine christliche Kunst mit negativem Vorzeichen», il suo rapporto con il mondo è la negazione di esso. Questa via conduce alla rovina, alla morte. È stata la soluzione data in politica dal nazismo ed è ancor oggi una soluzione accettata implicitamente da molti circoli artistici d’avanguardia. Il «Doktor Faustus» è l’atto di condanna per essa. Un’arte morale con il segno positivo non compare nel libro; ma, tenuissimamente, come la speranza oltre l’ultima nota del violoncello nell’opera disperata, risplende anche nel «Doktor Faustus» una luce: essa, nel momento in cui Adrian Leverkühn in tutto ciò che non ha fatto riconosce il futuro di un’arte riconquistata all’umanità, ci fa intravvedere per un attimo la via della liberazione e della salvezza. Lasciamo ancora una volta la parola al grande scrittore: «Die ganze Lebensstimmung der Kunst, glauben Sie mir, wird sich ändern, und zwar ins Heiter-Bescheidenere, − es ist unvermeidlich, und es ist ein Glück. Viel melancholische Ambition wird von ihr abfallen und eine neue Unschuld, ja Harmlosigkeit ihr Teil sein. Die Zukunft wird in ihr, sie selbst wird wieder in sich die Dienerin schon an einer Gemeinschaft, die weit mehr als ‚Bildung’ umfassen und Kultur nicht haben vielleicht aber eine sein wird. Wir stellen es uns nur mit Mühe vor, und doch wird es das geben und wird das Natürliche sein: eine Kunst ohne Leiden, seelisch gesund, unfeierlich, untraurig-zutraulich, eine Kunst mit der Menschheit auf du und du... » .


NOTE
[1] Betrachtungen eines Unpolitischen (S. Fischer Verlag, 1919) pag. l1. «Il rapporto della musica con la humanitas è tanto più labile di quello della letteratura, che la posizione della musica appare al letterario senso della virtù almeno come sospetta».
[2] Ib., pag. 308 «... non è essa (la musica) forse in verità l’arte più propriamente morale, che e arte appunto in quanto in essa la morale diventa forma, e che particolarmente il tedesco ha sempre praticato ‘quasi una virtù e una religione’: ‘l’art pour l’art’ dei tedeschi?».
[3] Ib. pag. 319. «Spirito non è forse altro che odio e per nulla affatto umanità, solidarietà, fraternità ».
[4] Ib.. pag. 395. «... l’arte non su in buoni rapporti con la virtù ».
[5] Der Zauberberg (S. Fischer Verlag, 1950). pag. 156. «... qualcosa dì semiarticolato, di dubbio, di irresponsabile, di indifferente ...».
[6] Ib,, pag. 158. «L’arte è morale in quanto sveglia. Ma come se essa fa il contrario? Se stordisce, addormenta, si oppone all’attività e al progresso? Anche questo sa fare la musica, anche degli effetti degli oppiacei essa s’intende in fondo. Un effetto diabolico, miei signori! L’oppio è del diavolo, perché genera ottusità, inerzia, inattività, immobilità servile... È qualcosa che dà da pensare, la musica, miei signori. Io rimango della mia opinione, che essa sia di natura equivoca».
[7] Ib., pag. 931. «Generato dalla morte e pregno di morte».
[8] Ib., pag. 931. «Sì, autosuperamento, questa era forse l’essenza del superamento di questo amore».
[9] Dottor Faustus (Suhrkamp Verlag 1947) pag. 208-209. «Lei mi ritiene chiamato a quest’arte e mi fa intendere che la deviazione non sarebbe poi tanto grande. Il mio luteranesimo è d’accordo con lei, poiché vede nella teologia e nella musica territori vicini e molto affini, e oltre a ciò la musica è sembrata sempre a me personalmente un’unione magica di teologia e di matematica divertente. Essa contiene inoltre una parte considerevole di quell’insistente sperimentare e indagare a cui si dedicavano gli alchimisti e i negromanti di una volta che pure stavano sotto le insegne della teologia, ma nello stesso tempo sotto quelle dell’emancipazione e dell’apostasia: era infatti apostasia, non già dalla fede, che sarebbe stato impossibile, ma nella fede. L’apostasia è un atto di fede e tutto è e accade in Dio, anche il distacco da lui» (Traduzione di Ervino Pocar).
[10] Ib. pag. 384-85. «Faccenda molto teologica, la musica, come lo è il peccato, come lo sono io ... Oh, in quanto a essere musicale, lo sono, sta’ pur tranquillo. Ecco, ora ti ho recitato la parte del povero Giuda, per via delle difficoltà nelle quali, come tutto il resto, è incappata oggi la musica. Non avrei forse dovuto farlo? Eppure l’ho fatto, soltanto per annunciarti che tu le devi infrangere, queste difficoltà, che devi sollevarti fino alla vertiginosa ammirazione di te stesso e comporre cose tali da suscitare in te un sacro orrore». (Traduzione di Ervino Pocar)

Ancora il Doktor Faustus

Gustav Mahler, fotografiado en la playa del Zuiderzee, cerca de Valkeveen, en los Países Bajos (marzo 1906)

Come ben sapete, Boris sente una enorme ammirazione per Thomas Mann e specialmente per il Doktor Faustus, al quale già dedicasse quasi sessanta anni fa la sua tesi di laurea (a proposito, qualcuno l'ha vista? diremo -non senza rubore- che è andata persa degli archivi Porena ormai un po' di anni fa).

Questo interesse poreniano continua a stimolare ricerche e studi. Il più recente, un articolo di Dario Peluso su
Testo e Senso, Il romanzo della musica: Arnold Schönberg e Gustav Mahler nel Doctor Faustus di Thomas Mann. Siccome Dario ha lavorato anche con Boris durante la sua ricerca, abbiamo pensato di lasciargli la parola, affinché lui stesso vi racconti come è andata la vicenda.

Su invito di Fernando proverò a raccontare come l'incontro con Boris abbia fortemente condizionato il mio modo di leggere l'opera di Thomas Mann e di ascoltare la musica di Gustav Mahler: rinuncio fin da subito ad essere sintetico, l'argomento merita un saggio a sé, quindi siate tolleranti per favore! Leggere di più ...
«“Il romanzo della musica”: Arnold Schönberg e Gustav Mahler nel Doctor Faustus di Thomas Mann» è un saggio uscito sulla rivista online Testoesenso.it nei primi di settembre, e a cui ho iniziato a lavorare qualche mese fa, nel periodo in cui frequentavo il corso di «Metodologia e storia della critica letteraria» tenuto dal prof. Raul Mordenti con la collaborazione della prof.ssa Elisabetta Orsini, persone affabili e decisamente molto pazienti, che mi hanno sostenuto durante tutto il periodo della stesura. È stata proprio la prof.ssa Orsini a passarmi «Musica e morale nell'opera di Thomas Mann», un saggio del 1958 in cui Boris affronta alcune questioni cruciali del Doktor Faustus in modo estremamente originale. Nelle linee generali lo scritto accetta la lettura, assai diffusa in quegli anni, secondo cui la vicenda di Adrian Leverkühn, il protagonista del romanzo, sarebbe paradigmatica del declino della Germania verso il nazismo e la barbarie, e rappresenterebbe il rifiuto delle avanguardie schönberghiane da parte di Thomas Mann; anche se la ritengo una lettura parzialmente inesatta, ciò non toglie nulla alla bontà delle singole intuizioni di Boris.

Innanzitutto, egli coglie (anticipando di almeno dieci anni l'importantissimo saggio Asor Rosa, Thomas Mann o dell'ambiguità borghese) l'attitudine manniana a rappresentare l'ambiguità della borghesia tedesca, riferimento morale dell'Ottocento europeo eppure allo stesso tempo assediata dall'incombente barbarie nazista: perciò, secondo Boris, l'incontro di Mann con la musica (romantica, aggiungo io), arte tedesca per eccellenza, è stato

«l'incontro di un grande moralista con l'arte che egli considerava più ambigua o, più semplicemente, con l'arte che egli considerava più morale. Giacchè morale è per Thomas Mann tutt'altro che virtù, non si identifica cioè con i valori moralmente positivi, ma comprende in sé ogni momento anche i loro contrari, vive anzi proprio di questa intima antitesi, i cui termini si confondono talora, ma non si fondono mai in quella sintesi che sarà riservata solamente al concetto di umanità, trascendente la stessa morale».

E ancora:
«Non è forse il Faustus un monumento, una celebrazione senza precedenti della problematicità tedesca, quand'anche sotto forma di accusa, anzi, proprio grazie a questa forma, anche un riconoscimento della natura profondamente morale (morale non è virtù) di questa civiltà?».

Con la Prima Guerra Mondiale il borghese -che per Mann rappresenta più di una categoria: la borghesia tedesca di fine Ottocento è lo spirito tedesco– ha varcato un confine invisibile, oltre il quale l'ambiguità inesorabilmente cristallizza, sterile, nell'ideologia.
Boris scrive dell'ultima opera di Leverkühn, la Lamentatio Doctoris Fausti:

«Sarà il lamento di un uomo che ha finalmente realizzato il “Durchbruch” [generalmente tradotto con «irruzione»], ma il “Durchbruch” verso la negazione, verso la morte, e fissa ora lo sguardo disperato nell'eterno nulla».

Eppure, riconosce un bagliore di speranza nel conclusivo sol dei violoncelli, nella Lamentatio, che apre a un «mondo di temerario sentimento nuovo». Ora, come avevo scoperto tempo prima, leggendo il Mahler di Adorno, questo sol è programmaticamente estratto da Mann dal finale della Settima di Mahler, e non è difficile notare una certa affinità tra l'ambiguità della musica mahleriana e l'atteggiamento manniano – lo stesso Thomas Mann espresse la sua ammirazione per l'arte del compositore viennese: quando andai a trovarlo a Cantalupo, Boris ammise sinceramente di non aver mai riflettuto su questa vicinanza spirituale tra Mann e Mahler di cui gli parlavo, inoltre era passato molto tempo e la tesi di laurea era andata perduta (per due volte..!), ma fu d'accordo con me nel constatarla e si rammaricò di non aver conosciuto la musica di Mahler al tempo in cui scriveva la tesi su Thomas Mann. Fu un grande incoraggiamento, che mi spronò a continuare su quella strada, e ritengo tuttora il saggio un lavoro efficace.

Un'ultima annotazione: oltre all'osservazione sull'ambiguità borghese, che non so se fosse originale o di seconda mano, un altro passo del saggio di Boris –forse anch'esso di seconda mano? - è confluito nel testo di Alberto Asor Rosa.

Scrive Boris:
«La musica di Adrian nascerà dal faustiano patto con il diavolo. Ma il diavolo non è il signore della critica, per quanto dimostri di saperla esercitare assai bene, forse anche meglio di Mefistofele; egli è il signore dell'entusiasmo, dell'ebbrezza, della rinnovata barbarie» (p. 51).

Scrive invece Alberto Asor Rosa:
«L'elemento demoniaco dell'arte moderna non consiste a suo avviso [di Thomas Mann] in un'accentuata predisposizione alla critica. La critica, per quanto corrosiva, è un prodotto dell'intelligenza umana e quindi un elemento solare, che porta con sé luce. Il Diavolo al contrario, dà quel sovrappiù di calore nell'ispirazione, ­ “la trionfante superiorità, la brillante mancanza di scrupoli”, senza il quale l'arte moderna non potrebbe mai trovare il coraggio d'uscire dalla sua nicchia silenziosa e di arrivare fino al punto di generare» (p. 151).

Dario Peluso, Novembre 2010

venerdì 26 novembre 2010

Come favorire un pensiero autonomo?


Una
Plathemis lydia perde per sempre la sua autonomia, ahilei, sotto la ferocia di una Trioria interrupta - sempre una meravigliosa fotografia di Thomas Shahan

I dubbi su cose che si pensavano risolte una volta per tutte rinascono per così dire a ogni passo. Così come l’altra volta quelli sulla democrazia. Ed eccomi ancora a chiedere il vostro parere sulla necessità di coniugare democrazia e autonomia del pensiero. È possibile l’una senza l’altra?

E come conservare questa autonomia nell’era del trionfo mediatico?

Siamo stati formati in tal senso a fronte dei continui attacchi mossi attraverso i media da gruppi di potere economico, politico, ideologico, religioso?

Chi dovrebbe favorire, se non garantire, lo sviluppo generalizzato di un pensiero autonomo, e come? Credo che il problema meriti qualche riflessione.

giovedì 25 novembre 2010

Non sono un politico né un giornalista

Due splendidisimme Cicindela Scutellaris, completamente incuranti della notizia, il gossip e Sanremo, si rifocillano autonome, allegre e colorate - immagine di Thomas Shahan, scattata a Oklahoma

Non sono un politico né un giornalista, tante cose quindi faccio fatica a capirle. Così per esempio sento quasi tutte le forze politiche rifarsi al concetto di democrazia senza mai chiedersi se, perché questa diventi effettiva, non siano necessari alcuni prerequisiti, come una –relativa– autonomia del pensiero individuale. E, ancora, se questa autonomia può sopravvivere nel nostro universo mediatico basato sulla notizia, il gossip, Sanremo. Che cosa significa il consenso, altra parola chiave della politica, quando a ottenerlo è sufficiente un Berlusconi?

martedì 23 novembre 2010

Problemi musicali - Postino annuncio


Si sta definendo in questi mesi un progetto di pubblicazione, intitolato Indagini Metaculturali, che vorrebbe presentare, per la prima volta in modo organico, l’evoluzione del pensiero metaculturale sviluppato da Boris e collaboratori. Questo progetto spazia su 35 anni -dal 1975 al 2010- e includerà venticinque opere selezionate per la loro capacità di illustrare tappe cruciali di questo percorso. Ad oggi, il progetto prevede di strutturare queste opere in sette volumi.


Essendoci in questi giorni a Cantalupo Oliver Wehlmann, abbiamo ragionato su quale sia il ruolo della musica in questo pensiero, onde prendere le opportune decisioni editoriali. Anche se Boris non vede sé stesso esclusivamente (forse neanche prioritariamente), come musicista, ci sembra che una presentazione completa di questo percorso richieda prendere in considerazione un certo numero di opere principali specificamente musicali.

Intendiamo organizzarle nel Volume II, sotto il titolo per ora provvisorio di Problemi musicali. Dalle discussioni di questi giorni è inoltre emerso che esse appartengono a due strati differenti:


a) prodromi specialistici della parte centrale del percorso complessivo, cioè dello sviluppo dell’Ipotesi Metaculturale. Stiamo parlando di opere ancora oggi note negli ambienti della didattica musicale, cioè di

  • Kinder Musik (1973), scritto prima delle esperienze di base, come tentativo di innovazione didattica, proponendo una ‘didattica di scoperta’,
  • Musica Prima (1978), scritto all’inizio degli anni Settanta, basato su “La musica nella scuola dell’obbligo” (edita da Pro Musica Studium, diretta da Domenico Cieri). Forse il testo didattico più conosciuto di Boris, fornisce la prima traccia dell’esperienza musicale di base,
  • Per la Composizione (1983), testo professionalizzante che si rivolge a studenti di composizione.

b) due opere che rappresentano conseguenze (di largo spettro, dallo specialistico all’amatoriale) di questo percorso, ossia

  • Musica riflessa (1992, riorganizzato radicalmente nel 2010), saggio sull’analisi musicale metaculturale, che include una selezione di saggi analitici poreniani pubblicati nei decenni precedenti,
  • Del comporre (2006), ultima tappa del percorso iniziato con Musica Prima.

Per la strutturazione definitiva di questo progetto di Volume abbiamo previsto un’incontro di discussione, aperto alle persone interessate (del quale informeremo opportunamente in questo oblò), che si terrà tra Febbraio e Marzo di 2011. Verrà condotto da Oliver Wehlmann e Alberto Pezza, con la partecipazione di Boris Porena.

sabato 20 novembre 2010

Postino del forse (uno)


Perché un solo postino e non una serie, come sembrerebbe più logico?
Perché la logica non c’entra, basta il buonsenso. A non voler essere dogmatici (e io non vorrei), il forse andrebbe apposto a ogni nostra asserzione, positiva o negativa, a costo di cadere nel dogmatismo del forse (da cui ci salverebbe comunque IMC). Quindi credo sia sufficiente quest’unico postino con l’avvertenza di applicare il forse non sistematicamente ma solo su richiesta.

giovedì 18 novembre 2010

SÌ all’ideologia della parità


Ancora un appello all’ideologia: il colmo per uno scritto metaculturale. Che IMC si stia sgretolando? Non credo si tratti di questo. Del resto, IMC non va intesa come un no alle ideologie. Sappiamo benissimo che qualsiasi nostra affermazione (o negazione) poggia su basi culturali, cioè ideologiche. L’importante è che ce ne rendiamo conto, cosa non certo contraddetta dalla collocazione di questi sì nella presente raccolta.
All’uguaglianza nella diversità ho già dedicato il postino n° 16 dopo averne già accennato nel n° 14. Questa terza riproposizione fa pensare a qualcosa come un’idea fissa, che giustificherebbe un’immagine un po’ oleografica di me come persona equilibrata, aliena ad opposti estremismi. Non posso fare nulla contro questa immagine che non condivido. Ma che forse condividerei se mi vedessi dall’esterno.
La novità rispetto ai postini precedenti è l’ammissione che il sì alla parità tra gli uomini è ideologico, cioè può essere in ogni momento contraddetto da un altrettanto squillante no. E poiché in questa stessa raccolta (n° 4) si plaude alla ricerca di convergenze, siamo invitati a ricercarla anche in questo caso. Il trucco verbale per raggiungerla l’ho già esposto al n° 16. Ora però vorrei tentare una via meno artificiosa, praticamente percorribile nei casi concreti.Leggere di più ...Il problema è del tutto generale: il termine solitamente usato è compromesso, ma ha delle risonanze negative che lo rendono poco affidabile. Si pensa a uno scambio di concessioni che non soddisfa nessuna delle parti in causa, tanto è vero che spesso gli accordi definitivi non arrivano mai e si resta allo stadio di compromesso finché questo non tiene più e si riaprono le ostilità. Come sappiamo, è un lusso che non possiamo permetterci, quindi conviene prolungare il lavoro di confronto fino alla piena soddisfazione reciproca. Ciò non vuol dire che ciascuna parte raggiunga in pieno l’obiettivo di partenza, ma che questo si sposta a mano a mano che cresce la comprensione per gli obiettivi altrui.
Come si comprendono gli obiettivi di un altro?

C’è solo un modo: per mezzo della decentrazione. Fintantoché ognuno osserva la situazione dal solo punto di vista suo non vi è parità di riguardo e le cose che vediamo non sono le stesse. Perché lo diventino occorre
1. che le relativizziamo al punto di vista da cui le guardiamo,
2. che analizziamo questo punto in base ai parametri di convenienza per le parti,
3. tra questi parametri alcuni ve ne saranno di pari convenienza per ambedue le parti,
4. altri lo saranno anche molto al di là delle parti,
5. si formerà una gerarchia a partire dei punti 4. e 3.,
6. a seguire si prenderanno in considerazione anche i parametri specificamente convenienti alle singole parti e si valuteranno in subordine a 4. e 3.
Commenti ai punti.
1. è forse il più difficile da realizzare per le sacche di assolutismo tuttora presenti nel mondo (religioni, ideologie, ignoranza ...),
2. la dissezione analitica che qui si propone va fatta per quanto possibile obiettivamente, escludendo cioè una valutazione di equità sociale,
3. altro criterio di difficile attuazione per la difficoltà di valutare il concetto di ‘pari convenienza’; e comunque essenziale il superamento di questo punto se si vuole attuare la decentrazione necessaria alla costituzione della ‘parità ideologica’,
4. criterio, questo, su cui è più facile la convergenza: per esempio saranno in molti a sottoscrivere il punto della ‘sopravvivenza’,
5. l’attuabilità di questo punto dipenderà sostanzialmente da quella di 3.
6. l’attuabilità di questo punto dipenderà sostanzialmente da quanto riusciremo a subordinare 6. a 4. e 3.
fine della serie dei postini del sì

martedì 16 novembre 2010

SÌ all’ideologia della sufficienza


Fermarsi al ‘quanto basta’. Nell’avere, nel crescere, nel desiderare, ma anche nel consumare, nello spendere, nell’investire; e nell’essere, nell’apparire, nel comunicare ...
Ma quando è che basta?
Non c’è un limite oggettivo la cui osservanza ci si imponga con perentorietà. Il quanto basta non siamo noi a stabilirlo né alcun altro. Allora è un generico invito alla moderazione, al quale siamo liberi di rispondere a piacere o meglio secondo coscienza?Leggere di più ...Vorrei però che piacere e morale restassero ambedue fuori gioco per fare agire solo la ragione, che in casi come questi offre maggiori garanzie di equilibrio. Ma la ragione trova in sé stessa queste garanzie o deve cercarle altrove?
La risposta che dò lungo tutti questi postini e anche negli altri scritti è sempre la stessa e non pecca davvero di originalità: la sopravvivenza, ma non in quanto tale (non sappiamo infatti se il quanto basta sia sufficiente a farci sopravvivere) ma in quanto ideologia, cioè fedeltà a un impegno che potrebbe anche non bastare.

domenica 14 novembre 2010

SÌ alla polverizzazione del potere


Un sì che richiede qualche chiarimento.
Alla separazione dei poteri –legislativo, esecutivo, giudiziario– ci ha abituato la nostra Costituzione. Altri divisioni sono immaginabili e anche attuate, come tra poteri religiosi, civili, militari, ma una polverizzazione equivarrebbe a riconoscere solo il potere su sé stesso, quasi escludendo qualsiasi forma di organizzazione sociale: un’anarchia totale difficile addirittura a immaginarsi. Simmetricamente ad essa troviamo l’assoggettamento –anch’esso totale– a un potere centrale assoluto, come nel governo del Re Sole o nel comunismo di Stalin. In questi casi l’anarchia assoluta è riservata al centro, l’unico punto a non essere soggetto ad alcun potere esterno. D’altro canto questo potere centrale ha tutta la debolezza dell’autoreferenza in logica: si dissolve non appena, in mancanza di scambio con l’ambiente, ha consumato le sue energie interne. Leggere di più ...Polverizzazione dei poteri dà l’idea dell’annientamento del potere stesso quale si ha per esempio all’interno delle società di insetti –api, formiche, termiti– presso le quali l’assenza di una gerarchia (re, regina, soldati, operaie non sono che l’umanizzazione di funzioni assolte istintivamente senza investitura di potere) produce per converso formidabili manifestazioni di potere, sia costruttivo che distruttivo, all’esterno.
Non è neppure questo ciò che intendo con il termine, forse non felice, di polverizzazione. Penso piuttosto a un potere talmente suddiviso che a ciascuno tocchi solo la parte che egli esercita su sé stesso e questa parte, anziché potere, la chiamerei piuttosto responsabilità.

venerdì 12 novembre 2010

SÌ all’uguaglianza nella diversità


“Gli uomini sono tutti uguali?”
“Gli uomini sono tutti diversi?”
Ad ambedue le frasi si può –forse si deve– rispondere con un sì.
Data l’opposizione di significato tra uguaglianza e diversità, l’unione di quelle frasi produce contraddizione, non è quindi logicamente accettabile. A meno che i due aggettivi non vengano associati a campi semantici diversi: per esempio uguali nei diritti, diversi per aspetto. Se però, come spesso si fa, li si assolutizza, la contraddizione è inevitabile. Lo è veramente?Leggere di più ...In millenni di uso la parola si è fatta scaltra. Chi, la parola o noi che l’usiamo? O l’abbiamo inventata proprio per permetterci un uso scaltro?
Riproviamo:
“Gli uomini sono tutti diversi?”
Sì.
“Se sono tutti diversi, vuol dire che sono uguali nell’essere diversi.”
...
Questo insulso tra i postini ha lo scopo di mettere in guardia gli ingenui dal dare troppo credito alle parole.

mercoledì 10 novembre 2010

SÌ al capitale come ‘strumento per ...’


Non c’è forse bisogno ch’io ribadisca il mio no al capitalismo, perché traspare da tutto ciò che vado facendo e dicendo da una quarantina d’anni. A ogni buon conto ripeto qui quanto già detto nel postino n˚ 15 della serie del no: “Non identifico capitale con capitalismo e considero il secondo come l’anima ideologica del primo e preferisco attenermi alla solidità corporea piuttosto che all’evanescenza dell’anima” tanto più, –aggiungo– che questa evanescenza lo è assai poco sul piano politico-economico o, se lo è, ha delle ragioni che con l’anima hanno poco a che fare.Leggere di più ...Se ora ricupero il concetto di ‘capitale’ per questi postini del sì è solo dopo averlo deideologizzato e ridotto a semplice strumento per ... realizzare ciò di cui l’individuo e la società hanno bisogno. Non tutto, quindi, ciò di cui hanno bisogno, ma solo quella parte –che ritengo minoritaria – ottenibile mediante il capitale. Probabilmente per ogni cosa che si voglia ottenere sarà necessario l’intervento del capitale, ma solo in appoggio ad altri fattori, primi fra tutti il lavoro, la ricerca, l’inventiva, l’interesse per la cosa e solo secondariamente per il guadagno che se ne può ricavare.
Moralismo, richiamo all’onestà?
Non sono incline a questo genere di motivazioni, anche se ne riconosco la validità. Le ritengo comunque insufficienti per promuovere il pensiero come l’azione. Il guadagno invece costituisce in molti casi il motore principale, che di fatto gira a vuoto, capace solo di alimentare sé stesso. Certo, non è per nulla indifferente ciò che il capitale, incrementato dal guadagno, permette di fare. Pensiero e azioni possono essere visti anche essi come strumenti per ... e la valutazione si concentra nuovamente sul per ... Se però a questo per ... facciamo seguire ancora guadagno, il cerco si chiude su quello che gli antichi chiamavano circolus vitiosus e l’unica cosa che se ne ricava con certezza è l’amaro in bocca.

lunedì 8 novembre 2010

SÌ all’equilibrio (dinamico, non statico) nei rapporti di forza


L’equilibrio, come qui l’intendo, si nutre del suo contrario, non raggiunge cioè mai la condizione dell’essere, ma sempre e solo quella di un divenire oscillante intorno a una posizione immaginaria perché mai assunta per un tempo finito. Niente di nuovo, solo la descrizione parafrasata del moto pendolare. Neppure l’applicazione generalizzata di questo modello alla realtà fenomenica è nuova: qualsiasi moto circolare –e nell’universo i moti circolari si osservano ovunque– è facilmente riconducibile a un moto pendolare (oscillatorio), basta proiettarlo su una retta. Meno consueto è l’uso di questo modello al posto di quello per punti con cui siamo soliti rappresentare lo spazio in cui viviamo. Leggere di più ... La descrizione per punti, immaginati come localizzabili attraverso assi cartesiani, cede a una per intorni circolari di raggio variabile, entro i quali la probabilità di incontrare il punto che li rappresenta è sempre uguale a 1, ma mai ulteriormente definibile in termine spaziali. Non mi intendo di geometria né di altri modelli spaziali, penso comunque che anche un modello del genere sia stato ampiamente studiato. Probabilmente anche applicato in biologia, e, forse, in politica. In tal caso mi scuso dell’ovvietà.

sabato 6 novembre 2010

SÌ al potere come fattore di regolazione


Questo sì sembra contraddire i molti no che la mia predisposizione all’anarchia ha espresso molte volte contro il potere in quasi tutte le sue manifestazioni. A salvarmi dall’accusa di incoerenza c’è giusto quel quasi, di cui tuttavia non c’è da fidarsi troppo. Così il potere, interpretato dal ‘come’ di questo postino, è lo stesso di quando diciamo il ‘potere della Roma imperiale’ o il ‘potere della classe imprenditoriale’ o il ‘potere della Chiesa Cattolica’? Non è facile distinguere ma conviene cercare di farlo.Leggere di più ... Il potere del Presidente della Repubblica nel nostro ordinamento è certo più simile al potere giudiziario che a quello legislativo delle Camere; il potere di un generale non è lo stesso in tempo di guerra che in tempo di pace; il potere del ‘capo famiglia’ è assai diverso nelle varie culture; il potere della ‘regina’ nella società delle api non ha nulla in comune con l’omonimo concetto in uso presso le società umane. Le parole non bastano a distinguere mentre spesso distinguono dove non serve. Non vanno quindi adoperati fideisticamente, nella convinzione che anche il nostro interlocutore attribuisca loro lo stesso significato che gli attribuiamo noi. E proprio su questa plurivocità (o ambiguità) di fondo si basano sia la ricchezza espressiva del linguaggio verbale sia la sua capacità di mentire pur dicendo il vero. Ne sa qualcosa la giustizia dei tribunali, dove è frequente che un cavillo giuridico condanni un innocente e assolva un colpevole. Ma gli stessi concetti di ‘colpa’ e ‘innocenza’ sono a tal punto labili che la loro applicazione ben raramente (o forse mai) incontra un consenso unanime.
È a questo punto che interviene il potere come fattore di regolazione, un potere al servizio non tanto della giustizia quanto delle regole che dovrebbero rappresentarla. E come mai la debolezza di questo condizionale ci convince a dare l’assenso a una interpretazione del ‘potere’ relativizzata alla instabilità di una ‘regola’?
Più che una risposta, un ulteriore incentivo alla riflessione lo troviamo nel postino precedente. Una regola stabile, assoluta non ammetterebbe che l’assenso incondizionato e renderebbe assoluto anche il potere che l’amministra. E poiché nell’ottica qui rappresentata non hanno luogo gli assoluti, non ci resta che dire sì a un potere non asservito a regole assolute ma fattore di regolazione.

mercoledì 3 novembre 2010

SÌ al rispetto della finitezza


SÌ al rispetto della finitezza
È una considerazione su cui mi capita spesso di ritornare, così anche in questa serie di postini a proposito dell’avere (vedi n° 8). Ritengo la finitezza qualità essenziale di tutto ciò che possiamo esperire, a cominciare da noi stessi; è quindi ‘naturale’ il rispetto per essa. Rispetto a cui troppo spesso veniamo meno, sia nella speculazione filosofico-religiosa sia nella progettazione pratica. Un chiaro esempio ce lo offrono, a parte le religioni, le fedi nel progresso e nella crescita infinita dell’economia, fedi tutte –religione in testa– che, se non sapremo relativizzarle, apriranno le porte a una fine prematura. Questo ha di buono, infatti, la finitezza, che pure essendo connaturata a ogni nostra esperienza, non ne stabilisce la fine, permettendosi addirittura di sognare il suo contrario, l’infinito, e magari anche di costruire su di esso un’immagine utopica di realtà. Non penso che tale immagine vada distrutta, ma neppure che la si debba caricare di una concretezza per lei insopportabile. La rozzezza di un realismo applicato all’utopia sta affrettando la nostra finitezza, che quindi si trova aggredita da due parti: dalla stoltezza delle fedi e dalla nostra incapacità a mantenere distinto lo statuto di utopia da quello di realtà.

lunedì 1 novembre 2010

SÌ allo studio del vivente e delle sue esigenze


In una trattazione più ampia e meno frammentata questo e il precedente postino avrebbero dovuto apparire congiunti. Non vedo infatti come la materia vivente potrebbe essere disgiunta da quella che non lo è. Credo che la caratteristica che chiamiamo vita sia un’emergenza relativamente tardiva della materia, tale da non alterarne significativamente la struttura a livello molecolare o atomico. Ciononostante, fenomenicamente c’è differenza tra un gatto e un sasso, al punto di giustificare uno studio differenziato.Leggere di più ...In particolare la materia vivente –dal paramecio all’elefante– per mantenere questa sua caratteristica ha delle particolari esigenze che bisogna conoscere e osservare, se si vuole, appunto, mantenergliela. Queste esigenze variano da specie a specie, alcune però sono comuni a tutte. Nessuna, per quel che se ne sa, prospera nel nucleo incandescente di un corpo celeste; sembra che tutte abbiano bisogno di acqua. Uno studio attento dei viventi ci permetterà di avere qualche compagno di viaggio nel nostro vagabondaggio per lo spazio. Uno studio attento di noi stessi potrebbe mantenerci ancora per qualche tempo alla finestra della nostra navicella spaziale. Sempre che siamo interessati a restarci.