giovedì 29 dicembre 2011

Il paradiso per me


Una foto della salita dei Parioli del 1885,
cioè un bel mezzo secolo prima di questi ricordi di Boris
[264]
Erano gli anni prima della guerra. Andavo ancora alle elementari, ma doveva essere in un periodo di vacanze –estive o primaverili– perché al mattino presto ricordo che mio padre mi accompagnava a prendere le farfalle a Villa Balestra, una villa nobiliare da lui amministrata, oggi quasi interamente costruita; ma paesisticamente tuttora visibile da Viale Tiziano e dalla Via Flaminia all’incrocio col Viale delle Belle Arti. Abitavamo appunto a Via Flaminia, proprio di fronte alla Villa, da cui vedevo spesso scendere le pecore fino al cancello sotto casa. Per raggiungere la parte alta, al di sopra della grande roccia, bisognava però passare da dietro, dal cosiddetto Arco Oscuro, un breve corridoio scavato nella roccia e che collegava il Viale delle Belle Arti alla salita dei Parioli. Qui, presso la Casa del Custode, si trovava l’ingresso principale alla Villa, e di questo ingresso mio padre aveva la chiave. Ed eccoci all’interno, luogo di sogno per un bambino di otto-nove anni, ma che ancora lo è, letteralmente, per un anziano di più di ottanta. Una via appena sterrata aggirava il costone roccioso che vedevo dalla finestra della mia camera e raggiungeva i prati della sommità. Il costone ospitava nei suoi buchi una coppia di gheppi, più tardi sostituita da Biancamaria la civetta. Oggi è molto se vi sosta qualche passero di passaggio. Ma il paradiso per me erano i prati della sommità, orlati da alcuni pini, cipressi e, poco sotto, dalle imponenti pale dei fichi d’India. Questo era il regno delle farfalle, tutto un volteggiare di Pieris brassicae, Pieris napi, Pontia daplidice, Vanessa cardui, Pyrameis atalanta e, sopra tutte, la splendida Papilio machaon, il macaone che, per quanto frequente, continuava a essere oggetto di desiderio sempre rinnovato. Gli era secondo sola il quasi congenere Iphiclides podalirius dall’elegante volo planato, interrotto soltanto da brevi, nevrotici colpi d’ala.

Ancora le conoscevo solo di vista. Chi fossero, come si chiamassero, lo ho appreso solo più tardi, poi per molti anni i miei interessi si sono rivolti altrove, al più solido mondo dei coleotteri. Ma l’immagine di quei prati assolati sorvolati da quelle meravigliose creature variopinte che l’evoluzione aveva prodotto per la sola gioia di quel bambino… no, non era stata l’evoluzione a procurargliele, era stato l’anziano signore che gli camminava accanto… questa immagine non l’avrebbe più abbandonato.

mercoledì 28 dicembre 2011

I 'margherini'

[261]
Erano circa trecento, e noi eravamo tre, Paola, Celestino ed io, il che voleva dire un rapporto di uno a cento, decisamente sproporzionato per una lavoro di formazione sulla Pratica musicale di base, lavoro affidatoci dal Teatro La Fenice e dal Comune di Venezia in 1977-78. Erano previsti tre cicli di quindici incontri, il primo dei quali da svolgersi nelle Sale Apollinee del Teatro (gli altri due si sarebbero tenuti altrove). Gli iscritti provenivano dalle varie province del Veneto, la maggior parte del tutto ignari di musica. Perché si trovavano lì? Forse li animava la speranza in una qualificazione facile, a buon mercato (i corsi erano gratuiti).

Alla fine del terzo ciclo erano rimasti un centinaio occupati in una decina di Centri Musica, sparsi per il territorio oltreché in un certo numero di scuole come ‘operatori musicali di base’.

Ma non di questo volevo parlare nel presente postino bensì degli indimenticabili giorni trascorsi a Venezia con i ragazzi del corso, in particolare con i dieci del ‘supergruppo’ e la ventina dei ‘margherini’. Avevamo infatti suddivisi i trecento in gruppi da trenta-trentacinque elementi, ciascun gruppo guidato da un ‘operatore del supergruppo’. Questo non era stato ‘scelto’ secondo un qualche criterio selettivo, ma solo accettato su richiesta. A ognuno dei superoperatori era affidata la preparazione del proprio gruppo. Per rendere possibile la cosa, il ‘supergruppo’ sarebbe stato preparato al mattino alle esperienze da condurre il pomeriggio con la ‘base’ dei corsisti. Paola, Celestino ed io, oltre a curare la formazione del supergruppo, giravamo nelle ore di corso per i vari locali messi a disposizione dagli enti, osservando più che intervenendo per poi rileggere l’esperienza il mattino seguente. Tra i gruppi di base ci è rimasto particolarmente impresso quello dei ‘margherini’. Erano i famigerati ‘anni Settanta’, i cosiddetti ‘anni di piombo’ che, accanto al piombo, videro anche l’espunto vivo di un mondo giovanile pensante e critico, non ancora rinunciatario e ipnotizzato da una musica asservita al consumo. Era anche di moda il gesto della P38, simbolo di anarchia e antiautoritarismo, il gesto con cui i ‘margherini’ accolsero Paola il primo giorno di corso. Non era però passata mezz’ora che dell’autorità e della sua contestazione non c’era più traccia. Era rimasta un’amicizia che durò lungo tempo dopo la fine dell’avventura veneziana, amicizia che coinvolse anche me e alcuni ragazzi di Cantalupo. Alcuni dei corsisti, in prevalenza del gruppo dei ‘margherini’, vennero infatti a trovarci nei mesi seguenti e seguirono per un certo tratto le vicende del Centro Musica in Sabina, ormai maturo per la trasformazione in Centro Metaculturale.

E come andò a finire? – domanderà qualcuno.

A corsi conclusi una nostra delegazione mista di docenti e ‘neooperatori’ chiese agli enti promotori, cioè il Teatro La Fenice, il Comune e la Provincia di Venezia, nonché alla Regione Veneta di dare un seguito all’esperienza offrendo agli ex-corsisti appropriate occasioni di lavoro. Furono così istituiti un certo numero di Centri Musica sul territorio veneto, alcuni dei quali rimasero attivi per alcuni anni dopoché il Teatro e la Regione avevano ritirato i remi in barca tagliando i finanziamenti. I tempi stavano cambiando, il pubblico cedeva al privato e lo stato sociale si avviava a essere un ricordo. Il berlusconismo era alle porte. Gli anni di piombo avevano soffocato i contemporanei anni di argento. Avverrà mai che quel ricordo torni a farsi realtà?

martedì 27 dicembre 2011

Un ben strano affare

[260]
È un ben strano affare, la memoria. Spesso ci sembra di averla perduto, ed ecco rispuntarla dalle nebbie di un passato che credevamo definitivamente cancellato. O, viceversa, ci tradisce su cose quotidianamente ripetute. Il ben noto fenomeno della ‘rimozione’ ci avverte che esistono parti del cervello dove determinate esperienze, che vorremmo aver dimenticato, sono rimaste impresse, pronte a ripresentarsi alla memoria quando meno ce l’aspettiamo.

La memoria gode quindi di una certa autonomia all’interno della nostra mente e spesso non ci è amica, sia rifiutandosi quando più ci servirebbe, sia ossessionandoci quando ne faremmo volentieri a meno. In vecchiaia ci regala una seconda vita, o meglio una replica, anche se un po’ sfocata, di quella già vissuta. E qui è in nostro potere respingere gli episodi spiacevoli ovvero spuntare le spine della spiacevolezza, mentre nulla ci impedisce di richiamare immagini e sensazioni gradite quante volte vogliamo, facendo della vita ricordata una copia abbellita dell’originale. Non so se il merito vada riconosciuto alla memoria o alla vecchiaia o alle due congiuntamente, nel qual caso anche il nostro ‘grazie’ va in egual misura all’una e all’altra.

sabato 24 dicembre 2011

Celestino e Miele


[331]
Gli unici cani cui ho voluto bene.

Di Celestino credo di aver già parlato. Merita tuttavia che ne riparli per la sua eccezionale bruttezza. Piccolo, tracagnotto, gambe corte e storte, pelo rasato grigio scuro a macchie nere, da licaone, occhi l’uno blu e l’altro rosso, così, salvo le dimensioni, immaginavo il mastino di Baskerville.

L’altro, Miele di nome e di fatto, non poteva certo dirsi brutto, se non altro per il pelo, appunto color miele e garbatamente ondulato. Abbandonato per strada e giunto a noi in fin di vita, si era rapidamente ripreso mostrandoci tutta la gentilezza del suo carattere. Era divenuto grande amico di Michelino, il simpatico cagnetto del nostro vicino, chiassoso e invadente quanto Miele era silenzioso e riservato. Fino a un paio di anni fa camminavo ancora con una certa disinvoltura, accompagnato da Miele e Michelino che mi caracollavano accanto, Michelino senza particolari riguardi per la mia incipiente instabilità, Miele sempre attento e riguardoso, come se capisse.

Celestino era morto vecchio, molti anni prima; Miele è morto giovane, d’improvviso, e ancora ne sentiamo la mancanza.

venerdì 23 dicembre 2011

Ein Häuflein Mist

[330]
Wer auch du bist,
bleibst, mangelnd an List,
deines Lebens Frist
nur das, was du bist,
ein armer Christ,
ein Häuflein Mist.

(Hab’es noch einmal versucht,
aber auf welchem Niveau?)

Qualunque cosa tu sia
se non hai furbizia,
resti tutta la vita
solo ciò che sei,
un povero cristo,
un mucchietto di sterco.

(Ci ho provato ancora una volta,
ma a che livello!)

giovedì 22 dicembre 2011

Allora perché?

[329]
Ieri ho provato a scrivere alcuni versi in italiano. Mi è stato difficilissimo. Ricordo che non lo era altrettanto scriverli in tedesco, lingua nella quale però avevo qualche difficoltà con la prosa e il discorso parlato. Ora, da qualche anno ormai, ho rinunciato quasi del tutto alla lingua materna e, parallelamente, a ogni tentazione poetica. Da che questa asimmetria espressiva?
Quanto al tedesco, hanno certo giocato un ruolo le mie predilezione letterarie che mi hanno portato fin da bambino a leggere poesie e racconti in quella lingua, più tardi a dedicarmi quasi esclusivamente a Goethe e Thomas Mann. Se a ciò si aggiunge la mia quasi maniacale passione per il Lied –Schubert soprattutto– e tutto risulta chiaro.
Quanto alla mia lingua paterna, l’unica lettura poetica che mi ha accompagnato costantemente nel pensiero è stata ed è la Divina Commedia, a cui, nonostante le tremende difficoltà ad esempio del Paradiso, ritorno spesso con immutata emozione. Conosco poco il romanzo italiano moderno, sono però un buon lettore di saggistica, soprattutto scientifica, per la quale però mi avvalgo più che altro di traduzioni dall’inglese (lingua che non conosco).
Ma ritorniamo ai miei traballanti versi in italiano, resi ancora più incerti dall’uso non richiesto della rima. In uno dei prossimi postini mi riprometto qualche riflessione su questo ingrediente dell’espressione poetica che Leopardi giudicava in essenziale al verso italiano.
Perché misurarsi con questo artificioso ostacolo aggiuntivo, quando già di per sé la concentrazione propria della scrittura in versi costituisce una difficoltà non indifferente per chi voglia evitare il rischio del ridicolo. (Parlo in generale, non certo del mio sporadico tentativo che questo rischio non si è curato di evitare). Ed effettivamente il ricorso alla rima suona oggi come la sfida di un gioco enigmistico che si accetta dopo aver perso altre sfide... Allora perché? Perché affrontare la sfida più grande, dove la sconfitta è quasi certa?
Per parte mia l’ho affrontata sul terreno neutro di una lingua che da anni aveva perso per me ogni referenzialità comunicativa, chiuso ormai in un discorso privato senza dirimpettaio. L’italiano mi serve ancora per parlare a un tu. E a un tu in genere non si parla in rima.

mercoledì 21 dicembre 2011

Il lusso di affezionarsi alla propria casa


Aiko Musashi ricupera oggetti personali dalla sua casa distrutta in Kesennuma,
il 18.3.2011 (Paula Bronstein/Getty Images)

[328]
Questa mattina [1] ha telefonato Thomas da Berlino, comunicandoci di essersi insediato, con i libri portati da Cantalupo, comodamente nel nuovo appartamento da lui preso in affitto. Ho notato negli ultimi anni un suo crescente attaccamento alla casa e agli oggetti in essa contenuti. È una forma di attaccamento che si sviluppa con l’età, ma non necessariamente in tutti. C’è anzi chi manifesta insofferenza per la permanenza prolungata in una stessa abitazione. Sembra che questa insofferenza fosse quasi patologica in Beethoven. Paola, quando era più giovane, credo che avrebbe volentieri lasciato la casa e il paese di Cantalupo per un’abitazione cittadina, per esempio a Firenze. Ora la vedo contenta della nostra dimora, che lei non si stanca di rendere più accogliente e fantasiosa.

Molte famiglie, soprattutto delle zone più soggette a uragani, inondazioni, terremoti, non si possono permettere il lusso di affezionarsi alla propria casa. Probabilmente hanno sviluppato una cultura immunizzante verso questi malanni. Almeno a noi fa comodo pensare che sia così. A salvaguardia dei nostri sonni.

[1] Nota della redazione: il postino è stato scritto in Agosto 2010

martedì 20 dicembre 2011

Armonica eleganza

[327]
Tu credi forse di piacermi, gatto,
con quel tuo corpo sinuoso e snello,
credi di poterti fare bello
nel contorno del tuo disegno astratto?

Pensi che le tue ipocrite moine,
l’armonica eleganza del tuo stare,
piccola divinità da adorare,
possano d’improvviso farmi incline

a tollerare – tre le simpatie
umane, biologiche e divine
che da tempi lontani sono mie

e ravvivano la mia tarda età
con divenire eterno alle sue vie–,
l’aggiungersi della gattinità?

Cantalupo, 4 Agosto 2010

lunedì 19 dicembre 2011

Un prodotto del tempo

[326]
Non è un tema che mi appassiona… Tuttavia, qualche parola ancora sulla vecchiaia.
Rileggendo il postino precedente, sento un po’ il sapore di sciroppo per la tosse che spesso hanno le parole dei vecchi. È forse un sapore ineliminabile come l’aura di saggezza che li circonda. Rinuncerei volentieri all’uno e all’altra, ma è come dire che uno rinuncerebbe agli anni che ha. Sciroppo e saggezza sono un prodotto del tempo, non c’è che rassegnarcisi.
È invece di qualche interesse osservare come anche la nostra facoltà più ‘personalizzata’, il pensiero, sia strettamente legata alla fisiologia del vivente. Non pensiamo più come da giovani e neppure come persone di mezza età. Pensiamo come si pensa da vecchi, alcuni caratteri del nostro pensiero sono comuni a quelli della nostra stessa età. Abbiamo vissuto nella convinzione di star costruendo un’individualità assolutamente unica lungo una vita anch’essa unica e irripetibile, e ci ritroviamo, nei casi peggiori con l’alzheimer, in quelli più fortunati con una mentalità che i ‘non vecchi’ giudicano antiquata, incapace di comprendere l’attualità. Guardandoci da fuori –cosa che talvolta ancora mi riesce– mi vedo anch’io così:
  • da musicista non capisco il mondo del rock e della canzone,
  • da uomo della strada non capisco la crescita infinita,
  • da elettore non capisco la maggioranza degli elettori,
  • da cittadino europeo non capisco l’Europa,
  • non condivido il capitalismo, la morale corrente, la meritocrazia,
  • possiedo un computer ma non lo so usare,
  • mi piacciono i film polizieschi ma non li capisco,
  • approvo la libertà sessuale ma non la eserciterei,
  • osservo il disimpegno e l’apolicità dei giovani ma non li approvo,
  • sono tuttora dalla parte dei giovani, anche se non li sento più dalla mia,
  • quasi tutto ciò che piace a loro non piace a me,
  • quasi tutto ciò ce piace a me non piace a loro,
………
Sono irrimediabilmente vecchio, ma non vorrei non esserlo.
Forse perché mi è impossibile non esserlo.
Forse perché non m’interessa.
Forse perché mi piace vedere la mia vecchiaia farsi come un tempo la mia infanzia, la giovinezza, l’età matura.
“Credi di aver fatto tutto da solo?” “No, ma anche la mia vecchiaia, come quella di tutti, siamo in tanti a farla”.

domenica 18 dicembre 2011

Non so se importi

[325]
Ogni tanto mi capita di riflettere a quante attività la vecchiaia mi ha costretto a rinunciare. Oltre a quelle specificatamente fisiche, tra cui la difficoltà nell’uso delle gambe è quella più limitante, avrei, fino a pochi anni fa, giudicato insopportabile l’impossibilità di
  • comporre
  • suonare
  • distinguere i suoni
  • scrivere di musica
  • insegnarla
  • scrivere testi in tedesco
  • raccogliere coleotteri
  • classificarli
  • viaggiare
  • guidare la macchina
………
Invece, non solo tutte queste cose non posso più farle, ma, quel che mi appare incomprensibile, non me ne importa quasi niente. Non so se agli alberi importi perdere le foglie; non credo, ma in ogni caso dovrebbero sapere –e forse confusamente lo sentono– che la perdita è solo temporanea e che una nuova giovinezza sta nascosta da qualche parte. Mentre l’anziano sa che non c’è nulla di nascosto, tutt’al più qualche residuo non consumato, testimonianza archeologica di un passato irrecuperabile. Questo mi dice la penna che scorre sul foglio, gravida ancora di parole non scritte…
Io dal canto mio, resto indifferente davanti a tanta rovina, contento di questi postini, su cui so di poter contare, contento di quanto mi circonda, persone e cose, di ciò che, nonostante tutto, riesco ancora a fare. La vecchiaia e forse anche la morte fanno parte della vita e non c’è ragione di amarla di meno.

mercoledì 14 dicembre 2011

... in sensibile calo

[493]
Se anche decidiamo quindi, come la maggioranza di noi ha già fatto, per la competizione, diamole delle regole ferree a un tribunale internazionale con pieni poteri repressivi per garantirne l’applicazione: di fatto, una dittatura del potere giudiziario. E che ne facciamo della libertà?

Per parte mia, non me ne preoccupano troppo perché, per quanto anch’io affascinato dalla parola, me ne sfugge il concetto. Non è tanto la perdita di una libertà invero più gridata che convinta cui intendo riferirmi, quanto al modello di sviluppo al quale affidare il nostro futuro, sempreché la cosa ci interessi. Il modello concorrenziale adottato dalla specie umana e, con forti limitazioni, anche da molte altre, si basa essenzialmente sull’eliminazione del concorrente, ma per simmetria, altrettanto sull’eliminazione nostra. Non vedo comunque una ragione che in questo gioco debba favorire la nostra specie rispetto ad altre. Oggi vediamo, è vero, l’estinguersi di un gran numero di specie animali e vegetali –il più delle volte ad opera dell’uomo– mentre la specie nostra cresce a dismisura, ma le sue probabilità di sopravvivenza, secondo attendibili studi, sono in sensibile calo. E non solo per i guasti ecologici da noi prodotti, ma anche per la meccanica interna del modello concorrenziale, sempre meno garantito nei confronti di un finale catastrofico.

martedì 13 dicembre 2011

Competizione o collaborazione?

[492]
Se questa domanda mi fosse stata posta fino a ieri, la mia risposta sarebbe stata senza esitazione: collaborazione.

Oggi la risposta resta la stessa con in più un’esitazione. Esitazione dovuta a che?

Da un lato c’è l’autorità di Darwin che, anche a voler disconoscere il principio di autorità, un certo peso ce l’ha, e non indifferente. C’è poi il peso della società industrializzata, quasi unanime nella sua scelta per la competizione. E, ancora, l’ideologia del ‘progresso’, del ‘sempre di più’, della ‘crescita illimitata’, l’istinto –se vogliamo chiamarlo così– del dominio, della sopraffazione.

Dall’altro lato c’è poco più che l’ideologia della fratellanza universale con le sporadiche emergenze di vantaggi locali, un fatto di pensare a un’associazione di beneficenza. Ma allora perché esito ancora ad allinearmi decisamente con i fautori della competizione?

Proprio perché riconosco le ragioni vincenti della competizione e ne temo le conseguenze su di un pianeta piccolo come il nostro e una specie aggressiva come la nostra.

lunedì 12 dicembre 2011

... una garanzia indiscutibile...



Pablo Araújo © 2010
[491]
La sovrabbondanza di una cosa ci rende insensibile ad essa. Nello stesso tempo però ci la rende indispensabile. Viviamo in un mondo virtuale di immagini di cui non possiamo fare a meno, ma che ottundono in noi il senso della realtà, al punto che ci è più facile dubitare di questa che dell’immagine. “L’ho visto alla televisione”: una garanzia indiscutibile, anche perché nessuno oserebbe discuterla. La scuola non ci ha abituato a farlo così come non ci ha abituato a indagare sulle ‘verità’ che essa trasmette e neppure sul concetto stesso di verità. Nelle classi superiori permette forse che qualche dubbio si insinui, ma quando ormai è tardi e la mente ha introiettato l’assolutezza di quel concetto e finisce per fare anche del dubbio un dogma paralizzante qualsiasi iniziativa umana. L’azione più devastante del relativismo ‘assoluto’ è proprio questa: il essersi identificato con l’ASSOLUTO tout court, svuotando di senso ogni proposizione e riducendo a insulso gossip ogni tentativo di comunicazione tra umani. Non so se e quanto IMC sia in grado di aggirare questo ostacolo, so solo che ci sta provando: il risultato dipende esclusivamente dall’assenso che il pensiero collettivo vorrà concederle.

domenica 11 dicembre 2011

... come l'acqua...

[490]
Lo stesso quadro del postino precedente, ma dietro ogni bambino seduto intorno al grande tavolo c’è una fila interminabile di altri bambini, e non solo bambini: anche adulti, giovani che sembrano vecchi, i vecchi però sono morti anzi tempo, di malnutrizione, di AIDS, di una raffica sparata da un bambino di sì e no dieci anni.

Di immagini di guerra ne vediamo ogni giorno, nei documentari, nelle fiction, anche non distinguiamo nemmeno più tra un reportage e un’accurata, tecnicamente pregevole ricostruzione, né c’importa granché distinguere. Anzi, quel bambino di cui al postino precedente tutto sommato ci colpisce di più che non la notizia di una nuova guerra scoppiata in qualche parte dell’Africa o dell’Asia. È sempre l’immagine ad avere la prevalenza sul fatto. E ancora: è il caso singolo più che non la tragedia collettiva a coinvolgerci emotivamente: in quello riusciamo a immedesimarci, questa resta tutt’al più ‘notizia’, e le notizie scorrono su di noi come l’acqua su di una superficie in pendenza.

È questa la sensibilità che dovrebbe salvarci dall’autoestinzione?

venerdì 9 dicembre 2011

una tavolata molto grande

[489]
Immagino una tavolata molto grande e tutt’intorno bambini di ogni razza e colore intenti a mangiare allegramente e con gusto, ciascuno i suoi cibi preferiti, sicuro che ve ne saranno anche per il giorno dopo e per quello dopo ancora: ridono, scherzano, la vita è lì, davanti a loro, non c’è che da afferrarla con la forza propria dell’età, certi dell’oggi come del domani…
Ma chi è quel bambino accucciato per terra, in disparte, dai grandi occhi privi di sguardo di sorriso, senza più la forza neppure di desiderare il cibo perché non si ricorda come si fa a mangiarlo? Voi guardate, perché siete presenti e quel bambino vi sta proprio di fronte…

… ma come può, il mondo, restar insensibile e col ciglio asciutto, come può non correre da lui a salvargli la vita con una briciola dell’abbondanza che lo circonda? …

Ma è solo il quadro della televisione e le immagini che vi scorrono su hanno il solo scopo di spremerti qualche centesimo a asciugare così il tuo umido ciglio. Quel bambino morirà e con lui milioni di altri, ma tu potrai dormire tranquillo di aver fatto quanto in tuo potere…

giovedì 8 dicembre 2011

… vince di solito…

[488]
Ho ripreso nel postino precedente una metafora già utilizzata in una storiella per bambini scritta nel 1984. Posso anche dire che ho incontrato due volte lo stesso pensiero e allora non è molto importante che il pensiero sia mio o di un altro. Ciò che conta è il rafforzamento del pensiero attraverso la ridondanza in contesti diversi. Se il contesto fosse lo stesso o molto simile, avremmo la semplice ripetizione di una sequenza stimolo–risposta che aggiungerebbe poco o niente alla sua prima comparsa.

Vale la pena comunque osservare la molto maggiore incisività dell’originale, in cui si riscontra qualcosa come il piacere di una scoperta, di un’invenzione. Probabilmente un’invenzione analoga si è avuta più volte nel mondo, senza però che io lo sappia. Non conta ciò che accade ma il sapere che accade. Non il fatto, ma l’informatio del fatto. Su questo equivoco si fondano molti scambi comunicazionali del nostro UCL. In alcuni casi siamo coscienti dell’equivoco perché lo vediamo far parte di una finzione concordata (cinema, teatro, letteratura narrativa); altre volte lo subiamo, più o meno consenzienti, come, quasi di norma, nel gioco politico e allora vince di solito chi gioca più sporco.

martedì 6 dicembre 2011

Un gioco infinito

[487]
Mentre il mio rendimento mentale è negli ultimi tempi sensibilmente diminuito nel suo complesso, vi sono ancora momentanei ritorni di fiamma, sempre però innescati dal contatto con menti giovani che evidentemente hanno sovrabbondanza di combustibile. Mi capita con Valentina, il cui pensiero è singolarmente affino al mio. Mi capita spesso con Fernando, talora anche con Oliver, con gli amici del Centro e, ovviamente con Paola. Mi sembra, in questi casi, di incontrare me stesso, non perché io li abbia istruiti (non credo di aver mai istruito nessuno), ma perché ci siamo trovati nello stesso pendio e ce ne siamo accorti. Questa convergenza con un pensiero di tanto più giovane del mio è ciò che lo ravviva dandomi talora l’impressione di essere ancora io a produrlo quando non si tratta che di un rispecchiamento. Un rispecchiamento –mi dicono– in cui dovrei riconoscere tratti anche di me stesso, mentre io credo di ravvisare tratti di altri ancora.

Forse il pensiero non è che riconoscimento, riscoperta in noi stesi di pensieri già riflessi in un gioco infinito di specchi affrontati.

venerdì 25 novembre 2011

Raffica di postini (e VII)

[486]
Purtroppo le varie forme di potere non sembrano interessate alla sopravvivenza, quasi che l'estinzione non toccasse anche loro, e preferiscono continuare la loro crescita a un costo che comunque saranno i figli e i nipoti a pagare. Se vogliamo che le prospettive cambino, bisognerà prevedere, a favore dei potenti di oggi, un congruo indennizzo per i minori guadagni di domani. Prepariamoci a una tassa per Berlusconi.

[FINE RAFFICA]

lunedì 21 novembre 2011

Raffica di postini (VI)

[485]
Vari indizi, come il diffondersi, accanto all’ideologia del progresso, di una consapevolezza dei pericoli connessi con quell’ideologia, lasciano ancora aperta qualche speranza di futuro. Non è comunque questione di parole ma di come le interpretiamo. Basterebbe interpretare ‘progresso’ come ‘incremento della probabilità di sopravvivenza’ anziché come ‘crescita infinita’, e il gioco sarebbe fatto.

domenica 20 novembre 2011

Raffica di postini (V)

[484]
È difficile dubitare che è proprio l’ideologia del progresso a costituire oggi il pericolo maggiore per l’umanità, anzi per la vita tutta. Forse un progresso non ideologico, che potremmo chiamare ‘naturale’ perché scandito sul ritmo delle trasformazioni genetiche, potrebbe concederci ancora qualche millennio di sopravvivenza, noi però lo percepiremmo come regresso e lo rifiuteremmo.

sabato 19 novembre 2011

Raffica di postini (IV)

[483]
Non so se queste ovvietà ci portino molto più ‘avanti’. A me sembra che ci portino più ‘indietro’ ma spesso, per avanzare, occorre consolidare il punto da cui prendere la rincorsa.

mercoledì 16 novembre 2011

Raffica di postini (III)

[482]
Come già al suo tempo con IMC, mi scopro a toccare con mano le ovvietà che vado dicendo, ma nello stesso tempo a non sentirmene frustrato, quasi che il rientro nel flusso della condivisione sia il punto di arrivo di ogni ricerca su ciò che è più nostro.

lunedì 14 novembre 2011

Raffica di postini (II)

"Contradictory power" , di Heegung Jim
[V-481]
In principio erat contradictio”, parafrasando l’attacco del Vangelo secondo Giovanni: è singolare quanto spesso mi capita di ricorrere a questa citazione ‘storpiata’, dalla cui fusione con l’originale risulterebbe: “In principio verbum erat contradictio”, che risolverebbe tutti i problemi.

domenica 13 novembre 2011

Raffica di postini

[V-480]
Mi è difficile contenere entro concetti esprimibili a parole una consapevolezza, direi olistica, forse impenetrabile all’analisi, anche se proprio l’analisi mi appare come lo strumento più idoneo a rilevarla. L’analisi scompone, porta cioè alla luce i componenti, che però nell’esperienza si presentano come uniti.

giovedì 10 novembre 2011

Graecia capta Romam cepit

mercoledì 9 novembre 2011

La fiaba della politica (III)

[497]
III. A questo punto le cellule –siamo ritornati a loro–, anziché continuare nella rivalità su chi dovesse dominare e chi sottomettersi, inventarono le associazioni di cellule, sotto forma di organi appartenenti a unità di livello superiore, che tuttavia lo erano –cioè erano ‘superiori’– in un senso radicalmente diverso da quello oggi in uso tra gli umani, per i quali il concetto è legato a un’arbitraria graduatoria di ‘importanza’; a sua volta connessa con un differenziato trattamento economico. Così una condizione troppo favorevole alla crescita di un organo ne produce l’ipertrofia, come credo si stia capitando al cervello di homo sapiens, che oggi, attraverso la cultura, sta mettendo in forse la sua stessa sopravvivenza. Ma, mentre a livello di cellula, tessuto, organo, ipertrofia è tenuta a bada da un opportuno feedback organico, l’emancipazione della mente dalla corporeità fa si che questo non accada o accada troppo poco per le prestazioni immateriali del cervello.

Il pericolo è reale e imminente. Come chiudere la nostra ‘fiaba politica’ della politica?

Prendendo esempio dalla nostra corporeità e inventando un feedback che tenga a freno l’emancipazione della nostra mente.

martedì 8 novembre 2011

La fiaba della politica (II)

[496]
[Torniamo alle cellulle] II. Per un’altra stranezza, le cellule che dipendevano dal lavoro delle altre venivano considerate dominanti, mentre quelle che di fatto lo erano passarono in sudditanza. Perché il loro ruolo fosse così chiaramente separato da quello delle cellule lavoratrici le dominanti si raccolsero tutte in un solo organo, il cervello che divenne così il supremo regolatore della vita. In lui si concentrò tutto il potere decisionale dell’individuo. [Stiamo nuovamente parlando di persone.] Le azioni concrete venivano ora prefigurate da azioni sono mentali che facevano risparmiare grandi quantità di tempo ed energia alle cellule lavoratrici e, per loro tramite, agli individui portatori. E così il ‘potere’ di questa centrale cellulare crebbe a dismisura, come del resto stava facendo il potere della politica nelle comunità umane. Anche queste si differenziavano in forme in qualche modo affini agli individui –tribù, nazioni, stati–, mentre i rapporti tra loro si sviluppavano secondo modalità analoghe, solo di ben altre dimensioni. Una lite, un diverbio tra individui, era ormai una guerra tra tribù, nazioni, stati con migliaia, milioni di morti, intere civiltà distrutte…

lunedì 7 novembre 2011

La fiaba della politica (in tre postini)

[495]
I. La politica nasce dalla biologia nel momento in cui una manciata di cellule decide di mettersi insieme e di condurre vita propria. Ma sono loro ad averlo deciso o una qualche attrazione fisica le ha spinte a unirsi? Fa qualche differenza? Non sappiamo. Sia come sia, a un certo punto si sono trovate assieme, e si saranno domandati se lo stare insieme implica che tutti facciano la stessa cosa. E devono essersi accorte che questo eccesso di ridondanza non giovava a nessuna. Nacque così la divisione del lavoro. A priori un lavoro valeva l’altro e non c’era ragione di litigare. Poi però si vide che conveniva non solo dividersi il lavoro, ma anche differenziarlo, cosicché alcune cellule si trovarono a compiere un lavoro più gravoso di altre. Penserete che le abbiano compensate con qualche beneficio extra. Al contrario, il loro lavoro cominciò a essere sottopagato. Col tempo infatti era invalso l’uso di compensare il lavoro con beni materiali che miglioravano la vita di quelli che lavoravano – non tutti infatti lo facevano e alcuni trovavano più comodo vivere sulle spalle altrui. Stranamente, questi ultimi erano anche più rispettati e la gente (vi sarete accorti che non restiamo più parlando di cellule, ma di persone) sembrava contenta di mantenerle col proprio lavoro…

[continua al prossimo postino]

domenica 6 novembre 2011

Questione politica?

[494]
Il funzionamento del cervello tutto è meno che lineare. È la linearità del linguaggio verbale che ce lo fa apparire tale quando proviamo a descriverlo. Adottando il modello dell’attività visiva, immagino che si disponga per così dire su più piani: come comprendiamo con un solo sguardo non solo gli oggetti a distanza focale, ma anche, seppure indistinti, quelli posti su vari piani vicini e lontani, così la mente, nel concentrarsi sul pensiero che momentaneamente la occupa, non abbandona l’universo delle esperienze iscritte nella sua memoria, dal quale trasceglie quelle da utilizzare come sfondo del pensiero presente. Nel caso della mente il processo è certamente assai più complesso, perché, laddove lo sfondo di un’immagine visiva è dato, quello di un pensiero è costruito. Ma da chi? È come se le menti fossero almeno due: l’una per immagazzinare i dati con cui costruire gli sfondi, l’altra per costruirli effettivamente, forse una terza per accogliere –o formulare– i pensieri cui quei dati fanno da sfondo… Il paragone col computer è insufficiente perché dietro il computer c’è una mente che lo manovra e dietro questa una società che la condiziona. Che il funzionamento del cervello sia questione politica?

venerdì 4 novembre 2011

Permanente speranza

[259]
Come ci si sente da vecchi?

Non direi che ci si sente. Ci si vede. Si constata.

Da dentro è come dieci, venti, settanta anni fa. L’Io è restato quello che era: un io tra i tanti. Ma là fuori è un io traballante, incerto, cui il più normale movimento costa fatica e va aiutato, l’occhio vede male, l’udito è debole, la memoria labile. Ma la cosa veramente insopportabili sono i coetanei, specchio deformante di noi stessi, poi ci accorgiamo che non è affatto deformante. Siamo proprio così, con la goccia al naso, come nelle caricature dei vecchi.

Eppure potrebbe essere –e forse è– l’età più bella, più completa perché costruita lungo tutto una vita, arricchita dall’esperienza delle migliaia di persone con cui abbiamo scambiato pensieri e affetti, più le altre migliaia di cui abbiamo letto o sentito dire. Quante cose abbiamo capito o creduto di capire, quanti punti interrogativi ci hanno mantenuto in vita con l’attesa di una risposta, e tuttora ci fanno sperare in un residuo di futuro, perché questa è la vita: permanente speranza nella risposta di domani!

giovedì 3 novembre 2011

Ne vedremo ancora…

[258]
[Nota editoriale: anche se diamo adesso alla luce questo postino, seguendo un criterio di pubblicazione consecutiva, Boris lo ha scritto nel mese di settembre 2010]

L’altra mattina, ascoltando in televisione la consueta Rassegna Stampa, ho appreso che tutti i giornali, quale che ne fosse l’indirizzo politico, aprivano trionfalmente con titoloni a tutta pagina sulla ripresa economica, finalmente avvertibile anche in Italia con l’aumento del PIL. Uno solo, credo fosse il Manifesto, segnalava che questa ripresa della produzione non si accompagnava a una ripresa dell’occupazione né a una crescita dei salari. L’aumento dei guadagni, quello sì, era però immediato. Col tempo si sarebbe visto anche il resto. Per ora non c’era che tirare un sospiro di sollievo.

Per forza –si dirà–: un aumento delle spese avrebbe cancellato i benefici della ripresa! Che quindi è stata avviata dalla compressione del costo del lavoro, cioè all’aumento della povertà. Ovviamente per chi ha poco o nulla, certo non per coloro che, licenziando e trasferendo la loro produzione in paesi con minor costo del lavoro, hanno mantenuto se non accresciuto il loro guadagno. E questo è stato possibile solo alle imprese sostenute da un grande capitale.

Non voglio dire con questo che il capitale provochi le crisi nel proprio interesse, ma credo che, finché il modello capitalistico resterà dominante, di crisi mondiali ne vedremo ancora parecchie e peggiori di questa.

mercoledì 2 novembre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Lupi


[235]
Maschio alpha – Non mettetevi in testa di fare come vi pare. Qui commando io! Prendo e concedo a mio piacimento. Tu, per esempio, vieni qua. Ah, sei un maschietto… Fa lo stesso, non bado a queste differenze… Prima a me, poi tocca a te. Siamo o non siamo una famiglia? Siete tutti uguali ai miei occhi, solo io non sono uguale, se non come fareste a riconoscermi? La natura è provvida e mi ha fatto diverso da voi anche se da lontano io e voi sembriamo uguali…

Altro maschio – Ma tu sei uguale, anche se ti sei messo in testa di essere diverso.

Maschio alpha – Hai ragione, i diversi siete voi!

Gli altri maschi – Chi sarebbero i ‘diversi’? (Si avventano sul maschio alpha, riducendolo a maschio Z) E ora che facciamo? Chi ha voglia di fare il maschio alpha?

Uno i maschi – E se passassimo il ruolo a una femmina?

Una delle femmine – Per esempio a me, che sono un po’ diversa.

Tutti – Siamo tutti diversi!

L’ex maschio alpha (con un filo di voce) – e per questo siamo uguali.

martedì 1 novembre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali (riflessione)

[234]
È opinione diffusa che l’istituto famigliare si incontri solamente presso gli uccelli e alcuni specie di mammiferi. Da ciò si deduce che questo istituto sia indice di un superiore grado evolutivo, o meglio alcune religioni è ideologie hanno preteso di trarre questa conseguenza dall’apparente somiglianza della famiglia umana con certe associazioni animali volte alla conservazione della specie. Anche ammettendo la correttezza di questa interpretazione, va osservato che:
• la famiglia è, anche per l’uomo, solo una delle forme associative “inventate” dall’evoluzione a salvaguardia della specie,
• forme che noi giudichiamo simili alla famiglia si riscontrano anche in gruppi animali tassonomicamente assai lontani dai vertebrati, per esempio tra gli insetti (scarabei con profughi, imenotteri aculeati…),
• animali a noi evolutivamente prossimi non basano le loro forme associative sulla famiglia,
• la maggior parte delle specie viventi, anche quelle sessuate, limita l’attività sessuale allo stretto atto riproduttivo,
• le analogie che talora c’è piacere riscontrare tra comportamenti umani e animali ha per lo più come discriminante la accentuata culturalità dei primi.

lunedì 31 ottobre 2011

Lettera di una limaccia a un’altra limaccia

[233]
Sposo mio, sposa mia amatissima,
non so come chiamarti
o chiamare me stessa,
se sposo o sposa.
Tutti distinguono maschi e femmine.
Noi no. Forse perché
non c’intendiamo di sesso?
Chi? noi, i campioni?
Tu, la mia femmina, io il tuo maschio,
tu, il mio maschio, io, la tua femmina.
Sposo alla sposa che è sposo alla sposa,
sposa allo sposo che è sposa allo sposo.
Unione reciproca, incrociata, perfetta.
Unio mystica.
Coincidentia oppositorum,
amore teologalis.

“E in nome di questo amore,
lumacone mio,
lumacona mia,
prenditi questa coltellata nella pancia.”
“Se è questo che vuoi,
lumacona mia,
lumacone mio,
sempre in nome del nostro amore,
eccoti la coltellata di ritorno”.
Così dicemmo allora,
oggi ci dividono
molti metri di scia,
e a noi non resta
che intonare insieme
Plaisir d’amour
ne dure qu’un moment
…”
(da Lettere di famiglia, 2005)

domenica 30 ottobre 2011

Pratica dell'abbraccio di base

sabato 29 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali – Avvoltoi


[232]

Lui. – Dio mio, come sei grassa!
Lei. – Anche tu non scherzi!
Lui. – Ma cosa mangi?
Lei. – Carogna.
Lui. – Anch’io.
Lei è lui (all’unisono). – Un cibo sano e nutriente!
Lui. – Se non fossimo in tanti a litigarcelo…
Lei. – … e non facessimo tanto baccano!
Lui. – Un po’ di festa, va bene, ma tutte quelle beccate!
Lei. – Sai che ti dico? La prossima carogna ce la teniamo per noi.
Lui. – E come vuoi fare? Dall’alto ci vedono tutti!
Lei. – Così (gli dà una beccata al cuore).
Lui (morendo). – Carogna!
Lei (cominciando a mangiare). – Appunto!

venerdì 28 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali. Parrocchetti

[231]
(Lei e lui, in tandem)

Non so dire che tu non dica,
non so fare che tu non faccia,
Dico solo ciò che tu dici,
faccio solo ciò che tu fai,
ma lo faccio con chi mi pare,
e non lo vengo a dire a te.
(segue separazione consensuale)

giovedì 27 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali. Cervi volanti (due monologhi)

Fotografia di Natura Mediterraneo
[230]
Lei. – Eccolo che torna alla carica. Con quel suo testone e le mandibole spalancate come per incutere paura. A chi? A qualche maschietto piccolo forse. A me no di certo, che con le mie mandibole corte e forti potrei tagliargli di netto una zampa. Ma a che scopo? Come maschio funziona abbastanza bene e questo mi basta. È piuttosto stupido, è vero, nonostante il testone, ma a me che importa? Ciò che conta è che non sia stupida io, e so di non esserlo.

Lui. – Certo, è una ragazza fortunata ad avere me come compagno. Pensare che potrei averne quante ne voglio! Ogni tanto un finto combattimento con un finto avversario, tutto ciò che rischio è un ruzzolone giù dal ramo, quando ne trovo uno più forte di me, ma capita di rado. L’importante è che lei non mi veda, ne andrebbe della mia dignità… La sera, una volantina da una quercia all’altra… tutto sommato, una bella vita. Eccola che mi attende, fedelissima, almeno spero… Non è molto intelligente, ma a me che importa? Come femmina va benissimo; di testa, basta la mia.

mercoledì 26 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Leoni

[229]
Lui (tra sè) – Sei sopraffatto. Credo che col prossimo pretendente dovrò venire a patti: qualche ruggito, un paio di zampate con le unghie ritratte, poi gli cedo metà del mio harem a patto che nessuno lo venga a sapere.
Una delle Lei – Poveretto! Non ce la fa più, mentre a me piacerebbe quel giovanotto che è venuto ieri… Chissà se si potesse trattare… (si accorda con le altre cinque, poi va da lui) È ora di democratizzare la nostra società. Non è più il tempo della ius prima noctis e affini. Del resto anche tu non sei più all’altezza della tua fama. Non ti chiediamo di abdicare. Tieniti la corona ma per il resto lasciaci fare.

martedì 25 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Rospi

[228]
Lei – … sta comodo lassù il signorino? …mi duole di non essere più larga di così… ma sì, fatti pure un sonnellino… al momento giusto ti sveglio io…
Lui – Ma cosa avrà da brontolare? Che dovrei dire io, che dopo averla aiutata per ore a liberarsi delle sue uova, mi sento dire: “Ora lasciami in pace! Pensa tu a fecondarle!”

lunedì 24 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Pesci

[227]
Lui – … a forza di fecondarti le uova, mi è venuta fame.
Lei – Serviti pure; me ne avanza ancora qualche migliaio.
Lui – Uova, sempre uova, non sai fare altro…

domenica 23 ottobre 2011

Dieci zoodialoghi coniugali - Mantidi

[226]
Lui - Sei bellissima, mi piaci da morire…
Lei – Non mi tentare!
Lui – … mi piaci che ti mangerei…
Lei – È un’idea! (gli stacca la testa con un morso)

venerdì 21 ottobre 2011

Erasmino


L'ultima incisione di Albrecht Dürer (1526), nella Collezione Reale di Kopenhagen

Su invito di Fernando e sperando sia di qualche interesse, voglio riassumere in questo breve intervento le impressioni da me riportate dalla lettura della biografia Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, di Stefan Zweig, 1934 – io l’ho letta in italiano, nell’edizione Rusconi del 1981 intitolata semplicemente Erasmo da Rotterdam.

La prima cosa a saltarmi agli occhi è la somiglianza del titolo originale tedesco con quello di un quasi-contemporaneo lavoro di Thomas Mann, Leiden und Größe Richard Wagners («Dolore e grandezza di Richard Wagner»), uscito nell’aprile del 1933. E in effetti, più che di una biografia si tratta di un ampio saggio biografico sul tipo del lavoro manniano, concepito cioè senza tenere troppo conto dell’immagine per così dire «storicamente tramandata» di Erasmo ma affidandosi invece per lo più alla propria sensibilità. Zweig, pur con tutte le precauzioni della saggistica scientifica, si arrischia a ricostruire la figura di Erasmo a partire dall’idea che si è fatto di essa (impresa di per se poco «scientifica»); la sua onestà intellettuale gli impedisce però, come è ovvio, di forzare e manomettere, e ogni volta che l’identificazione tra idea e persona fallisce, lo ammette con un dispiacere che non può che suscitare simpatia. In questo senso, direi che «dolore e grandezza» o «trionfo e tragedia» siano in gran parte attributi propri delle ideologie dei due autori, e non dei personaggi storici di cui si «ricostruisce» la figura, e sarà perciò difficile qui parlare di Erasmo da Rotterdam prescindendo da Stefan Zweig.
Leggere di più ...Se seguiamo l’autore, l’ideale che Erasmo, con la sua vita e le sue opere, incarna quasi perfettamente è l’ideale pacifista. Dopo una breve riflessione sul perché Erasmo oggi (nel 1933) sia quasi dimenticato (perché oscurato «da figure più vigorose e impetuose di altri riformatori universali», e perché «ben poche notizie divertenti ci offre la sua vita privata: un uomo del silenzio e del lavoro indefesso riesce di rado ad avere una biografia appassionante»), subito Zweig pronuncia la sua dichiarazione d’amore:

«Vogliamo quindi riassumere qui con chiarezza quello che ancora oggi, e proprio oggi, rende a noi caro Erasmo da Rotterdam, il gran dimenticato: il fatto che egli, tra tutti gli scrittori e i pensatori dell’occidente, è stato il primo europeo cosciente, il primo bellicoso amico della pace, l’avvocato più facondo dell’idealità umanistica. Il suo tragico destino di essere rimasto sconfitto nella sua lotta per un indirizzo più equo e più armonico del mondo spirituale, lo lega ancor più intimamente al nostro sentimento fraterno» [p. 7].

La venatura autobiografica è esplicitamente dichiarata. Un’altra cosa invece mi colpisce: la definizione di «primo bellicoso amico della pace». Continua:

«Erasmo ha amato molte cose che noi pure amiamo: la poesia e la filosofia, i libri e le opere d’arte, i linguaggi ed i popoli, ed ha amato senza distinzioni l’umanità intera, per una finalità moralizzatrice superiore. Egli non ha veramente odiato in terra che una cosa sola, quale antitesi della ragione: il fanatismo» [p. 8].

Se quel primo «bellicoso» poteva essere una trovata poetica, «l’odio per il fanatismo» lascia davvero perplessi. In tutto il libro non una sola volta ci è dato pensare che Erasmo provi odio per qualcosa o qualcuno (semmai stizza, disprezzo…). Secondo Zweig invece egli «odiò tutti gli ostinati e gli unilaterali […] tutti gli angusti campioni di ogni classe e ogni razza […]. Con tutta l’energia del proprio ingegno brillante e preciso, combatté quindi, in tutti i campi e per tutta la vita, i presuntuosi fanatici di una loro propria illusione – solo in ben rari momenti felici si accontentò di sorriderne» [pp. 8-9]. L’ideale erasmico può forse conciliare pacifismo e odio del fanatismo? Egli stesso sembra escluderlo:

«Per lui non vi è nel campo teologico né in quello filosofico una verità assoluta e valida per tutti. La verità ha sempre molti aspetti e molti colori, e il diritto del pari, perciò “mai il principe dovrebbe essere più prudente che nell’indursi alla guerra, né dovrebbe insistere nel suo diritto, giacché chi non considera la propria causa giusta?”» [p. 81].

Ma cos’è il «fanatismo» per Erasmo?

«Ogni volta che Erasmo alza la voce contro la guerra, l’odio e l’angustia mentale, egli diventa appassionato, ma questa passionalità del suo sdegno non giunge mai a offuscare la limpidezza dello sguardo. Idealista per il cuore, ma scettico per la ragione, egli ha coscienza di tutti gli ostacoli che nel limite della realtà si oppongono all’attuazione di tale “pace mondiale cristiana”, all’impero della ragione umana. Colui che nella sua Laus stultitiae ha descritto tutti gli aspetti della follia e della incorreggibile sragionevolezza umana, non è tra quei sognatori idealisti che credono di poter annientare o anche soltanto addormentare con la parola scritta, coi libri, con le prediche o i trattati l’istinto di violenza innato nella natura umana […]; non ignorava che forse sarebbero occorsi millenni di educazione etica e di raffinamento culturale per sbestializzare ed umanizzare la razza umana» [pp. 82-83].

La violenza si manifesta quando manca il libero pensiero: una tale affermazione è già di per sé rivoluzionaria. Con un colpo di spugna, Erasmo cancella la linea rossa che per tutto il Medioevo ha collegato la pace alla cieca osservanza del dogma, alla mortificazione della ragione: non più la fede, bensì l’«impero della ragione umana» conduce alla «pace mondiale cristiana».

«Pensatore lungimirante, aveva da tempo veduto come l’istinto di violenza in sé non costituisca ancora un pericolo per il mondo. La mera violenza ha corto respiro; ella si dibatte cieca e furente, ma senza una meta al proprio volere, con breve pensiero, destinato ad afflosciarsi impotente dopo una fugace esplosione. […] Solo allorché l’istinto di violenza è al servizio di un’idea o l’idea di esso prevale, ne sorgono i veri tumulti, le rivoluzioni cruente e distruggitrici. Solo una parola d’ordine trasforma la massa in partito, solo l’organizzazione ne fa un’armata, solo un dogma ne fa un’eresia. Tutti i grandi conflitti nell’ambito dell’umanità hanno tratto il loro movente non tanto dall’istinto di violenza insito nel sangue umano, quanto da un’ideologia capace di scatenare tali istinti e di sospingerli contro una parte predestinata dell’umanità. È stato il fanatismo, questo bastardo fra spirito e forza bruta, a volere imporre all’universo intero la dittatura di un pensiero, anzi del proprio pensiero, quale unica forma lecita di vita e di fede, e a scindere così la comunità umana fra amici e nemici, fra seguaci e avversari, eroi e delinquenti, credenti ed eretici» [pp. 83-84].

Dunque il fanatismo non coincide con l’ideologia: in esso Erasmo (con Zweig) «odia» il processo di sclerotizzazione delle idee in ideologie, non le ideologie stesse ( tantomeno le vittime dell’ideologia, che egli cerca invece di ricondurre alla ragione). Certo, l’umanista non si rivolge mai ai «condotti-sedotti», alla folla incolta: a cavallo tra ‘400 e ‘500, la possibilità di una didattica di base non è nemmeno lontanamente concepibile (anche se quello che Zweig chiama il perseguimento, nel lavoro di Erasmo, di «una sintesi suprema di tutte le idee» è effettivamente vicino a IMC). Gli umanisti, come lo scrittore sottolinea in alcune pagine davvero belle, «rappresentano in sostanza non già un contrasto alla cavalleria, ma un suo rinnovamento sotto forma intellettuale» [p. 89], il che costituisce il loro limite più grande.

«Nemmeno per un istante Erasmo e i suoi pensano di concedere al popolo, incolto e pupillo – per essi ogni persona incolta è minorenne –, neppure il più piccolo diritto, e benché astrattamente amino l’umanità intera, si guardano bene dall’accomunarsi al profanum vulgus. […] Appunto questo ignorare il popolo, questa indifferenza di fronte alla realtà, tolse al regno di Erasmo ogni possibilità di durata e alle sue idee ogni immediatezza ed efficacia: lo sbaglio primo ed organico dell’umanesimo fu di avere voluto istruire il popolo dall’alto, invece di tentare di comprenderlo, imparando da lui» [pp. 88-90].

Ci aspetteremmo che Zweig, frequentatore dei migliori salotti, collezionista di mobili preziosi (il tavolino del suo studio era appartenuto a Beethoven, con grande invidia del suo vicino –anch’egli collezionista–, Franz Werfel), senta su di sé il peso della propria affermazione. Non è così: egli si ritiene al sicuro da certi rimproveri, come pure considera al di sopra di ogni biasimo lo stesso Erasmo. Sa però che dietro all’esibito elitarismo dell’ambiente in cui vive si nasconde l’incapacità di una classe intera a rivolgersi all’uomo comune, in altre parole quella debolezza che nei giorni in cui Zweig scrive lascia spazio all’ascesa del nazismo.

«In ciò sta la tragedia dell’umanesimo, la causa del suo rapido declino: le idee erano grandi, ma non gli uomini che le proclamavano. Un grano di ridicolo permane di questi idealisti da camera, come sempre negli accademici riformatori del mondo. Sono tutte anime aride, ben intenzionate, rispettabilissime, sono pedanti lievemente vanitosi, che portano i loro nomi latini come una maschera intellettuale: la loro grottesca minuziosità fa sempre avvizzire i più rigogliosi pensieri. Questi minori compagni di Erasmo sono commoventi nell’ingenuità professorale, assomigliano un poco a quelle brave persone che ancor oggi si incontrano adunate nelle società filantropiche e riformatrici: idealisti teorici, che credono nel progresso come in una religione, sognatori a freddo […]» [p. 91].

Dover riconoscere nello stesso Erasmo uno «zampognaro della pace» (come direbbe Hans Castorp de La montagna incantata), dover raccontare la dieta di Worms e quella di Augusta e far notare la sua assenza, ammettere incredulo che «il gran dimenticato» mancò a tutti gli appuntamenti della storia, che disertò ogni opportunità di conciliare cattolici e protestanti: tutto questo gli è sommamente penoso. Eppure non abbandona il suo intento iniziale, e la biografia di Erasmo da Rotterdam è in fondo lo sforzo di distillare da una figura tutto sommato umana, il tipo universale del mediatore e del pacificatore. Che tale compito di pacificazione non possa prescindere da un potenziamento diffuso e capillare del pensiero è, a ben vedere, il fulcro di IMC, e a questo punto che parlino Erasmo da Rotterdam, Stefan Zweig o Boris Porena non fa poi molta differenza.

Dario Peluso

giovedì 20 ottobre 2011

Commento ai tre postini precedenti


[225]
Così come sono si tratta di postini assai poco metaculturali giacché prendono inequivocabilmente posizione contro: la tecnologia, il progresso, l'universo mediatico. I deboli interventi di un interlocutore fittizio non traggono in inganno: qui viene esposto un parere personale in forma di verità, come il più delle volte si usa fare anche quando si premette –più per ossequio a una moda che per convinzione– la formula relativizzante ‘secondo me…’ Qui, se ipocrisia c’è, funziona al contrario. Lo stile usato è quello della certezza, il luogo in cui si manifesta –questi ‘postini’– rimanda alla relatività metaculturale. Come interpretarli allora?

Come argomenti su cui discutere, da rivoltare nella mente ora consentendo, ora opponendo, sempre però disponibili a modificare il nostro atteggiamento se altri argomenti interverranno con forza sufficiente. Ho pensato con questi tre postini –ma forse con tutti gli altri se non con tutto ciò che ho scritto in questi anni recenti– a un modello di eserciziario da proporre per un corso di formazione metaculturale.

(scritto il 31 Luglio 2010 - conclusione del Quaderno IV)

mercoledì 19 ottobre 2011

Tre postini sulla senescenza attraverso la tecnologia (e iii)

[224]

"Ma tu ce l'hai altrettanto anche con i canali mediatici che forniscono informazioni utili, per esempio in forma di 'nozioni' che altrimenti dovresti faticosamente ricercare in luoghi difficilmente accessibili, con grande dispendio di tempo".

Ancora una volta, tu pensi allo stadio finale, al ‘risultato’, quasi che la via per raggiungerlo contasse solo per questo. Eppure proprio lungo la via si aprono alternative che possono portare in tutt’altra direzione, forse anche più promettente. Inoltre è proprio nella devianza che la mente si impegna al massimo, e il lavoro della mente è ciò per cui e di cui viviamo. Ma anche ciò che va perduto quando la via viene percorsa a velocità tecnologica, trasformando un processo di acquisizione nell’apprendimento di una nozione previamente impacchettata e pronta per l’uso. Il taglio del processo a favore dello stato finale svaluta nel tempo anche quest’ultimo nel momento che lo si raggiunge per direttissima, perdendo di fatto tutto il lavoro speso lungo la strada. “E che importa –dirà il solito interlocutore– ora che hai il risultato?”

Semplicemente che ho dimenticato come si fa a raggiungere un risultato.

martedì 18 ottobre 2011

Tre postini sulla senescenza attraverso la tecnologia (ii)

[223]

"Perché ce l'hai tanto con la tecnologia? Dopo tutto, anche tu hai la macchina, viaggi in aereo, ascolti la radio, fai lo zapping televisivo, consulti Wikipedia?"

Certamente anch’io, come tutti, delle novità della tecnica non posso, o meglio, non riesco a fare a meno.

È proprio questo il punto. Dal momento in cui si affacciano sui mercati, le novità tecnologiche diventano indispensabili e noi loro schiavi. E più le novità si fanno sofisticate e risolvono i problemi che esse stesse hanno posto il giorno prima, tanto più le vediamo come indispensabili e quasi non ci capacitiamo come finora non ce ne eravamo accorti. È un meccanismo perverso di cui tutti cadiamo vittime per quanto cerchiamo di opporci. Una specie di ubriacatura collettiva, una droga che nessuna legge proibisce, che anzi viene incentivata dalla pubblicità, a cui è concesso di entrare dovunque, soprattutto però nei nostri cervelli. Di questi vengono indebolite le difese, naturali o artificiali che siano, attraverso la riproposizione, infinite volte reiterata, e la veste accattivante sotto cui l’oggetto da smerciare nel raggiungere il compratore predestinato.

lunedì 17 ottobre 2011

Tre postini sulla senescenza attraverso la tecnologia (i)

[222]

Ecco, ora vorrei servirmi anch'io della metafora dell'invecchiamento (con tutto ciò che di spurio si trascina dietro) e per giunta per basare su di essa una critica ideologica all'attualità che, se fosse un altro a farla, molto probabilmente non l'accetterei.

L’attuale fase della civiltà ominide, salvo piccole oasi relitte, è di palese senescenza, preludente all’estinzione. Il malanno sembra aver colpito indistintamente tutte le culture, da quando si è manifestata la tendenza all’omologazione al solo modello euroamericano. Fino a poco tempo fa questo modello ammetteva due varianti in conflitto tra di loro nella cosiddetta ‘guerra fredda’, oggi risolta con l’estinzione di una delle due. La variante rimasta ha finito per imporsi, se non altro come meta da perseguire, a tutta la popolazione umana. È venuto così a mancare il principale induttore di trasformazione, il confronto con il ‘diverso’, da cui dipende la sopravvivenza di ogni entità biologica, compresa la nostra. Invano tentiamo di conservare artificialmente la diversità, l’omologazione diffusa ci impedisce e la nostra resistenza si fa ogni giorno più debole. E qual’è lo strumento omologante?

La tecnologia, in particolare quella informatica. Molti diranno: “È però innegabile che in molti settori la tecnologia è alla base del miglioramento delle condizioni di vita che un po’ alla volta raggiungerà tutti gli abitanti della terra”.

Sì ma qual’è il prezzo di questo miglioramento? Non starò qui a ripetere cose che tutti sappiamo benissimo. Le sappiamo, ma ci rifiutiamo di metterlo in conto quando ne va della nostra comodità. Ma questa comodità non porterà atrofizzazione di certe parti del corpo, per esempio le gambe o le braccia, sempre meno essenziali per spostarsi o per produrre? Forse, ma in tempi così lunghi da non doverci preoccupare nella nostra breve vita. E se questa si allungasse? Se braccia e gambe non dovessero più servirci, perché non dovremmo rimpiangerle?

Una regressione mi spaventa tuttavia, più di quella corporea, tecnicamente dominabile: la regressione della mente, assai più rapida dell’altra. Bastano due o tre generazioni di astensione del pensiero e il cervello dirotta le sue potenzialità verso altri usi come l’accomodamento al pensiero altrui. È accaduto infinite volte: le religioni, le ideologie, le mode attentano di continuo all’autonomia delle menti. Oggi poi la tecnologia informatica corre in aiuto di questi ‘signori del pensiero’: l’omologazione televisiva, pilotata da enormi interessi finanziari, viene accolta passivamente se non con piacere da miliardi di individui che abdicano al proprio cervello per assumerne uno industrializzato. Per qualche tempo alcuni hanno puntato su internet per riscattare il loro pensiero dal servaggio televisivo, ma basta navigare qualche ora in rete per accorgersi di come anche questa sia progressivamente invasa dalla ‘stupidità secondaria’, cioè indotta dai ‘signori del pensiero’, che sarebbe meglio chiamare ‘affossatori delle autonomie mentali’. Dicono che la nostra è una società democratica. Ma di che tipo è una democrazia che inibisce il pensiero individuale solo per l’interesse di pochi, che antepone il guadagno –che unicamente a questo si riduce la cosiddetta ‘crescita economica’– a un effettivo sviluppo delle nostre capacità critiche e propositive. Viviamo, tutti più o meno, in un regime di monopolio del pensiero, tanto quanto lo erano il fascismo di Mussolini, il nazismo di Hitler o il comunismo di Stalin. Non so se questi regimi ammettono delle varianti positive. Non credo. Credo però che la democrazia l’ammetterebbe.