domenica 3 aprile 2016

Tratta XXXVIII.4 – Riempimento


[Il precedente paragrafo con alcune osservazioni alquanto ovvie, esprime per giunta dei giudizi anch’essi tutt’altro che peregrini. Perché tali banalità? 
Queste tratte, come d’altronde i precedenti postini, e gran parte delle cose che vengo scrivendo, non hanno pretese di serietà scientifica, anzi non l’hanno neppure di scientificità tout court. Sono piuttosto appunti di vario spessore intellettuale, spesso – come nel caso presente – nulla più che confessioni private, non altrimenti difendibili. Ripeto: perché farle allora?
Si pensa che la parola scritta debba essere soppesata più di quella solo pronunciata. Verba volant… ma di scripta più volatili dei dicta sono piene le carte di tutto il mondo e ora, con l’avvento dei mass-media, anche lo spazio. E non sembra che né lo spazio né la carta si ribellino a questo riempimento. E allora, perché astenersi?]
[Dialogante 1] Come sai, ho scritto, anzi abbiamo scritto una notevole quantità di musica per parole, per la più gran parte tedesche, sia di autori eccellenti che di produzione domestica ….
[Dialogante 2] … e di conseguenza avremmo da riferire in prima persona sui processi mentali che sovrintendono a tale produzione, specie se la componente verbale e quella musicale fanno capo a una stessa persona.
[Dialogante 1] Di fatto però le cose da dire, esplicitabili cioè a parole, sono poche. Forse in tempi musicalmente di maggior solidità grammaticale il compositore aveva più spazio inventivo da dedicare ai rapporti pluridimensionali tra i due linguaggi (verbale e musicale). Attualmente i problemi grammaticali hanno il sopravvento e occupano quasi per intero la mente del musicista. Qualcosa del genere era già accaduto con la musica seriale…
[Dialogante 2] … ma non nella ‘musica della quotidianità’ (come io preferisco chiamare la ‘musica di consumo’), per il semplice fatto che la sua grammatica si contenta di non essere problematica ma di riprendere con alcune varianti di dettaglio la grammatica tradizionale.

[Dialogante 1] E perché la musica ‘altra’ non lo fa?

sabato 2 aprile 2016

Tratta XXXVIII.3 – Stereogramma

[Dialogante 1] Considero la musica uno stereogramma delle facoltà intellettive della specie umana. 
[Dialogante 2] Perché la musica e non un altro linguaggio?
[Dialogante 1] Perché impegna, oltre all’intelletto propriamente detto, la sfera emozionale in forma diretta, cosa che nessun altro linguaggio è in grado di fare, non almeno a livello della musica.
[Dialogante 2] Ma la parola può commuovere tanto e più della musica. 
[Dialogante 1] Grazie al suo significato, ma, se prescindiamo da esso, la parola può coinvolgere emotivamente tutt’al più con l’intonazione, qualcosa che ci porta nelle vicinanze della musica.
[Dialogante 2] La parola tuttavia, con il suo significato sia denotativo che connotativo, può addirittura travolgerci, mentre la musica ha, in realtà, un rapporto troppo blando per influire su di noi in maniera ‘causale’.
[Dialogante 1] Che vuoi dire?
[Dialogante 2] Che con la parola possiamo tradurre in sequenze lineari di suoni alfabetici le strutture complesse di situazioni non lineari e così portare a diretto contatto queste situazioni con il ricevente. 
[Dialogante 1] Un contatto che può essere casualmente dirompente, che non direi però diretto ma ‘mediato’, non tanto dal suono della parola (che potrebbe essere scritta), ma dal suo significato. La musica agisce invece, seppure raramente in maniera ‘dirompente’, per semplice contatto con le apparecchiature ricettive del corpo.
[Dialogante 2] Sai benissimo che anche la musica non si dirige all’orecchio ma alla mente e che l’orecchio è, letteralmente, il portavoce incaricato della trasmissione. La musica ha quindi un suo significato, non necessariamente verbalizzabile ma altrettanto chiaro di quello della parola.
[Dialogante 1] La cosa si fa particolarmente interessante quando i due ordini di significazione si sovrappongono, come nel canto.
[Dialogante 2] Perché l’informazione sia chiara, i due ordini pensi che debbano coincidere? 
[Dialogante 1] Che vuol dire ‘coincidere’ se i modi di significazione sono così diversi, come nella musica e nella parola?
[Dialogante 2] La coincidenza è soprattutto temporale, nel senso che, funzionando i due linguaggi nella contemporaneità, la mente ne riceve i relativi messaggi in sovrapposizione, e allora si hanno tre possibilità: o i messaggi si rinforzano a vicenda, o si contraddicono, o scorrono l’uno sull’altro nell’indifferenza. Naturalmente tra queste possibilità-limite è possibile collocare infiniti casi intermedi che per semplicità verranno riferiti ai casi-limite.
[Dialogante 1] Si apre così un ventaglio di possibili interazioni a discrezione del musicista: normalmente infatti è lui che lavora su un preesistente dato poetico. Più raro il caso in cui la parola si modella sulla musica, comunque è sempre l’interazione a determinare il messaggio nel suo complesso.
[Dialogante 2] Noto che hai parlato di ‘interazione’ non di ‘interpretazione’ (della parola da parte della musica). Questo certamente per sottolineare la pari dignità delle due componenti… 
[Dialogante 1] … parità che per altro non si osserva sempre, soprattutto nell’opera italiana, dove la musica spesso sopravanza la parola, perfino nel caso dell’eccellenza di un Da Ponte.
[Dialogante 2] Un caso a sé è costituito in area germanica dal Lied nel quale sembra rinnovarsi la simbiosi di cui si parla
 – perché non si conoscono esempi completi di notazione musicale – a proposito della lirica greca.
[Dialogante 1] Il terreno comune di parola e musica ha dato, oltre all’opera e al Lied, almeno due altri frutti di incomparabile ricchezza: il madrigale cinquecentesco e la vocalità bachiana (cantate, passioni).
[Dialogante 2] Penso che siamo d’accordo nel considerare il recitativo bachiano, la teatralità dell’aria mozartiana e la penetranza delle melodie schubertiane come i vertici della vocalità occidentale. 
[Dialogante 1] E Wagner?

[Dialogante 2] Wagner è un’altra cosa. È Gesamtkunstwerk, opera d’arte totale, di cui, credo, siamo incompetenti.

venerdì 1 aprile 2016

Tratta XXXVIII.2 – Schivo e riservato

[Ho sentito per due sere di seguito le due Sonate dell’op.14 nell’esecuzione di Sokolov. Non avevo mai dedicato molta attenzione all’op. 14, considerandola una sorta di riempitivo, assieme alla più ampia op. 22, in attesa della prima grande sonata del ‘periodo di mezzo’ (opus 26, 27, 28, e soprattutto i tre capolavori dell’op. 31).
Sta di fatto che sotto le dita di Sokolov, ma soprattutto attraverso la sua mente, le ‘modeste’ Sonate op. 14 hanno dato al termine ‘modesto’ un significato che con la modestia comunemente intesa hanno ben poco a che fare. Beethoven non è mai modesto, anche quando lo sono i mezzi di cui si serve. Queste Sonate non hanno nulla di virtuosistico e non brillano certo per inventiva tecnica come già le op. 10 e 13 (la famosa Patetica, banco di prova per i dilettanti della tastiera, ma anche per i futuri professionisti). Eppure Sokolov mi ha fatto capire quante e quali sottigliezze si nascondono dietro quella dichiarata semplicità. Basterebbe l’ambiguità metrica dell’enunciato tematico dell’op. 14 n. 2 (primo tempo), che Sokolov fa intuire all’ascoltatore pur senza svelarla; o, nello ‘sviluppo’ della n. 1 l’improvviso ‘cedimento’ a una inaspettata ‘facilità’ melodica e metrica quasi estranea a Beethoven. Poi, ancora, sempre nella n. 1, il nient’affatto ‘modesto’ Allegretto, la cui seriosità è ancora accentuata dall’insistenza sulla tonalità di mi (in minore), comune agli altri due tempi; o infine la bizzarria metrica dello Scherzo della n. 2, che, pur chiamandosi così, né occupa il posto né ha la forma dei normali scherzi di sonata (o quartetto o sinfonia), bensì è un evidente Rondò

Questa scelta di due sonate ‘minori’ dell’opera beethoveniana testimonia del carattere schivo e riservato del grande pianista russo, il cui pensiero musicale, unito ad una straordinaria tecnica esecutiva, non ha bisogno di imporsi nelle grandi opere, che pure domina perfettamente, per rilucere in quelle ‘minori’ che attraverso di lui rivelano tutta la grandezza delle altre.]