giovedì 26 aprile 2012

Sacrificio

[378] 
 L’idea del ‘sacrificio’ ha qualcosa del mercantile: io ti sacrifico parte di me o del mio a patto che tu mi conceda… E le concessioni richieste sono del più vario tipo: … di vincere il concorso, di guarire da una malattia, di riconquistare il cuore dell’amato(a), di trovare quel certo coleottero (desiderio effettivamente espresso da un ragazzino devoto). E, se il sacrificio non pretende di essere corrisposto con vantaggi materiali, almeno chiede in cambio il perdono. Perdono per qualche colpa coscientemente commessa o –spiritualizzazione estrema–, per la colpa in sé, da cui nessuno a quanto pare è esente. Quest’ultimo caso presuppone che il concetto di ‘colpa’ sia talmente radicato nella mente umana da richiedere comunque un sacrificio per essere, non dico estinto, ma ha ridimensionato entro i presunti confini della colpa stessa.

Il sacrificio equivale cioè a un atto di sottomissione richiesto da un potere che, per ottenerlo, ha inventato la ‘colpa’. Nessun altro animale possiede quel concetto. Perfino le più complesse organizzazioni sociali (imenotteri, termiti) non mostrano di averne bisogno. Forse è giunto il tempo che anche noi possiamo liberarci dell’odioso –e inutile– meccanismo: colpa, sacrificio, perdono.

mercoledì 25 aprile 2012

Sembra che non se la cavino...

[377]
Le popolazioni del Centro-America praticavano i sacrifici umani a spese dei nemici vinti, ma anche dei propri connazionali di rango inferiore. La documentazione di questo barbaro uso la troviamo sia nella ricca iconografia autoctona sia nelle testimonianze dei missionari e degli occupanti. Uso, ma perché ‘barbaro’? Quando chi lo dice ha sterminato quelle popolazioni e ne ha perseguitati i pochi discendenti fino a tutto l’Ottocento e per giunta in nome di una religione a loro estranea e ai fini di dominio e rapina. Certo, da noi quel ‘barbaro’ uso era stato rimpiazzato secoli prima dai sacrifici animali: Isacco era stato sostituito all’ultimo momento da un montone, Ifigenia era stata sottratta al carnefice da Artemide, ma la loro stessa storia lascia supporre che fino a loro anche i nostri dei pretendevano sacrifici umani. Poi la situazione si è capovolta. Con Gesù Cristo è stato il dio a sacrificarsi per gli uomini, seguito però da schiere di uomini e donne disposte a farsi sacrificare per lui. Insomma, sembra che le religioni non se la cavino senza sacrifici umani. Forse siamo pronti per un secondo passo: abolire le religioni o lasciarle sopravvivere come optional.

sabato 21 aprile 2012

Trasferibilità

[376] 
Perché ho dedicato il precedente postino alla, peraltro assai superficiale, esemplificazione musicale di un concetto largamente applicabile anche altrove?

Appunto per questa sua trasferibilità da un ambito culturale a un altro. Nelle scuole più o meno specializzate la musica viene trattata solo nella sua specificità con i scarsi riferimenti ad altro. Del resto anche nelle comuni pratiche sociali la musica, se riveste di fatto di funzioni molteplici –tra cui quella politica–, raramente lo fa attraverso la sua propria struttura, ma piuttosto appoggiandosi alle strutture e ai significati delle parole. Lei stessa, la musica, si attiene alle modalità –semplicistiche fino alla banalità– dettate dai prodotti di consumo. Molte volte nel corso della storia musica, parola rito si sono incontrate nel segno dell’eccellenza –basta pensare al canto gregoriano, alla polifonia fiamminga, a Palestrina, a Bach–, e sempre l’apporto dei singoli linguaggi è stato di pari dignità, quando non decisamente a favore della musica. Nulla di simile negli incontri recenti, almeno in area euroamericana, dove la presenza di un quarto invitato –il mercato– ha finito per dettare legge.

Ma non ho l’intenzione di riservare questo postino a inutili doglianze e per giunta non condivise dai più. Ritorno quindi alla trasferibilità, che mi appare oggi la qualità emergente dall’esperienza musicale, giacché pur essendo presente da sempre in essa, non ho ricevuto la medesima attenzione di altre qualità, come quella estetica. Cosa intendo in questa sede per ‘trasferibilità’?

Non tanto la possibilità di essere trattata in parallelo ad altre arti e alla storia –un’interpretazione in voga nella didattica di mezzo secolo fa e tuttora considerata l’anima dell’interdisciplinarietà– quanto la ricerca di analogie di struttura che rendano possibile il trasferimento di criteri analitico-compositivi da un sistema comunicazionale (da un ‘linguaggio’) a un altro. Il lavoro svolto in questo senso permette oggi questo genere di approccio e sta andando, ormai da decenni, eccellenti risultati sia teorici che pratico-didattici. Purtroppo l’ufficialità scolastica non vuol prenderne notizia, privando così le prossime generazioni di un forte strumento di formazione metaculturale.

venerdì 20 aprile 2012

Variazione, variante in musica

[375]
Mentre ‘variazione’ è un termine prevalentemente musicale, ‘variante’ si incontra più di frequente in altri contesti (variante stradale, di piano regolatore ecc.). Nel periodo classico-romantico la variazione –per lo più come ‘serie di variazioni’– denota una forma musicale a catena, composta di elementi legati da un rapporto di somiglianza e di derivazione da un unico elemento, enunciato in genere all’inizio, il tema, di cui gli altri sono, appunto, le ‘variazioni’. In precedenza il ‘tema con variazioni’ non implicava di necessità che il rapporto di somiglianza fosse uditivamente riconoscibile. Più importante era che questo rapporto fosse strutturalmente presente, anche se di fatto già allora pochi l’avranno percepito. Stranamente, anche dopo il periodo classico la riconoscibilità del tema tra le maglie della variazione torna a farsi più problematica. Già con le beethoveniane Trentatrè variazioni su un valzer di Diabelli le singole variazioni si allontanano dal tema tanto e più di quanto avevano fatto le Variazioni Goldberg di Bach (ma su tutt’altri fondamenti grammaticali). Dopo l’Ottocento la forma classica del tema e variazioni resta solo come sedimento storico, ripreso con distacco in ambito neoclassico (Stravinskij, Hindemith) ma anche dodecafonica (Schönberg, Webern). Per il resto prevale il tipo della ‘variante’.

A differenza della ‘variazione’, la ‘variante’ non genera normalmente una forma autonoma, autosufficiente, ma si applica a qualunque altra forma per arricchire di informazione i ritorni di un episodio, di un ‘tema’. Poiché molte forme musicali della nostra e di altre tradizioni fanno largo uso della ripetizione anche di intere parti, la variante interviene spesso ad alleggerire il peso architettonico di queste ripetizioni. La funzione di una variante è in un certo senso opposta a quella della variazione. Laddove questa serve essenzialmente a differenziare l’identico, quella accomuna il diverso. Per farlo è importante che ne venga riconosciuta l’affinità con il modello, specialmente quando questo viene evocato in tutt’altro contesto. E allora è proprio la riconoscibilità del modello che fa scattare il meccanismo associativo, ma al tempo stesso rende evidente la differente collocazione contestuale, quindi il differente ‘significato’ che la variante assume rispetto all’originale. Wagner con i suoi ‘motivi conduttori’ si serve esclusivamente di varianti, mai di variazioni.

giovedì 19 aprile 2012

Incessante alternarsi...



[374]
Non ho, nel precedente postino, neppure accennato al punto dove volevo arrivare. E perché non l’ho fatto? Perché sto scrivendo ‘postini’ e ai postini non è dato di raggiungere la propria meta.

Riprendo ora dal punto che mi ha fatto deviare. Supponiamo che un dato momento (storico), le convergenze più o meno casuali, inducano le menti a pensare allo stesso modo. Se questo si avverasse, l’UCL risultante sarebbe di una noia insopportabile, e la specie umana avrebbe reagito. E lo ha fatto, nello stile inventivo che le è proprio. Inventando cioè la variazione, la variante. Per ora e nell’ambito generico in cui ci stiamo muovendo, possiamo considerare i due termini come equivalenti, se non come sinonimi. Vedremo in seguito almeno un ambito in cui non lo sono, anzi quasi si oppongono.

La variante, la variazione presuppongono –così vuole la semantica– una configurazione di base, da cui altri sarebbero derivate. Condizione essenziale –per quanto a volte direttora– è (sarebbe) la riconoscibilità di questa parentela, riconoscibilità affidata ai più diversi portatori. Il criterio principe in base al quale giudicare di questa riconoscibilità è la somiglianza (o similitudine). Si potrebbe anche dire il contrario: che la somiglianza si basa sulla riconoscibilità, ma la cosa non cambierebbe. (Spesso le definizioni sono simmetriche, e allora è poco importante stabilire chi definisce chi). Più interessante ricercare come avviene il riconoscimento, che cosa determina una somiglianza, addirittura un’identità. All’epoca di Musica prima (anni Settanta) distinguevo tra somiglianza ‘geometrica’ e somiglianza ‘gestaltica’, la prima razionalizzabile mediante semplici operazioni geometriche (sovrapposizione, proiezione, misurazione…), la seconda affidata alla irrazionalità intuitiva, come quando diciamo che due fratelli si somigliano anche se uno è biondo, l’altro bruno, uno è più alto, hanno gli occhi di colore differente e così via (oggi mi limiterei a dire –wittgensteianamente– che si ‘somigliano’ in quanto abbiamo a disposizione questa parola e sappiamo quando e come usarla). Non è ovviamente una spiegazione ma ci serve per liberarci di un problema scomodo. Ritornando alla variazione (variante, variabilità…), sappiamo di che si tratta e sappiamo anche servirci di questo espediente per evitare la monotonia della ripetizione. La ripetizione è necessariamente monotona? necessariamente ‘noiosa’?

Dipende da come la viviamo (per esempio l’incessante alternarsi di giorno e notte ci è gradita nonostante sia monotona). Perché non sia ‘noiosa’, basta che la identità si coniughi con il suo contrario, la diversità, generando appunto la variazione.

mercoledì 18 aprile 2012

Che cosa spinge le ideologie al successo?

[373]
Forse pensiamo e ripensiamo sempre le stesse cose. Forse non possiamo fare diversamente perché in un certo momento (storico?) le cose da pensare suggerite da quel momento sono effettivamente in numero limitato. Non voglio dire con questo che le circostanze di vita siano le stesse per tutti, ma è probabile che i problemi che la vita associata pone agli individui in un certo tempo e luogo abbiano tra loro delle analogie che favoriscano in media certi stili mentali e non altri. Ne conseguono delle ‘convergenze’ che in altri momenti sarebbero impensabili. Così per esempio le convergenze dell’opinione pubblica su un partito decisamente in minoranza fino a pochi mesi prima, o l’improvvisa caduta dei consensi per l’imprevedibile avanzata di una forza politica sorretta da un’ideologia vincente.

Che cosa spinge le ideologie al successo?
• i contenuti momentaneamente condivisi?
• il potere carismatico di un leader?
• una situazione economica momentaneamente favorabile e più o meno abilmente rivendicata da una parte politica?
• la diffusa carenza di pensiero critico?
• il contagio epidemico?
• la ‘qualità’ dell’ideologia?

Ho nominato per ultima la ‘qualità’ dell’ideologia. Ideologie unanimemente giudicate disastrose, come il nazismo o lo stalinismo, hanno goduto di un grande favore popolare. Non credo quindi nella ‘buona qualità’ di un’ideologia come ragione del suo successo. Credo piuttosto nella casuale convergenza, come già detto. E proprio questa ‘casualità’ costituisce un pericolo permanente da cui può difenderci solo la pienezza del pensiero critico. Ma chi curerà questa pienezza? O almeno tenterà di fare in modo che l’UCL e i suoi itinerari formativi puntino in quella direzione?

martedì 17 aprile 2012

… il primo chiude là dove la seconda apre

[372]
La struttura ‘aperta’ di questi postini (per lo meno di alcuni) si riflette talora anche nella loro ‘forma’ (o ‘non forma’). Ne è un esempio il postino precedente. Infatti:
• Lo spunto iniziale. “Le cose che penso sono o non sono le stesse?” cede quasi subito a una riflessione sui ‘meccanismi mentali’ che uniscono e disgiungono.
• Viene tematizzata la priorità tra ‘concetto’ e ‘parola’, il primo chiude là dove la seconda apre.
• Si finge un dialogo, cui si aggiunge un terzo personaggio, che prima riporta semplicemente il dialogo, poi esce di scena per interpretarlo.
• Quindi assume il ruolo del ‘difensore della parola’, e il dialogo prosegue…
• … subito interrotto definitivamente.

Mi domando –e passo al ricevente– quando e perché servirsi di strutture ‘aperte’?

Se uno non vuole prendere posizione, perché non tace e basta? Forse è più utile (a chi?) Presentare le posizioni alternative, che assumerne una in proprio…

O la coesistenza di due posizioni alternative ne genera delle altre?

domenica 15 aprile 2012

Sempre allo stesso modo...

[371]
Non è la prima volta che ho l’impressione di pensare sempre le stesse cose. Più che le stesse cose penso cose diverse allo stesso modo. E questo è ciò che molti, e anch’io, chiamiamo ‘stile di pensiero’, un meccanismo mentale che unifica laddove altri disgiungono. Attraverso i sensi percepiamo la pluralità; la ragione la riduce a unità, complice il concetto, la parola. È il concetto che produce la parola o è il contrario? Non lo so, ma sospetto che primaria sia la parola che comunica e diffonde un’unificazione avvenuta. “Avvenuta dove, se non nel concetto”, diranno alcuni, “che però resterà lì, inerte e sepolto nell’individuo pensante”; “Nella parola –diranno altri– che ‘apre’ il concetto e lo rende disponibile”. “Già –riprendono i primi– ma che cosa ‘apre’ se non qualcosa che c’è già, il ‘concetto’ appunto”. E così via, grazie alla struttura del linguaggio che distingue ‘soggetto’ da ‘complemento oggetto’, nominativo da accusativo. Quindi: “Riduzione alla parola, come volevasi dimostrare…”.

“Riduzione preconcetta, che non dimostra nulla…”

………

sabato 14 aprile 2012

Terzo commento d’autore a ‘L’Universo relazionale’

[370]
I quindici postini de L’Universo relazionale, sottotitolati Una fantasia antropologica, hanno complessivamente le dimensioni di un piccolo saggio. Ma non arrivano ad esserlo. Gli manca l’unità sia progettuale che esecutiva. Fino a pochi anni fa credevo nel saggio, voglio dire nella mia capacità di scriverne. In effetti sono forse più ‘di casa’ nei testi di didattica o di riflessione sulla didattica. Non sono abbastanza paziente per acquisire tutte le informazioni indispensabili a un buon saggista. Persone degnissime mi hanno ‘accusato’ (il verbo però e inadeguato) di voler fare tutto da me e di non accorgermi che molte cose le avevano già dette, e meglio, altri. Vorrei ancora una volta rassicurare chi leggerà questi postini che sono ben consapevole di non essere quasi mai l’autore di ciò che scrivo, ma solo l’occasionale ripetitore o meglio il ri-assemblatore di pensieri vaganti tra gli UCL. Sono infatti convinto che, se c’è qualcosa di nuovo sotto il sole, questo non risiede negli oggetti, fisici o mentali che incontriamo, ma nelle relazioni che istituiamo tra essi, relazioni sempre diverse come diversi siamo noi che le instauriamo.

giovedì 12 aprile 2012

Secondo commento d’autore a ‘L’Universo relazionale’

[369]
Gli argomenti che affiorano in questi postini sono i più vari. Assai pochi quelli di mia stretta competenza. Se c’è una finalità formativa nell’insieme – come credo anche senza averla preventivata– potrebbe essere quella di mostrare come tutti siamo capaci di esprimere opinioni sensate anche su cose di cui non siamo competenti. Questo è tanto più vero quanto più gli argomenti ammettono, oltre la veste specifica, anche una più adatta alla quotidianità più vicina alla ‘competenza comune’. Gli anni Settanta e Ottanta hanno visto il massimo riconoscimento tributato a questa competenza. Interi percorsi didattici si sono modellati su di essa e tra questi la cosiddetta ‘pratica culturale di base’, alla quale il Centro Metaculturale ha dedicato più di trent’anni di sperimentazione con bambini e adulti. Di quei percorsi –tutti, per quel che ci riguarda, accuratamente descritti e documentati– gli attuali Postini, come già le Metaparole, sono la continuazione o, se si vuole lo sbocco non specifico, non settoriale. Di qui la varietà tematica di ambedue le raccolte. Nati dopo un lungo periodo di lavoro sulla ‘pratica culturale di base’, esse fanno largo uso di uno ‘stile mentale’ aperto, accogliente la diversità, addirittura la contraddizione secondo quanto precedentemente teorizzato da IMC (Ipotesi metaculturale). Di qui anche la variabilità dello stile espositivo, oscillante tra il serioso e il disinvolto, dove non è affatto detto che l’eventuale ‘serietà’ si trovi tutta da una parte. La diversità di tono tra i vari postini dovrebbe –così spero– facilitarne la lettura in un’era dove, soprattutto per i giovani, questa attività si riduce spesso alla decrittazione di messaggini più o meno standardizzati. Anche le dimensioni dei postini sono, con poche eccezioni, commisurate al gusto antiletterario della maggioranza. Ciò mi ha costretto a comprimere in poche frasi ciò che volevo dire, e di ciò non posso che essere grato ai miei solo sognati committenti. Questi mi hanno anche obbligato a servirmi –ancora una volta con poche eccezioni– di un linguaggio ‘basso’, antiaccademico, ma il più possibile corretto e chiaro. E anche di questo, se ne sono stato capace, ringrazio i miei nuovi modelli.

Ancora un postino di commento, poi passiamo ad altro. Allah è grande, e anche la biosfera non scherza.

mercoledì 11 aprile 2012

Primo commento d’autore a ‘L’Universo relazionale’

[368]
Formalmente la serie risulta fortemente squilibrata, con un N.5 ipertrofico e scomposto in dieci sezioni, la prima delle quali genericamente distinta all’ambiente come creazione dell’uomo, le altre a sue specificazioni, ciascuna pensata come un postino a sé, più un N.6 di chiusura, di dimensioni tra il doppio e il triplo di un normale postino. Tutti peraltro sono brevi, se non brevissimi, come si conviene a un postino, ma del tutto insufficienti a una trattazione anche succinta del tema proposto. Allora questo tema non viene neppure affrontato il postino prende quasi subito altre strade. Senile incapacità a perseguire un cammino scelto? Certo, anche questo, ma soprattutto tentativo di fare di necessità virtù, di fondare una ‘forma’ sulla dispersione anziché nella concentrazione del pensiero.

Non è una novità: tutta la produzione di Nietzsche è fatta così, per non parlare dello stile gnomico cui hanno sacrificato poeti e scrittori di ogni tempo luogo. Che cosa attira tanto chi scrive; meno assai chi legge. Rare volte mi sono imbattuto in qualcuno che leggesse le Massime di La Rochefoucauld o le Xenien di Goethe e Schiller, o lo Zibaldone di Leopardi. I postini non hanno la pretesa di entrare in concorrenza con quegli illustri esempi. Semmai vogliono essere qualcosa come un’elettrogramma del pensiero, una traccia appena un poco riflessa di ciò che si affolla alla mente al semplice contatto con un argomento. Talvolta il contatto produce qualche scintilla, più spesso non fa che richiamare cose già pensate da me o da altri. Altra caratteristica di questi postini è di non distinguere gli apporti esterni da quelli della casa. È molto gratificante non distingue un pensiero proprio da uno di Aristotele o di Kant, o addirittura di percorrere un itinerario mentale di Wittgenstein pensando che sia il proprio. Forse tutto l’universo del pensiero è come un dedalo di vie percorse infinite volte senza che sia rintracciabile –o addirittura sarebbe insensato tentarlo– un primo passaggio. Può sembrare una dolorosa, non richiesta rinuncia preventiva quella al diritto di prima notte con un’idea, che tuttavia non possiamo sapere se prima che nostra non è stata di qualcun altro. Ma è una rinuncia che estende questo diritto a tutto l’universo del pensiero.

lunedì 9 aprile 2012

Mostra grafica di Paola Bučan ad Anzio

Questo Venerdì 6 Aprile è stata inaugurata la mostra grafica di Paola Bučan ad Anzio, Museo Civico Archeologico. Notevole progetto espositivo, coraggioso nel concetto –mettere in rapporto diretto oggetti archeologici e 'oggetti' pittorici, in modo che 'parlino tra loro'–, meditato e professionale nell'esecuzione. Molte grazie alla dott.sa Giusy Canzoneri, direttore del Museo, e ai suoi collaboratori!









In contemporanea, è stato presentato il saggio di Boris Porena (2007), Disegnare al violoncello - Ascoltando e osservando Paola Bučan, sulla sua figura professionale –violoncellista, pittrice– e umana (x+262 pagine A4 in quadricromia).

sabato 7 aprile 2012

5j) La biosfera

[367]
È l’ambiente in senso lato. Precisazione di un concetto che gli uomini hanno sempre usato: biosfera come ‘mondo dei viventi’. Non conosciamo tuttavia l’estensione di questo mondo e non sappiamo neppure se sia sferico. E poi, che ne facciamo dei ‘non viventi’? Gli assegniamo un mondo a sé o associamo anche loro al mondo nostro? Un mondo di viventi che non vive… E cosa gli manca per vivere?

L’essere? No, perché lo condivide con i viventi…
Il divenire? No, perché cambia di continuo sotto i nostri occhi.
Il moto? No, perché non c’è parte che non si muove.
L’inerzia? No, perché anzi ne è la caratteristica principale.

E allora perché distinguiamo il ‘vivente’ dal ‘non vivente’? Intanto chi distingue?

Dubito che la mosca distingua tra la mano su cui è poggiata e il tavolo su cui è poggiata la mano. Forse li distinguerà per il diverso sapore, odore, aspetto ecc., ma non certo per essere l’una vivente e l’altro no. Gliene manca il ‘concetto’. Cioè a dire, la distinzione dipende dal concetto e, poiché nel mondo il numero degli enti capaci di pensiero concettuale è presumibilmente irrisoriamente piccolo, la distinzione resta insignificante e non vale la pena parlarne.

[La parola permette di liquidare se stessa e allo stesso tempo i concetti che essa esprime. A proposito: la parola, come la musica, l’immagine visiva ecc., appartengono al mondo della vita –alla ‘biosfera’– oppure no? Un’ammonite, lo scheletro di un cane? un cristallo di calcite?]
………

Supponiamo di esserci chiariti sul concetto di ‘biosfera’, è chiaro che ne facciamo parte. Ma non siamo gli unici. La domanda è: che rapporti abbiamo con i nostri ‘fratelli’ viventi?

[La parola ‘fratelli’ suona molto francescana, eppure potrebbe –metaforicamente o anche realisticamente– non esprimere altro che un effettivo rapporto di parentela, riconducibile a qualche miliardo di anni fa, quando a una molecola di aminoacido venne in mente di duplicarsi.]

Quindi, qual’è il nostro rapporto con la biosfera?

È lo stesso di cui godono gli altri enti che la compongono? A partire almeno dall’insorgere –si suppone nei primati– del pensiero concettuale, alla biosfera ‘in quanto tale’ [ma che vuol dire?] si sono affiancati, sempre più numerosi, i duplicati che con crescente precisione ne hanno fatto le menti pensanti. La domanda allora si specifica: qual’è il rapporto tra i vari duplicati e tra questi e il prototipo?

Alla seconda parte della domanda la risposta è quasi immediata: non lo sappiamo né possiamo saperlo perché il ‘prototipo’ non è raggiungibile che attraverso dei duplicati. Più difficile rispondere alla prima parte, per la grande variabilità, nel tempo e nello spazio, di quei duplicati. L’immagine che del mondo si sono costruiti i cinesi o gli indiani è assai diversa dall’immagine costruita dagli occidentali; quest’ultima è inoltre radicalmente cambiata dal medioevo a oggi. Negli ultimi secoli abbiamo visto un avvicinarsi l’una all’altra delle varie immagini, tanto che possiamo dire che, almeno dal punto di vista fisico, oggi vediamo il mondo in modo simile. La ragione di questo avvicinamento –l’ho detto ormai più volte– sta nella sempre maggiore invadenza del numero nel nostro stile di pensiero. [Il numero, che, mentre da un lato permette un accostamento infinitesimale nella ‘realtà’, dall’altro lo fa erigendo sempre nuove barriere che ce lo impediscono]. Se quindi un avvicinamento tra i duplicati e tra questi e il prototipo c’è stato e continua nella sua marcia grazie all’aritmetizzazione della fisica, il rapporto tra la biosfera e la nostra mente resta, come per l’antico, di una complessità irraggiungibile dal numero. Di recente, se si è manifestata una forte tendenza all’unificazione delle immagini del mondo altrettanto se non più forte è stata la tendenza alla loro separazione che ci ha portato più volte sull’orlo di una catastrofe planetaria evitata più per caso che per la nostra illuminata intelligenza. L’attuale problema consiste quindi nel comporre queste divergenti tendenze sfruttando il piccolo angolo che le allontana dal perfetto allineamento (dallo scontro frontale).

[Credo che avremmo tutto da guadagnare –a cominciare dalla sopravvivenza– se i nostri politici, anziché di se stessi e delle loro maggioranze, si occupassero di come mantenere le diversità culturali pur componendole metaculturalmente in ‘un’unità complessa di ordine superiore’. Detta così, sembra quasi che io o qualcun altro sappia come fare. L’immagine di ‘un’unità complessa di ordine superiore’ è solo una metafora, dietro la quale allo stato attuale non c’è nulla e tutto è da costruire. Abbiamo solo l’immagine, e questo è decisamente troppo poco.]

Non c’è però solo da considerare il rapporto tra le nostre immagini del mondo (cioè, in definitiva, tra di noi), c’è anche il rapporto tra noi e la biosfera, che conosciamo poco e pensiamo di poter sfruttare a nostro piacimento. Quanto sia folle questo pensiero, la biosfera ce lo dice, anzi ce lo mostra ogni giorno. E non siamo che all’inizio dei cambiamenti che ci siamo proposti di fare; e di quelli che, senza esserceli proposti, stanno avvenendo per causa nostra. Al primo punto metterei l’aumento della popolazione umana; al secondo l’aumento della produzione globale (che è legata al punto precedente ma anche alla crescita del welfare). Se è vero che siamo troppi e consumiamo troppo, è anche vero che il consumo avviene in maniera intollerabilmente sperequata. L’entità di molti, troppi, guadagni –comunque illeciti se commisurati al lavoro per cui sono stati elargiti– è tale da rendere l’intero ‘sistema’ intimamente instabile e in grave pericolo di crollo. E non è solo l’ingiustizia sociale a farci temere una reazione incontrollabile, è l’insulto al nostro pianeta, all’intera biosfera che ci mette al rischio di una catastrofe ambientale contro cui ben poco potremmo fare. Non possiamo essere sicuri di una catastrofe del genere; anche a buttarsi dal decimo piano non c’è da essere sicuri dell’esito, ma perché provarci se non siamo interessati al suicidio?

A quanto pare, né i rapporti interspecifici né quelli tra noi e il mondo dei viventi e non viventi può dirsi idilliaco. Così non è sempre stato, fino all’avvento dell’era tecnologica, diceva, se non altro tra noi e l’ambiente, un clima di rispetto reciproco, ogni tanto rotto da occasionali intemperanze di quest’ultimo (terremoti, inondazioni…), che tuttavia non hanno mai attentato alla sopravvivenza di tutti gli abitanti della biosfera. Oggi un simile attentato sembra possibile, perpetrato dall’animale che si ritiene privilegiato al punto di non tener conto di tutti gli altri e neppure dell’ambiente che gli consente di vivere. Non so se quest’animale merita di sopravvivere [perché, vive solo chi lo merita?]; non so neppure se, qualora lo meritasse, sarebbe abbastanza intelligente da riuscirci.

[Fine della serie di postini intitolata
L’UNIVERSO RELAZIONALE
(una fantasia antropologica)]

Cantalupo, 21 settembre 2010

venerdì 6 aprile 2012

5i) Le leggi


[366]
È un argomento tecnico in cui non posso entrare. Poiché tuttavia è anche un argomento che ci riguarda tutti ma soprattutto delimita da un certo punto di vista il nostro spazio vitale, l’ambiente antropico che ci siamo costruiti, qualche osservazione ci è concessa.

Ha senso parlare di ‘leggi di natura’ come la gravitazione o la costanza della velocità della luce nel vuoto?

Più che di una legge ne parlerei come di un attributo dell’oggetto considerato, inscindibile da questo, o un attributo relazionale che accompagna necessariamente la relazione in questione. A una legge umana si può contravvenire, a una legge di natura no. Queste possiamo cambiarle, quelle no. Possiamo però ‘falsificarle’ se scopriamo almeno un caso in cui non sono valide.

La parola ‘legge’ ha almeno due significati distinti.

In una repubblica ideale, abitata da esseri indefettibili, non ci sarebbe bisogno di leggi.

Se consideriamo la legge come un ‘patto sociale’ che regola i rapporti tra tutti contraenti, questa trova la sua ragion d’essere nel fatto che indefettibili non siamo e che patti possono essere disattesi. La legge ha il suo fondamento nella non osservanza della stessa. Se fosse commisurata all’uomo non avremmo bisogno di nominarla separatamente così come, dicendo “uomo”, non ne nominiamo le singole parti. Ne ricaviamo che, non essendo ‘di natura’, le leggi sono un prodotto nostro, defettibile quanto lo siamo noi e che quindi non meritano maggior ‘rispetto’ di chi vi contravviene. Non conosciamo infatti le complesse e contraddittorie ragioni che determinano i nostri comportamenti. Se il concetto di ‘leggi’ va relativizzato, tanto più questo vale per il concetto di ‘colpa’, enfatizzato dalle religioni fino a farne un carico supplementare al carico dell’esistenza, mentre sarebbe da espungere, se non altro dal quadro delle leggi. Queste penso che dovrebbero occuparsi essenzialmente dell’incidenza delle nostre azioni sul sociale e sull’ambiente anziché della sua valutazione nei termini astratti rigidi di un codice. Non credo nelle azioni e tanto meno negli individui ‘colpevoli’, credo piuttosto nell’insufficiente contestualizzazione dei fatti da parte dell’organo giudicante.

Sono ovviamente possibili molte altre letture della parola ‘legge’. Tra queste vorrei e sceglierne una, sempre non specialistica, ma più attenta della precedente alla ‘realtà’. Uomini e donne non sono indefettibili né le loro repubbliche sono platonicamente ‘ideali’. Le leggi intervengono appunto a compensare le loro debolezze. E la nozione di ‘colpa’ localizza la trasgressione evitando di spalmarla su tutta l’umanità. In questo senso non rende possibile la sopravvivenza di ‘non colpevoli’, cosa che non faceva il ‘peccato originale’, che, se non ci fosse stato chi ce ne ha liberato, continuerebbe a condannarci tutti per l’eternità – colpa effettivamente inaudita, ma di chi se non di colui che l’ha inventata?

Oggi i ‘non colpevoli’ se la cavano, ma che ne è dei ‘colpevoli’? La condanna li colpisce, anche se non per l’eternità. E a che titolo fa? In nome della giustizia. Una giustizia che non si propone l’infallibilità, ma tollera errori, tanto chi paga è comunque un altro… È la versione cinica di questa ‘lettura’, da affiancare a un’altra, socialmente più motivata.

La giustizia non mira all’autoaffermazione come garante di verità ma solo a riequilibrare, seppure con altre ingiustizie, quelle che gli uomini non possono fare a meno di compiere. E a questa compensazione la società sembra non voler rinunciare. Un tempo si chiamava ‘vendetta’; oggi la parola suona male, ma la cosa è rimasta, con una sovrincrostazione di ipocrisia che non la rende migliore. Altre giustificazioni la giustizia adduce a sua difesa e non è facile disconoscerne la validità. Così una parte almeno della condanna serve a risarcire il danneggiato del danno subito. Ma c’è da esser sicuri che il danno avvertito sia uguale al danno inflitto? Il pregiudizio matematico parifica le cifre, non il loro valore soggettivo, e questo è ciò che conta. L’invenzione del numero proprio a questo è servita: a sostituire con delle invarianti di superficie le variabili profonde dell’esperienza umana. È una palese ingiustizia, ma come rettificarla? La giustizia non può che fare appello all’inerzia dei numeri. La mobilità dell’animo umano non è affar suo, e anche la giustizia non può che ignorarla.

giovedì 5 aprile 2012

5h) I media


[365]
L’ambiente da noi abitato è in larga parte mediatico. Da un lato i media stanno enormemente ampliando, sia pure virtualmente, la porzione di universo irraggiungibile dai nostri sensi. Non c’è quasi angolo della terra non investigato dalle telecamere a esserci familiare in tutti i suoi particolari dalle straordinarie tecniche di riprese sviluppatesi negli ultimi anni. Meglio di una formica chiunque può oggi esplorare l’interno di un formicaio e la vita che vi si svolge in tutte le sue interrelazioni, il tutto messo a disposizione della nostra inesauribile curiosità e voracità conoscitiva. Niente più off limits; niente più privacy per tutto ciò che vive e ciò che, vivendo, possiamo raggiungere in immagine.

Ma è proprio questo limite –si dirà– l’immagine che sostituisce il reale… Come se il reale ci si presentasse altrimenti che per immagine. Che sappiamo noi di un qualsiasi oggetto se non ciò che i sensi ci permettono di sapere? Ma la conoscenza va molto al di là dell’immagine sensoriale! Certamente, ma anche le immagini che l’attuale tecnica ci mette a disposizione sono infinitamente di più di quelle visive trasmesse dalla televisione. L’analisi componenziale che gli odierni strumenti rendono possibile, così come le analisi relazionale che quasi verificano il concetto stesso di ‘componente’ in favore di una concezione olistica della realtà ci rendono per così dire partecipi di un atto creativo che si pensava fosse di ben altra competenza – l’uno e il tutto, per servirci di un’antica formula filosofica non solo sono oggi a portata di mano (e non c’è bisogno di essere Einstein per allungarla, questa mano), ma possiamo discuterne, grazie ai media, da migliaia, milioni di kilometri di distanza… Una persona che mi conoscesse anche solo attraverso questi postini potrebbe meravigliarsi di trovare in me un convinto difensore della modernità; troppe volte mi ha visto come un prudente conservatore, poco incline alle ubriacature tecnologiche…

E chi ha detto che sono convinto?

Ogni tanto ci provo, ma, nonché convinto, non mi riesce neppure di essere convincente… L’interesse –non certo l’entusiasmo– per la politica mi spinge talvolta a cimentarmi in una difesa d’ufficio della modernità, ma una difesa convinta ed efficace dovrebbe basarsi sui fatti e non sulle parole e i miei –se così posso dire– ‘fatti’ sono le note musicali che ho scritto in passato, e questi non mostrano alcuna propensione per uno ‘sperimentalismo’ moderno…

O forse tra i ‘fatti’, in qualche caso almeno –e io ci rientrerei?–, trovano posto anche le parole?

Vedo che la tendenza centrifuga dei media ha contagiato anche me. Del resto l’intento di questi postini e mai è stato quello di mirare a invitare qualcuno alla coerenza; piuttosto quello di distogliervelo per adire ai campi, assai più grati, dell’incoerenza.

mercoledì 4 aprile 2012

5g) Il classismo

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Le relazioni umane hanno verosimilmente avuto origine da analoghe, irriflesse strutture del mondo animale. Ciò dicendo non intendo tanto quelle che si osservano tra gli invertebrati –in particolare insetti–, troppo lontani da noi per poter essere considerate ‘analoghe’, e neppure quelle tra gli uccelli, piuttosto più o meno casuali assemblamenti stabilizzati per esigenze difensive. Penso soprattutto al comportamento dei mammiferi, presso i quali la dominanza crea, soprattutto nei pungenti, delle strutture relazionali paragonabili alle nostre. Quando la televisione ci mostra un gruppo di scimpanzé in marcia ordinata verso una tribù rivale –il termine ‘rivale’ è però già troppo umanizzato– è difficile non pensare a una colonna militare, comandata da un ufficiale, in visione di guerra. Abbiamo qui a che fare con una vera e propria ‘casta’ di guerrieri, o solo con la momentanea assunzione, ancora indifferenziata, di una ‘funzione’ sociale? Non ho abbastanza informazioni per potermi pronunciare. Ci sono indubbiamente tra gli scimpanzé individui meglio dotati fisicamente, non so però se ci sia una corrispondenza puntuale tra prestanza fisica e dominanza, in particolare tra quella e gli abbozzi di una strutturazione sociale per classi. La somiglianza è assai maggiore con gli imenotteri sociali (formiche, vespe, api, bombi), presso le quali le ‘classi’ hanno prodotto anche un evidente differenziazione morfologica. Ciononostante le affinità con le classi politicamente intese restano un fenomeno superficiale di convergenza.

Nella specie umana le classi non sembrano avere un fondamento biologico tanto è vero che non abbiamo difficoltà a immaginare una società senza classi. Anzi, più volte nel corso della storia e in tempi diversi gli uomini hanno provato a realizzarla, senza peraltro riuscirvi, salvo che per piccole comunità. Il tentativo più consistente si è avuto recentemente con il comunismo, tuttora in vita, anche se non si può certo dire che in esso sia scomparsa la strutturazione per classi. Ricordo di aver sperimentato io stesso, episodicamente, l’insopportabile peso della burocrazia nelle società comuniste e l’altrettanto deprimente oppressione della casta militare sia al di qua e al di là della ‘cortina di ferro’.

I termini ‘casta’ e ‘classe’ non sono certo sinonimi, diverso è l’orizzonte politico in cui si iscrivono, ma nel creare differenze e privilegi si equivalgono. La ricerca del ‘privilegio’ è tra i più efficaci motori dell’attività umana. Il concetto non troverebbe applicazione in una società di formiche, ma già tra i lupi e le iene si osserva qualcosa di simile. Le attuali ideologie egalitarie richiedono parità di diritti per tutti, dove peraltro sia ‘parità’ che ‘diritto’ che tutti’ hanno una larga banda di significati, entro cui possono aver luogo le più diverse interpretazioni. Ed è bene che sia così, sempre che sentiamo come un privilegio il fatto di non essere né formiche né scimpanzé.

martedì 3 aprile 2012

5f) La politica

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Nessuno chiederebbe alla politica ciò che spera di ottenere dalla religione. Ciononostante le richieste sono pesanti per ambedue: benessere in terra, felicità eterna ‘dopo’. Richieste ovviamente inesauribili sia qui che lì. Ciò che invece potremmo pretendere, almeno in una misura molto maggiore di comici hanno abituato, ambedue, sia dalla religione che dalla politica, è l’onestà. Non penso tanto all’incorruttibilità picciola quanto all’onestà sulle questioni di fondo nel rapporto con i seguaci e con gli avversari.

Se nelle religioni la veridicità dipende non solo dall’onestà dell’emittente ma anche dalle convinzioni del ricevente –che valuterà come ‘veri’ anche messaggi che per un altro sono ‘falsi’–, in politica, in una politica ‘onesta’ sarebbe auspicabile che verità e falsità fossero indipendenti sia dall’emittente che dal ricevente. Poiché tuttavia questa indipendenza presupporrebbe per il messaggio un valore assoluto che non gli compete, ogni attribuzione di valore andrebbe metaculturalmente riferita a un UCL riconosciuto e dichiarato. È già da tempo in uso, presso i politici più accorti, far precedere l’espressione di un parere, dall’espressione standardizzata “secondo me” o “secondo noi”. Questa apparente relativizzazione è essa stessa assai poco ‘onesta’, quando per esempio si accoppia a una riconosciuta ma non sempre meritata autorità. In questo senso la religione è più onesta perché non relativizza mai, ma afferma o nega assolutamente. Lo fa anche la politica, limitatamente però ai regimi dittatoriali o appoggiandosi a una qualche religione. Le democrazie hanno invece escogitato dei meccanismi –le elezioni, il vuoto, i referendum– che relativizzano a priori, e sembrano in tal modo meglio garantire i diritti di tutti. Ne nasce invece un ‘mercato della disonestà’ nel quale ogni gruppo politico tenta di accattivarsi in tutti i modi il favore dell’elettorato, anche mentendo spudoratamente o facendo promesse da marinaio.

Come difendersi dalla dittatura? Con le rivoluzioni.

Come difendersi dalle insidie della democrazia? Coltivando l’autonomia del pensiero.

E come difendono se stesse le dittature? Con la repressione.

E la democrazia come difende se stessa?

Limitando l’autonomia del pensiero, cioè ancora una volta con la repressione, seppure contenuta in forme più blande, più nascoste. In definitiva, sempre con la disonestà.

lunedì 2 aprile 2012

5e) La religione

[362]
Poco c’è da sperare dalle religioni –tutte– in ordine ai processi evolutivi della società. Perfino la religione più progressista –il comunismo– ha arrestato il suo di fronte al ‘muro’ del capitale. Questo del canto suo si presenta, anche lui come una religione o almeno sotto copertura religiosa, ma apparentemente assai più agile e trasformista dell’altro e quindi adatto a un’immagine dinamico-evolutiva della società. Ma basta sollevare un lembo di questa copertura per scoprire la sostanziale immobilità del modello sottostante: crescita illimitata di un welfare incompatibile con il nostro pianeta.

Non tutte le religioni concordano con questo modello, anzi la maggior parte se ne tengono a doverosa distanza, magari celebrando i fasti della povertà, dell’astinenza. Ma, a parte la loro storia, niente affatto aliena dall’oro, anche la loro quotidianità è, salvo poche, isolate eccezioni, organica al capitale, senza il quale anche il loro potere non sussisterebbe. Perché, più che un’intima disposizione dell’animo, ogni religione è potere, se si vuole più subdolo di qualsiasi altro, perché giocano su inverificabili credenze e se ne serve ai fini di esclusivo dominio.

domenica 1 aprile 2012

5d) La cultura

Francisco de Goya - Duello a bastonate (dalle Pitture Nere)

[361]
[Mi sto accorgendo che questa mia esposizione si sta riempiendo di ‘universi’: l’universo relazionale, segnico, comunicazionale ecc. Me ne scuso con il ricevente, raccomandandogli di non prendere troppo sul serio il termine che non vuol dire altro che: tutto ciò che concerne le relazioni, i segni, le lingue, la comunicazione…]

È da tempo che all’interno, e ormai anche fuori dal Centro Metaculturale, facciamo uso della sigla UCL (Universo Culturale Locale) al posto di ‘cultura’. Non ripeterò quindi le ragioni che ci hanno spinto a tale uso (si veda in proposito IMC 1999). Dirò piuttosto che il concetto di UCL definisce al meglio l’ambiente antropico (la società) che sto considerando in questo N.5. E perché lo farebbe? Perché, pur non essendo noi l’unica specie animale capace di cultura, l’abbiamo sviluppata fino a identificarla con l’ambiente stesso in cui viviamo. Spesso le opponiamo un ambiente ‘naturale’ (N.4), dimenticandoci che interpretiamo quest’ultimo attraverso gli UCL e che questi UCL variano appunto da luogo a luogo, ma in ogni caso ci impediscono una conoscenza diretta del mondo.

[Mi viene da chiedere se gli animali, almeno alcuni, possiedono questa conoscenza, dal momento che nessuno schermo culturale si frappone tra loro e il loro ambiente. Può darsi che vi siano altri schermi, altrettanto o più impermeabili, può darsi anche che il concerto di ‘schermo’ sia un intruso eliminabile, come dire che gli occhiali sono uno schermo per la vista…]

E proprio la variabilità degli UCL permette anche alla nostra specie di mantenere al suo interno quella diversità che la globalità sembrerebbe voler escludere. Da quando Homo sapiens ha colonizzato di fatto tutti gli ambienti estromettendone i legittimi occupanti, anche la diversità si è dovuta ridurre entro limiti endospecifici. Di conseguenza è enormemente aumentata l’aggressività interna per compensare la perdita di diversità disponibile nell’ambiente. E gli uomini hanno visto come ‘diversi’ i propri simili, solo che fosse diverso il loro UCL, adottando anche per essi lo struggle for life che dominava da sempre –così si pensava– la maggior parte delle relazioni interspecifiche.

A questo punto ci si domanderà se le interrelazioni interspecifiche devono necessariamente essere improntate alla lotta, come vorrebbe certo darwinismo male interpretato. La nostra attuale concezione ‘sistemica’ del vivente non si riduce in alcun modo al solo struggle; le relazioni di simbiosi, di collaborazione tra organismi diversi sono probabilmente altrettanto se non più frequenti che quelle di competizione, rivalità. È proprio la dominanza esclusiva di Homo sapiens che lo ha ‘costretto’ all’inimicizia interna con tutto ciò che ne consegue. Come uscire da questa costrizione?

A parole è semplice: abbandonando il modello dello struggle for life e adottandone uno più vicino a quello delle termiti e delle api –non dico delle formiche, troppo simile al nostro– che ricavano l’energia di cui hanno bisogno dal mondo vegetale, non animale. Troppo lontani tra loro sono tuttavia gli esiti dell’evoluzione degli insetti e dei vertebrati da permettere un tale in prestito. Dobbiamo cavarcela con mezzi e modelli nostri.

Anche un’altra interrelazione ha urgente bisogno di essere riconsiderata, quella tra gli UCL e l'ambiente, sia ‘naturale’ che antropico, con cui interagiscono. Ho già accennato –molto succintamente come si conviene a dei postini– all’ambiente e ai suoi rapporti con Homo sapiens. Vorrei ora riprendere l’argomento –sempre breviter– attraverso la mediazione degli UCL.

Poiché è per noi l’UCL a fornirci l’immagine dell’ambiente, è a quello che dobbiamo rivolgerci per mirare ogni nostro intervento affinché sia efficace. Dobbiamo cioè non solo conoscere il nostro UCL ma anche saperlo relativizzare all’insieme degli UCL con cui veniamo in contatto, e anche a ogni singolo. Senza abbandonare o disconoscere l’ambiente per come lo interpreta il nostro UCL, è bene che impariamo a comprenderlo secondo le interpretazioni forniteci dagli altri UCL. Così, se il nostro ci invita a considerare l’ambiente come un’entità anzitutto da rispettare, altri lo intendono piuttosto come una ricchezza da sfruttare, e non è con contrapposte posizioni ideologiche che il problema della coesistenza si può risolvere. È piuttosto un ragionevole confronto, prendendo in considerazione non è il solo stato attuale ma anche i presumibili stati futuri, che ci spianerà la via della sopravvivenza per la nostra e le altre specie viventi.

Il termine UCL va inteso nella sua più ampia estensione, e allora è probabile che ci dia anche qualche suggerimento per uscire dalle strettoie di una visione economicista del mondo per la quale la felicità cui tutti aspiriamo è ottenibile solo con il denaro, al punto che si identifica con esso. L’eccesso di sfruttamento del nostro pianeta e il pericolo che ne deriva per la sopravvivenza sono una conseguenza di questa miope ideologia. Ancora una volta, la soluzione ci si presenta come teoricamente assai semplice: è sufficiente adottare un UCL, uno stile di pensiero diversamente orientato e le cose si risolvono automaticamente. Ma allora perché…?

Da molte parti si parla oggi di ‘decrescita felice’ e simili. Berlinguer fin dagli anni Settanta aveva proposto una politica dell’austerità –parlare e proporre non costa particolari difficoltà–, ma i veri poteri che si sono succeduti questi anni non si sono mai fatti carico di una pratica conseguente. E pour cause: nessuno vuole che una politica dell’austerità abbia inizio proprio da lui, e non voterà mai un partito che gliela imponga. Se anche possiamo essere certi che domani la situazione ci costringerà a sacrifici ben maggiori, oggi ne scegliamo ancora chi ci promette l’impossibile. Ottusità di una democrazia non accompagnata da un’adeguata formazione culturale!