lunedì 30 giugno 2014

Tratta XV.4 – Decisi di esperimentare…



[Dialogante 2]  La libertà consiste nell’autocontrollo?
[Dialogante 1]  Mi aspettavo che dicessi: forse. Comunque il ‘forse’ è assai più formativo del sì e del no. Spinge a pensare di più, a indagare oltre, pur sapendo che il pensiero non supererà mai lo stadio del forse.
[Dialogante 2]  Ed è bene che sia così. Il sì e il no bloccherebbero il pensiero che dal conto suo vorrebbe trovare sempre nuove strade come se le strade ci fossero e non fosse lui –il pensiero– a costruirle.
[Dialogante 1]  È la stessa storia delle tratte. Vie e tratte sono opera nostra e sono rese possibili dagli stessi ‘forse’ che il cervello ci crea a ogni domanda che si pone.
[Dialogante 2]  E perché li ricrea?
[Dialogante 1]  Per sopravvivere. Domande e risposte in continua alternanza solo a questo servono: a tenerci in vita. Ideologicamente: a mantenerci degni di lei.
[Dialogante 2]  Ora esageri con la retorica: un po’ di autocontrollo perbacco!
[Dialogante 1]  Ecco: per un poco l’ho scosso e che ne è venuto fuori? una paccottiglia ideologica in cui le parole acquistano senso solo perché sono detti.
[Dialogante 2]  Ma non è capitato solo in questa sede. Ne siamo testimoni pressoché ogni giorno e noi stessi usiamo delle parole a questo modo.
[Dialogante 1]  È già qualcosa se cominciamo a rendercene conto. Questo intendiamo parlando di ‘autocontrollo’. Non certo esprimere un giudizio, neppure quando è palese la sua perdita. Che non tanto è perdita quanto deliberata rinuncia.
[Dialogante 2]  Ricordo una volta – ero ancora un ragazzo di sì e no venti anni e non mi ero ancora mai ubriacato. Decisi di esperimentare il momento in cui si perde il controllo continuando a bere (credo che fosse whisky, che detesto cordialmente): mi sono sentito malissimo, ho vomitato l’anima, ma il controllo non l’ho perso.

domenica 29 giugno 2014

Tratta XV.3 – L'abitudine all'autocontrollo




[Dialogante 1]  La precedente tratta costituisce indubbiamente una parentesi, anche se non è segnalata graficamente.
[Dialogante 2]  Indubbiamente?
[Dialogante 1]  Si fa per dire. Ma quante parole spendiamo ‘così per dire’!
[Dialogante 2]  Forse la maggior parte di quelle che usiamo.
[Dialogante 1]  Vorrebbe dire che le parole non ci servono solo per comunicare…
[Dialogante 2]  … o forse che la comunicazione non serve solo a trasmettere concetti, ma anche, e forse soprattutto, a creare un contatto, ‘un ponte’ che ci faccia colmare la distanza tra noi e il nostro prossimo.
[Dialogante 1]  È la stessa funzione che ha l’ululato dei lupi o il canto degli uccelli.
[Dialogante 2]  Forse non proprio la stessa. Può darsi addirittura che le parole pronunciate ‘così per dire’ siano meno significative del cinguettio di un passero.
[Dialogante 1]  La ‘significatività’ delle parole non dipende solo da queste ma in buona parte dalla situazione al contorno; spesso ci informano su quest’ultima mentre il significato effettivamente espresso dalle parole è tutt’un altro.
[Dialogante 2]  Le informazioni che ci giungono attraverso di esse non si ritrovano nei vocabolari.
[Dialogante 1]  Le parole si ritraggono dietro il loro suono…
[Dialogante 2]  … o anche dietro la gestualità che le accompagna.
[Dialogante 1]  Come dire che regrediscono allo stato di formazione primaria…
[Dialogante 2]  … cioè non finalizzate alla trasmissione di significati.
[Dialogante 1]  Penso che dovremmo badare a questo scendimento…
[Dialogante 2]  … non tanto per evitarlo quanto per farlo rientrare nella funzionalità significante, come credo si faccia nelle scuole di recitazione.
[Dialogante 1]  A questo punto qualcuno dirà: ma lasciateci parlare come ci pare! Liberi almeno nelle parole!
[Dialogante 2]  Forse l’abitudine all’autocontrollo è proprio ciò che ci rende liberi.
[Dialogante 1]  Forse… sempre forse!

sabato 28 giugno 2014

Tratta XV.2 – Una maggioranza



[Dialogante 2]  Il tuo “credo” esprime un dubbio o una certezza? Il verbo ‘credere’ è ambiguo.
[Dialogante 1]  Certo, è strano che lo si sia scelto per affermare il fondamento di una fede.
[Dialogante 2]  Forse non è questo che si vuole affermare ma il nostro atteggiamento nei suoi confronti: c’è una fede e ci sono io che l’affermo.
[Dialogante 1]  L’affermi per te o per tutti?
[Dialogante 2]  E come potrei, essendo io uno, affermarla per tutti?
[Dialogante 1]  Se fosse così, non ci sarebbe nulla da obbiettare. Ma che senso avrebbe affermare un’ovvietà?
[Dialogante 2]  Il fatto di affermarlo presuppone che non sia un’’ovvietà’ e che ci possa essere qualcuno non d’accordo.
[Dialogante 1]  Il punto è: questo qualcuno, per il fatto di non condividere un’’ovvietà’, è da condannare?
[Dialogante 2]  Dipende.
[Dialogante 1]  Da che?
[Dialogante 2]  Da quanto questa ovvietà è condivisa.
[Dialogante 1]  Cioè, se ho capito bene, non da circostanze fattuali, ma dall’opinione di alcuni.
[Dialogante 2]  Quanti debbono essere questi ‘alcuni’ per determinare un’’ovvietà’?
[Dialogante 1]  Certo una maggioranza!
[Dialogante 2]  Quindi toccherebbe prima stabilire quando, in che condizioni un certo numero di persone –quali, quante?– costituiscono una ‘maggioranza’.
[Dialogante 1]  Supponiamo che tutto –numero, condizioni, opinioni, certezze confluiscono in un’accettazione condivisa– che ne concludiamo? che il nostro ‘credo’ abbia perso di ambiguità?
[Dialogante 2]  Se lo avesse fatto avremmo perso la nostra maggiore ricchezza.
[Dialogante 1]  Credi?
[Dialogante 2]  Credo.

giovedì 26 giugno 2014

Tratta XV.1 – La storia l'ha rifiutata…



[Dialogante 2]  Abbiamo sinora parlato di tratte costruite verso il passato. Ci sono o sono immaginabili anche ponti verso il futuro?
[Dialogante 1]  Sono certo immaginabili. Che lo diventino realmente non saprei dire.
[Dialogante 2]  Se consideriamo la parola ‘futuro’ in relazione a un punto del tempo sufficientemente passato…
[Dialogante 1]  Alt! Comincio già a non capire. Che vuol dire ‘sufficientemente passato’? O è passato o non lo è.
[Dialogante 2]  Scusami, ma intendevo dire il passato da un tempo tale che anche il suo futuro, nella misura che qui ci interessa, appartenga anche al nostro passato!
[Dialogante 1]  Questo si chiama parlare chiaro! Comunque ho capito.
[Dialogante 2]  È del tutto normale che certi fatti del passato siano stati preceduti da altri che li hanno resi possibili, e sono questi ultimi che chiamerei ‘ponti’ gettati sul futuro.
[Dialogante 1]  Puoi farmi un esempio o preferisci che te lo faccia io?
[Dialogante 2]  … Democrito, che con la sua visione atomica del reale in particolare con l’ipotesi del dinamou sembra gettare un ponte verso il pensiero scientifico odierno.
[Dialogante 1]  O Beethoven che nelle sue ultime opere sembra precorrere la dissoluzione delle forme classiche e nella Grande Fuga perfino della sintassi e grammatica tonale, quale si verificherà un secolo dopo.
[Dialogante 2]  Ma perché ci sentiamo ambedue in dovere di attutire le nostre affermazioni con quel ‘sembra’, mentre il ‘ponte’ è lì, davanti ai nostri occhi, inequivocabile?
[Dialogante 1]  Sulla sua inequivocabilità ci sarebbe da ridire. Anzitutto che i contemporanei di allora, non conoscendo il futuro, non avrebbero certo parlato di ‘ponte’, semmai di follia, di blasfemia; solo più tardi, a trasformazioni avvenute, si sarebbe potuto parlare di anticipazioni, preveggenza.
[Dialogante 2]  Però, in qualche caso almeno, il futuro è esplicitamente previsto e teorizzato, a cominciare da Wagner[1], poi da innumerevoli ‘Manifesti’, politici e artistici degli ultimi due secoli.
[Dialogante 1]  Che a questi ‘Manifesti’ siano seguite effettivamente delle realizzazioni non è dovuto a un loro potere premonitore, ma alla realtà di chi è venuto dopo. È come se i ‘ponti’ siano stati costruiti dopo esserci passati su.
[Dialogante 2]  Infatti gli autori di quei manifesti vi hanno profuso certo molto più fantasia che preveggenza.
[Dialogante 1]  In più di un caso tuttavia –si veda per tutti il Manifesto del Partito Comunista– i loro contenuti futuribili attendono ancora una scelta adeguata…
[Dialogante 2]  … e si potrà parlare di ‘ponte’ solo se una scelta del genere si verificherà, altrimenti il ‘ponte’ resterà immaginario, tutt’al più fideistico, come i messaggi delle religioni.
[Dialogante 1]  Ma mi hanno detto che il Manifesto sunnominato una sua realizzazione ce l’ha avuta, solo che la storia l’ha rifiutata.
[Dialogante 2]  Ancora due mitizzazioni gratuite: da un lato l’identificazione dell’Unione Sovietica con l’utopia marxista, dall’altro la divinizzazione della Storia come reggitrice delle sorti umane.
[Dialogante 1]  Solo il futuro si potrà dire se il “Manifesto” è o non è stato un ‘ponte’ verso un nuovo modo di convivenza umana o un tentativo fallito…
[Dialogante 2]  … perché fallimentare in partenza o perché divenuto tale in corso d’opera.
[Dialogante 1]  Fino allora qualcuno resterà ancora in attesa.
[Dialogante 2]  Credi?
[Dialogante 1]  Credo.



[1]             Das Kunstwerk der Zukunft (L’opera d’arte del futuro), Richard Wagner (1849-1852).

mercoledì 25 giugno 2014

Numero tondo


Dal 18 Settembre 2008 ad oggi, mille post in questo oblò (ex-blog) di Boris Porena.

martedì 24 giugno 2014

Tratta XIV.6 – Razionalità estrema



[Dialogante 2]  Ora, se permetti, una breve riflessione sul linguaggio musicale, che dopo tutto è il nostro passato. Di questo linguaggio abbiamo quasi sempre parlato –ma anche lo abbiamo praticato– come se fosse unicamente un prodotto razionale senza alcuna partecipazione della sfera emozionale…
[Dialogante 1]  … certo una falsità, anche intesa soggettivamente. Chi ci conosce sa quanto siamo piuttosto al contrario, un eccesso di emotività che ci ha costretto a rifugiarsi dietro un paravento di razionalità per evitare il ridicolo.
[Dialogante 2]  Questo non vale del tutto per l’attività produttiva, che risente spesso di una certa secchezza si direbbe programmatica.
[Dialogante 1]  … Ma non era nostra intenzione parlare di questo, ma, più in generale, nel ruolo dell’emotività nella produzione artistica e nella musica in particolare, che viene spesso invocata come l’arte sentimentale per eccellenza…
[Dialogante 2]  … e tale resterebbe anche nei suoi esempi di razionalità estrema, come L’Arte della fuga o l’Offerta musicale.
[Dialogante 1]  È una valutazione fatta in assenza di strumenti analitici specifici, che tuttavia coincide singolarmente con il dettato della ragione.
[Dialogante 2]  Riesce spesso anche la controprova: così i Lieder schubertiani  che non lasciano nessun ascoltatore con il ciglio asciutto –come Erlkönig o la Winterreise o gli Heine-Lieder–reggono perfettamente alle più severe delle critiche formali.
[Dialogante 1]  Vuoi dire che non c’è contrasto tra la più intensa espressività e il più implacabile rigore di scrittura?
[Dialogante 2]  Ovviamente. Ma c’è coincidenza?
[Dialogante 1]  Direi che la questione è malposta. Ci sono progetti compositivi che includono l’emotività, anche estrema –tipo Amami, Alfredo–, e altri che non l’includono, come appunto L’Arte della fuga, indipendentemente dalla qualità espressiva. C’è una espressività che passa per le ghiandole lacrimali e un’altra che si ritrae prima di raggiungerle.

lunedì 23 giugno 2014

Tratta XIV.5 – La 'luce culturale' giusta…



[Dialogante 1]  Indubbiamente i linguaggi sono le grandi tratte attraverso cui transita il pensiero umano.
[Dialogante 2]  Un po’ magniloquente ma sostanzialmente giusto. Ma come ci raggiungono i linguaggi?
[Dialogante 1]  … Non saprei dire di preciso. Credo che la specie umana abbia da qualche parte del cervello un centro deputato appunto alla ricezione, decodificazione, rielaborazione concettuale dei linguaggi…
[Dialogante 2]  … e non solo di quelli verbali, anche di quelli gestuali, visivi, auditivi.
[Dialogante 1]  Forse la maggior parte dei linguaggi impegnano più o meno tutti i canali sensoriali di cui disponiamo.
[Dialogante 2]  E non si limita certo alla componente sensoriale. Ciò che più conta e l’elaborazione dei dati in arrivo realizzata da varie parti del cervello sulla base di schemi interpretativi a loro volta ricavati e immagazzinati in pacchetti confezionati per l’uso collettivo dalla 'cultura’.
[Dialogante 1]  Ne parli come se in questo lavoro di ricezione, immagazzinamento, confezionamento culturale non tutto fosse in ordine e presentabile alla luce del sole.
[Dialogante 2]  In effetti non tutto lo è. O piuttosto lo è, ma solo se lo presentiamo e lo valutiamo nella luce culturale che gli compete.
[Dialogante 1]  E come facciamo a sapere se la 'luce culturale’ è quella giusta?
[Dialogante 2]  Giusta per che cosa? Non credo che ci sia una giustezza ‘assoluta’, buona per tutte le situazioni…
[Dialogante 1]  Perché ci ritroviamo sempre allo stesso punto? È un passaggio obbligato per il pensiero democratico; per superarlo non c’è che la deriva assolutistica IMC?
[Dialogante 2]  Se non è IMC è qualcosa che gli somiglia molto e che abbiamo già conosciuto sotto altri nomi…
[Dialogante 1]  … e allora poco importa come la vogliamo chiamare.

domenica 22 giugno 2014

Tratta XIV.4 – Infandum, regina, iubes renovare dolorem





[Dialogante 2]  Purtroppo non ricordo quasi nulla del greco imparato al liceo, cosicché mi mancano i ponti che mi immetterebbero direttamente in quella civiltà; per raggiungerla debbo servirmi di altre tratte che mi colleghino con tappe intermedie, così le traduzioni, la storia della letteratura…
[Dialogante 1]  … le opere latine. Per esempio l’Eneida, un’evidente derivato dai poemi omerici.
[Dialogante 2]  Non sono d’accordo (capita talora di non esserlo neppure con se stessi).
[Dialogante 1]  L’ho detto solo per provocarti. So benissimo la tua ammirazione per Virgilio e naturalmente la condivido. Spesso mi martella le tempie lo splendido attacco del II libro: Infandum, regina, iubes renovare dolorem, che Dante ha poi stemperato in
« Tu vuoi ch'io rinnovelli
disperato dolor che il cor mi preme »
altrettanto splendido nella sua italianità quanto l’attacco nella sua latinità.
[Dialogante 2]  Hai ragione: mette conto il confronto, non certo per stabilire un’assurda graduatoria, ma per osservare quanto un’adeguata competenza linguistica debba e sappia rispecchiare lo ‘stile mentale’ proprio di una lingua.  Puerile e inutile sarebbe inquinare con la piana direzionalità dell’italiano l’ispido rigore del latino. Dicono che l’italiano sia figlio del latino. Da un punto di vista strettamente dizionariale è certo così. Il modo di pensare viene probabilmente da un’altra parte.
[Dialogante 1]  Lasciamo queste questioni a chi se ne intende. Per parte nostra accontentiamoci di poter, grazie al latino, pensare nell’uno e nell’altro modo.
[Dialogante 2]  Mi sembra, da quel che diciamo, che saremmo favorevoli a una massiccia reintroduzione del latino nella scuola.
[Dialogante 1]  Il problema non è il latino. È la diversità espressiva raggiungibile in mille altri modi.
[Dialogante 2]  D’accordo.