lunedì 25 maggio 2009

Un diario di bordo (1):

Giorni di intenso lavoro da parte di Boris Porena e del gruppo di lavoro Rigobaldo.
Una settimana ricca di avvenimenti, di discussioni e riflessioni.


Il gruppo continua ad occuparsi della digitalizzazione delle opere di Boris, aggiunte infatti diverse metaparole, girati numerosi video che proporremo su questo Blog nel prossimo futuro.
Si sono inoltre svolte numerose interviste musicali a cura del nostro Oliver Wehlmann, interviste mirate ad analizzare le partiture del Porena.
Giorni vissuti con 'sguardo retrospettivo', archiviando, digitalizzando ciò che già esiste, ma non solo, giorni spesi a progettare nuove iniziative, a coordinare nuove attività.
Si è riflettuto sull'articolo di Serge Latouche pubblicato recentemente qui su questo Blog: ' La crisi produttivistica ' e si è lavorato a nuove parole da proporre al sito della Decrescita felice nella nostra rubrica ' Dentro la parola... '.
Non si può negare che oltre a tutto questo lavoro ci siamo pure divertiti! Qualcuno di noi direbbe che questo divertimento, questo piacere è indispensabile, e come dargli torto?
Ovviamente c'è ancora tanto da fare e tanti spunti da alimentare e da ricercare, e per questo ricordiamo a chiunque fosse interessato o semplicemente incuriosito che le porte non sono aperte ma spalancate per qualsiasi contaminazione e\o collaborazione.
Un saluto a tutti!

giovedì 21 maggio 2009

Parla Serge Latouche - La catastrofe produttivistica

Oggi abbiamo il piacere di presentarVi, con l'autorizzazione del prof. Serge Latouche una conferenza pronunciata dal medesimo negli incontri di Malagar il 23 Maggio 2008. Qui la si pubblica in italiano per la prima volta.




LA CATASTROFE PRODUTTIVISTICA [*]
Serge Latouche,
professore emerito di economia nell’Università d’Orsay, obiettore della crescita


«La presa di coscienza della catastrofe produttivistica è troppo lenta per evitare il peggio».
Yves Cochet
[1].

Negli anni Sessanta, l'umorista Pierre Dac osservava: «È ancora troppo presto per dire se sia già troppo tardi». Disgraziatamente oggi giorno non è più questo il caso. Dopo il quarto rapporto del Foro Intergovernativo sul Mutamento Climatico (IPCC) del 2007, e ancora di più dopo il suo aggiornamento da parte dei climatologi nella riunione di Copenhaguen del marzo 2009, sappiamo che ormai è troppo tardi. Anche se blocchiamo da un giorno all'altro tutto ciò che contribuisce a oltrepassare la capacità di rigenerazione della biosfera (emissioni di gas a effetto serra, polluzioni e atti predatori di ogni natura) o, detto altrimenti, se riduciamo la nostra impronta ecologica fino al livello sostenibile, avremo due gradi in più prima della fine del secolo. Ciò significa regioni costiere sotto l'acqua, decine se non centinaia di milioni di rifugiati ambientali, gravi problemi alimentari, scarsità di acqua potabile per molte popolazioni ecc. Oramai la questione sta nel limitare la catastrofe e soprattutto nel chiedersi come gestirla.

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Cos'è una catastrofe? Secondo il dizionario Larousse: «Disgrazia repentina e funesta che colpisce una persona o un popolo. Incidente che causa la morte di un grande numero di persone: una catastrofe ferroviaria, aerea. Letteralmente, evento decisivo che comporta il compimento di una tragedia». È necessario andare oltre nelle precisazioni macabre? È stata proposta una classifica delle catastrofi secondo il numero di morti: “Tra 1 e 999 morti, un fenomeno sarebbe denominato "incidente", ma diventerebbe un disastro tra mille e un milione di morti, persino una catastrofe se si va oltre il milione …”[2].

Alla catastrofe, presentata come un fenomeno fatale, si unisce spesso l'aggettivo «naturale». Essa diventa allora un destino, un evento fatidico. Ciò nonostante, come ha dimostrato J. J. Rousseau a proposito del terremoto di Lisbona, essa non è mai così naturale quanto sembra. Anche se solo fosse perché c'è bisogno di uno sguardo umano per decidere che veramente di catastrofe si tratta. Ciò che capita nella natura non diventa un «disastro» se non quando degli umani ne subiscono le conseguenze. Ciò è particolarmente vero per questa catastrofe incombente.

La catastrofe ha a che vedere con la tragedia dalla quale ricava il suo nome. Se essa è umana come la nakba o la shoah (parole dalle quali si sa che il senso originale è catastrofe…), essa viene pensata come un cataclisma naturale. Se si tratta di un fenomeno di origine geofisica, tsunami, terremoto, inondazione, eruzione vulcanica ecc., essa viene pensata come un destino che prende posto nella storia. Ci si trova in una relazione speculare tra natura e cultura.

Le catastrofi che ci concernono sono quelle dell'antropocene, cioè quelle originate dalla dinamica di un sistema complesso, la biosfera, alterato dall'attività umana e in coevoluzione con essa. Si tratta della straordinaria crescita (ex-crescita, non tanto lontana dall'escrescenza) exosomatica dell'uomo che, essendosi innamorato del cambiamento a tasso geometrico, iscrive le conseguenze materiali del suo modo di vita sulle curve esponenziali del degrado della biosfera (gas a effetto serra, sparizione delle energie fossili, accumulo di veleni, distruzione di specie …).

La catastrofe (la nakba, la shoah) ha a che vedere con lo sfondamento (collasso), argomento popolarizzato da Jared Diamond. Una civiltà sparisce perché ha distrutto il suo ecosistema. La catastrofe produttivistica è il destino implacabile di una società di crescita che rifiuta il mondo reale, prediligendo invece la sua artificializzazione. La ricerca della crescita ad ogni costo implica che non si faccia troppa attenzione ai metodi per ottenerla. La ricerca sfrenata della potenza e le limitazioni economiche sono all'origine della maggior parte degli incidenti. La cecità e l'arroganza dei saggi, degli esperti, dei responsabili, degli ingegneri e dei tecnici, supportate dal culto della scienza, dalla fede nel progresso, giocano una parte complementare ma essenziale in questo concerto infernale. Qui non è tanto la soggettività apparente ad essere messa in causa, quanto la logica medesima del sistema, la quale crea le condizioni per la catastrofe, includendovi la produzione di certi fattori soggettivi. Ciò che colpisce di più nello studio delle indagini che seguono alla maggior parte degli incidenti importanti, è il numero incredibile di negligenze, d'inosservanze dei regolamenti in vigore (con la complicità delle autorità incaricate di farli rispettare), di infrazioni alla legislazione nazionale o internazionale. Queste frodi, eccessi ed inganni si devono in essenza a tre fattori: la sete di ricchezza, il desiderio di potere e la vanità.

La catastrofe (kata-strophè: ribaltamento, sconvolgimento, conclusione) indica nella tragedia greca[3] «la scrittura dell'ultima strofe». La catastrofe che ci minaccia si collega con la fatalità della tragedia, punisce l’hybris dell'eroe, la sua dismisura. Come lui, noi sappiamo perfettamente ciò che ci minaccia e, come lui, sembra che siamo paralizzati dalla logica implacabile di un destino che ci impedisce di agire.


I Cronaca di una catastrofe annunciata

Il rimpianto Pierre Thuillier aveva pubblicato in 1995 «La grande implosione». Questo libro premonitore si presentava nell'edizione originale come un dossier intitolato: Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002[4]. L'Autore immaginava una commissione di indagine che nel 2070 si sforzava a comprendere come mai era stato possibile questo crollo, essendoci stati tanti avvertimenti. E infatti, senza bisogno di andare più indietro, già nel 1922 il grande Svante Arrhenius, in una conferenza dettata nell'università di Parigi, dichiarava: «Lo sviluppo è stato, per modo di dire, esplosivo, e corriamo verso una catastrofe»[5]. Dopo "Primavera silenziosa" (Silent Spring, 1962) di Rachel Carson, tante voci di autorità si sono fatte sentire; fingere ignoranza non è più possibile. Il famoso primo rapporto del club di Roma (1972), "Alto alla crescita" ci ha avvertito che la continuazione indefinita della crescita era incompatibile con i "fondamentali" del pianeta[6]. Nel 1974, René Dumont dichiarava: «Se manteniamo fino al prossimo secolo i tassi odierni di espansione della popolazione e della produzione industriale, questo non si concluderà senza il crollo completo della nostra civiltà»[7]. Tutti i giorni o quasi, nuove e pesanti testimonianze, pervenute dagli orizzonti più diversi, confermano questa diagnosi di buon senso del Club di Roma e i pronostici allarmisti di Dumont. Così, dopo la dichiarazione di Wingspread del 1991[8], l'appello di Parigi del 2003[9], il Millennium Assessment Report[10], ci troviamo davanti a una vera valanga di allarmi: l'ultimo rapporto del Foro Intergovernativo sul Mutamento Climatico (IPCC), quelli delle ONG specializzate (WWF, Greenpeace, Amici della Terra, Worldwatch Institute ecc.), quelli semisegreti del Pentagono del 2003, quello più confidenziale della Fondazione Bilderberg, il rapporto di Nicolas Stern al governo britannico ecc. Senza parlare di dichiarazioni di maggior o minor autorità, da quella del Presidente Chirac a Johannesburgo, fino a quella di Nicolas Hulot durante la campagna presidenziale del 2007[11], senza dimenticare il vicepresidente Al Gore e la sua scomoda verità ... Ed eccoci oggi tra il crack e il crash

Sicuramente «i nostri figli ci accuseranno», per riprendere il titolo del bel film di Jean-Pierre Jaud, perché ne siamo tutti responsabili. A cominciare dalle nostre élites politiche ed economiche, più pronte a salvare la Banca che non le banchise, ma anche dai comuni cittadini, più preoccupati del loro livello di vita che di quello raggiunto dagli oceani.
Oggi, la catastrofe è alle porte. Viviamo ciò che gli specialisti denominano la sesta estinzione delle specie[12]. La quinta, che si è prodotta nel Cretaceo, sessantacinque milioni di anni fa, aveva visto la fine dei dinosauri e di altri grandi animali, probabilmente in seguito all'impatto di un asteroide. Tuttavia, la nostra presenta tre differenze non trascurabili in rapporto alla precedente. In primo luogo, le specie (vegetali e animali) spariscono ad una velocità tra le cinquanta e le duecento al giorno[13]; cioè a un ritmo tra 1.000 e 30.000 volte superiore a quello delle ecatombi dei tempi geologici passati[14]. In secondo luogo, l'uomo è diretto responsabile di questo "esaurimento" odierno delle forme di vita. In terzo luogo, l'uomo potrebbe benissimo diventarne la vittima … Se dobbiamo dare retta ad alcuni, la fine dell'umanità dovrebbe arrivare persino più velocemente di quanto previsto, verso l'anno 2060, per sterilità generalizzata dello sperma maschile sotto l'effetto di pesticidi e altri contaminanti organici persistenti, cancerogeni, induttori di mutazioni o reprotossici[15]. L’astronomo di Sua Maestà Sir Martin Rees, autore di «Our Final Century», concede all'umanità una possibilità su due di sopravvivere al secolo ventunesimo.

Possiamo certo essere scettici davanti ai lavori di futurologia, ma quelli del Club di Roma hanno il merito di essere infinitamente più seri e solidi delle abituali proiezioni sulle quali si appoggiano i nostri governanti e le organizzazioni internazionali. Or bene, secondo l'ultimo rapporto[16], tutti gli scenari che non mettano in questione i fondamenti della società della crescita portano al crollo. Il primo scenario situa il crollo verso il 2030, dovuto alla crisi delle risorse non rinnovabili; il secondo lo situa verso il 2040, dovuto alla crisi dell'inquinamento; il terzo lo situa verso 2070, dovuto alla crisi dell'alimentazione. Gli altri scenari sono varianti di questi tre. Tra di essi, uno solo risulta nel contempo credibile e sostenibile, quello della sobrietà che corrisponde ai fondamenti della via della decrescita.


II Le cause: il totalitarismo produttivistico

Avvicinandosi pericolosamente il tempo del crollo, è quindi arrivato quello della decrescita! La società della sobrietà scelta, che sorgerà dalle sue tracce, permetterà di lavorare di meno per vivere meglio, consumare meno ma meglio, produrre meno rifiuti, riciclarne di più. In breve, permetterà di ritrovare il senso della misura e un'impronta ecologica sostenibile. Concepire la felicità nella convivialità piuttosto che nell'accumulazione frenetica suppone una seria decolonizzazione dei nostri immaginari, ma le circostanze possono aiutarci. Tale è la sfida di fronte alla quale ci troviamo.

Si potrebbe raccontare il destino della nostra società alla maniera di una fiaba de La Fontaine:
«Un giorno in uno stagno, e non sappiam' da dove,
Arriva l'alga verde, dilaga e tutto muore …
»,

Questo succedeva verso il 1850. L'utilizzo eccessivo di concime chimico per gli agricoltori del circondario favorisce che la piccola alga venga a diffondersi su un grande lago. Anche se la sua crescita annuale è veloce, seguendo una progressione geometrica di ragione due, nessuno se ne preoccupa. Infatti, se il raddoppio è annuo e la superficie del lago viene coperta in 30 anni, alla fine del 24esimo anno soltanto è colonizzato un 3% dell'estensione del lago! Senz'altro ci si comincia ad impensierire quando essa ha invaso la metà della superficie, facendo pesare, da quel momento, una minaccia di eutrofizzazione, cioè di asfissia della vita subacquea. Ma anche se essa ci ha messo diversi decenni per arrivare fin lì, ne basterà un solo anno addizionale per produrre la morte irrimediabile del sistema lacustre.

Abbagliato dalla proporzione geometrica che presiede la crescita economica, l'uomo occidentale ha rinunciato ad ogni misura; noi viviamo adesso precisamente l'istante nel quale l'alga verde ha colonizzato tra un terzo e la metà del nostro lago. Se non agiremo con molta velocità e decisione, la morte per asfissia ci aspetta. Adagiandosi sulla via «termo-industriale», secondo l’espressione di Jacques Grinevald[17], l'Occidente ha potuto dare corpo al suo sogno di sposare la proporzione geometrica. Il desiderio della crescita infinita si manifesta da almeno il 1750 con la nascita del capitalismo occidentale e dell'economia politica. Tuttavia, fino all'utilizzo delle energie fossili (prima del carbone, successivamente del petrolio) che mettono a disposizione di ciascuno di noi l'equivalente energetico di tra 50 e 100 schiavi, la crescita non era che quella del capitalismo, e si limitava ad un processo di distruzione della civiltà contadina e artigianale, e all'attività predatoria del capitalismo sul resto del mondo. Malgrado l'arrivo del sistema termo-industriale, la crescita ha incontrato grandi tensioni passeggere, che hanno generato crisi periodiche di sovrapproduzione. Soltanto a partire del 1950, con l'invenzione del marketing e la successiva nascita della società di consumo, il sistema ha potuto liberare tutto il suo potenziale creatore e distruttore. Ciò facendo, ha costruito le strutture della catastrofe. Ciò che si potrebbe anche chiamare il teorema dell'alga verde[18].

Assai opportunamente, il nostro tasso di crescita non è del 100% all'anno come quello dell'alga verde, ma solamente del 2 o 3%, ciò che situa il crollo e la fine della società della crescita non l'anno venturo, ma tra il 2030 e il 2070 secondo il modello sistemico del Club di Roma. Il sogno diventerà un incubo. L'hybris del padrone e proprietario della natura, la sua dismisura, ha sostituito l'antica saggezza di un inserimento in un ambiente utilizzato in modo ragionato. Il delirio quantitativo ci condanna a precipitare nell'insostenibile trascinati dall'effetto del "terrorismo degli interessi composti", secondo la bella espressione di Giorgio Ruffolo[19]. Con un incremento annuo del PIL pro capite del 3,5%, (progressione media per la Francia tra il 1949 e il 1959), si arriva a una moltiplicazione per 31 in un secolo e per 973 in due secoli, per più di 30.000 in tre secoli! Con il tasso del 10% col quale cresce oggigiorno la Cina, si otterrebbe una moltiplicazione per 13.781 in un secolo[20]! Se prendiamo in considerazione il lungo termine, con un 2% di tasso annuale di crescita –ritenuto come minimo necessario da tutti coloro che prendono le decisioni–, in 2000 anni il PIL si moltiplicherebbe per 160 milioni di miliardi! Sullo stesso periodo, con un tasso annuo di crescita del 7 per mille, ritenuto ridicolo dalle persone serie, il PIL verrebbe già moltiplicato per più di un milione; sul primo secolo sarebbe già raddoppiato, ciò che probabilmente supera quello che gli ecosistemi possono sopportare[21]. Da tempo dovremmo vivere in un vero paradiso, se la crescita producesse meccanicamente il benessere. Ma è piuttosto l'inferno ad attenderci, perché questa crescita vertiginosa è soprattutto crescita dello sfruttamento delle energie fossili, delle risorse non rinnovabili, crescita dei rifiuti e dell'inquinamento, insomma crescita della distruzione del nostro ecosistema. Persino se il tasso di crescita diminuisce, partendo da un PIL de 1000 miliardi di Euro, un magro 1% di crescita fa comunque 10 miliardi, cioè il 10 % della crescita d'un paese il cui PIL non sia ancora che 100 miliardi di Euro (ordine di grandezza di quello dei paesi del Sud). È ancora troppo poco per la rigenerazione della biosfera …

Conclusione

Se vogliamo sopravvivere alle «catastrofi del presente», è urgente riscoprire la saggezza della lumaca. Essa ci insegna non soltanto la necessaria lentezza (slowfood, slowcities) ma una lezione ancora più necessaria. "La lumaca –ci spiega Ivan Illich– costruisce la delicata architettura della sua conchiglia aggiungendo dei segmenti spirali sempre più larghi, uno dopo l'altro, fino al punto nel quale si arresta bruscamente e comincia con circonvoluzioni questa volta decrescenti. Infatti, un singolo giro addizionale della spirale farebbe la conchiglia sedici volte più grande. Anziché contribuire al benessere dell'animale, lo sovraccaricherebbe. A partire di questo momento, ogni aumento della sua produttività servirebbe soltanto per contenere le difficoltà generate da questo ingrandimento della conchiglia al di là dei limiti fissati dalla sua finalità. Oltrepassato il punto limite d'ingrandimento della spirale, i problemi della sovraccrescita si moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca non può andare oltre, al massimo, di una progressione aritmetica"[22]. Questo divorzio tra lumaca e progressione geometrica, che anch'essa aveva abbracciato per un periodo, ci mostra la via per pensare una società di "decrescita", serena e conviviale nella misura del possibile[23].


NOTE

[*] Traduzione all'italiano: Rigobaldo van der Mispel, maggio 2009.
[1] Anti-manuel d’écologie, ed. Boréal, Paris 2009.
[2] Anthony Michaelis, Impact, Science et société, n° 1 Unesco, 1982, p. 113.
[3] Dictionnaire des risques, diretto da Yves Dupont, A. Colin, Paris 2007.
[4] Fayard, Paris 1995.
[5] Citato da Grinevald Jacques, La Biosphère de l’Anthropocène. Climat et pétrole, la double menace. Repères transdisciplinaires (1824-2007), Georg, Genève 2007. p. 81
[6] Il Club di Roma ha prodotto a continuazione, sempre sotto la direzione di Dennis Meadows: Beyond the limits. Confronting Global Collapse, Envisioning a Sustainable Future, Chelsea Green Publishing 1992 e Limits to Growth : the 30 year Update, Chelsea Green Publishing 2004.
[7] René Dumont, À vous de choisir, L’écologie ou la mort, Pauvert, 1974.
[8] Dichiarazione di ventidue biologhi, nella loro maggior parte statunitensi, denunciando i pericoli dei prodotti chimici.
[9] Dichiarazione internazionale istigata dal professore Belpomme, per dare l'allerta sui pericoli sanitari generati dalla crescita economica.
[10] Millennium Assessment Report, Living Beyond Our Means: Natural Assets and Human Well-Being, http://www.miellenniumassessment.org. Si tratta di un rapporto delle Nazioni Unite basato sui lavori di 1360 specialisti di 95 nazioni, pubblicato a Tokyo il 30 marzo 2005, che dimostra che l'attività umana eccede la capacità di rigenerazione degli ecosistemi fino al punto di compromettere gli obiettivi economici, sociali e sanitari fissati dalla comunità internazionale per il 2015.
[11] Hulot Nicolas (Fondation), Pour un pacte écologique. Calmann-Lévy, 2006.
[12] Richard Leakey e Roger Levin, La Sixième Extinction: évolution et catastrophes, Flammarion, Paris 1997 .
[13] Edward O. Wilson stima che siamo responsabili della sparizione ogni anno di tra 27.000 e 63 000 specie. The diversity of Life, Belknap Press, Harvard, 1992 (La diversité de la vie, Odile Jacob Paris, 1993).
[14] François Ramade, Le grand massacre. L'avenir des espèces vivantes. Hachette, Paris, 1999.
[15] Dominique Belpomme, Ces maladies créées par l'homme, Albin Michel, 2004.
[16] Vedasi Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorden Randers, Limits to Growth The 30-year Update, Chelsea Green Publishing, 2004 e Christian Araud, Modèliser le monde, prévoir le futur, Entropia, Revue théorique et politique de la décroissance n°4, Parangon, Lyon 2008.
[17] Grinevald Jacques, La Biosphère de l’Anthropocène. Climat et pétrole, la double menace. Repères transdisciplinaires (1824-2007), Georg, Genève 2007.
[18] Variante del paradosso della ninfea di Albert Jacquart. Albert Jacquart, L'équation du Nénuphar (Calmann-Levy, 1998).
[19] Ruffolo Giorgio, Crescita e sviluppo: critica e prospettive. Falconara/Macerata 8/9 novembre 2006.
[20] Bertrand de Jouvenel, Arcadie, Essai sur le mieux vivre. Paris, Sedeis, 1968. Jean-Pierre Tertrais, op. cit, p. 14.
[21] André Lebeau, L’engrenage technique, (Gallimard) pp. 154-155.
[22] Ivan Illich, Le genre vernaculaire, in Oeuvres complètes tome 2, Fayard 2005. p. 292.
[23] Vedasi il nostro libro «Petit traité de la décroissance sereine» Mille et une nuits, Paris 2007.

lunedì 18 maggio 2009

A Rigobaldo van der Mispel − una epistola politica

Jacob in stoel / Jacob on a chair, 2003, di Maarten Wetsema (http://www.maartenwetsema.nl/)

Caro Rigobaldo, Cari Rigobaldo,

qui cominciano subito le difficoltà, perché tu sei uno e plurimo come il buon dio. Inoltre, a differenza di lui, sei in numero variabile e per giunta capita talora che faccia parte di te anche lo scrivente, cioè io, nel qual caso mi troverei a corrispondere per lettera −per ‘epistola politica’− con me stesso. Nell’accezione più ristretta, Rigobaldo è uno di noi, in un’altra un ente astratto e sarebbe ancora più strano scrivergli una lettera. Ma le stranezze non finiscono qui. Che cosa avrei da scrivergli che lui già non sappia o che non potrei dirgli a voce? E una cosa che pensassi per conto mio, sarebbe pensata anche da lui o no? E una cosa che pensasse lui, la penserei anch’io? Leggere di più ...

Il problema è di natura alquanto generale: è pensabile un pensiero pensato dal singolo che non sia pensabile o già pensato dal pensiero umano? In altre parole è l’individuo a pensare o la specie attraverso di lui?

Ho forse ampliato la pluralità di Rigobaldo oltre il lecito. Mi ritiro ora entro gli abituali confini, riservandomi ogni tanto una sbirciatina al di là di essi.

.......

Stiamo da qualche tempo lavorando insieme, noi Rigobaldo, e, se lo facciamo, vuol dire che sappiamo perché, per qual fine. Ma questo fine è unico, fermo, immutabile? Oppure è ampliabile come la pluralità di Rigobaldo?

Inizialmente si era inteso fare un poco d’ordine in un certo archivio e dare visibilità a una produzione che, a detta di alcuni, lo meriterebbe. Poi ci si è accorti che questa produzione conteneva spunti condivisibili, anzi utili forse ad affrontare parte dei problemi che l’attualità ci pone. Il progetto primo è andato quindi assumendo una coloratura politica non necessariamente partitica, che ha portato Rigobaldo a ricercare un dialogo, il più partecipato possibile, con la società. Ne sono nate alcune iniziative mediatiche che lo hanno avvicinato a movimenti, in Italia e fuori, che cercano di promuovere, nella generale acquiescenza al consumismo irriflesso, una coscienza socialmente ed ecologicamente critica. Parallelamente a ciò, Rigobaldo ha coltivato rapporti di buon vicinato con il Centro di Ricerca e Sperimentazione Metaculturale, cui lo lega un comune componente e un comune indirizzo politico (nel senso sopraricordato). Dico questo, ovviamente, non a uso interno ma per informare gli eventuali lettori esterni (se questa lettera dovesse essere pubblicata su internet) di cose che Rigobaldo conosce benissimo.

Ora però vorrei proporre una riflessione interna −per altro aperta anche a contributi esterni− sul nostro immediato domani. Perché ‘immediato’? Semplicemente perché personalmente non posso permettermi il lusso −data l’età− di partecipare a progettazioni di lungo termine. Queste spetteranno a una diversa composizione di Rigobaldo entro una società che spero profondamente cambiata.

Presumo che nell’immediato domani −di cui peraltro non è prescritta la durata− Rigobaldo si muova ancora nell’ambito di IMC (dell’Ipotesi Metaculturale). Ne consegue che anche le successive riflessioni, per essere correttamente intese, vadano riferite a quell’ipotesi, fuori della quale potrebbero apparire addirittura prive di senso.

È probabile che lo staff Rigobaldo, per variabile che sia, sappia perché sta dando credito a IMC nonostante le evidenti difficoltà che quest’ipotesi incontra nella sua diffusione. Queste difficoltà dipendono:
− da intrinseca debolezza?
− da poca chiarezza nella formulazione?
− da scarsa aderenza ai problemi dell’attualità?
− da incapacità nostra e del Centro Metaculturale a incentivarne la diffusione?
da un radicale rifiuto da parte della società?

Non è la prima volta che ci poniamo queste domande. Come Centro Metaculturale ce le poniamo anzi da una trentina di anni. Ciò non toglie che sarebbe bene continuare a farlo, se non vogliamo che IMC da ipotesi critica si trasformi in dogma, per giunta inascoltato. Credo che, come per il passato, IMC abbia bisogno di una continua verifica, sia attraverso la pratica culturale di base sia nel confronto teorico con altre posizioni filosofiche ed epistemologiche. Finora le verifiche hanno dato esito positivo e hanno registrato innumerevoli convergenze anche in ambiti specialistici, ma la vita di IMC, come di qualsiasi ipotesi, dipende dalle verifiche di domani, non da quelle di ieri. Va anche detto che la più disinteressata delle fiducie ha dei limiti di sussistenza, oltre i quali resta inerte, avviata alla sclerotizzazione ideologica. Il problema della diffusione resta quindi vitale per IMC. Ma perché le diamo credito? Perché affannarci a diffonderla?

Che l’ipotesi sia debole siamo i primi a saperlo. Pensiamo anzi −e già molte anni fa era apparso chiaro− che IMC rappresenta il punto più basso del cosiddetto ‘pensiero debole’. Si tratta tuttavia di una ‘debolezza’ assai più resistente ai colpi del relativismo assoluto (‘tutto è relativo’) che non la ‘forza’ di un pensiero ‘forte’. Non è quindi la debolezza di IMC a preoccuparci, ché anzi è una delle ragioni per cui vorremmo fosse sperimentata su più larga scala. In tempi recenti il Centro Metaculturale le ha aperto nuovi campi applicativi e anche tu, Rigobaldo, ne stai promuovendo la conoscenza oltre i confini nazionali. Forse ciò che ci manca, e a me in particolare, è la pazienza. Il rivolgimento culturale collegato con l’accettazione, benché provvisoria, di IMC non è di quelli che avvengono in un giorno, un anno o un decennio. È anche possibile che lo stiamo vivendo già da un secolo o più ancora, per esempio da quando Darwin ha enunciato la sua teoria evolutiva o Nietzsche ha proclamato la morte di Dio o Einstein ha formulato la teoria della relatività. Nel gergo che ci è abituale parliamo, per la specie umana, di ‘transizione dallo stadio culturale a uno stadio metaculturale, caratterizzato, appunto, da riflessività metaculturale’.

Non è questo il luogo per richiamare alla mente cose che sappiamo benissimo e tanto meno per tentare maldestramente di illustrarle a chi non le sa. C’è invece da chiedersi se non vi sia, da parte della società, un rifiuto di principio, contro il quale nessuna ragione potrebbe alcunché. Una domanda che oggi rischierebbe effettivamente di spiazzarci: “qual è il ‘valore di mercato’ di IMC?”

Qui casca l’asino, perché il valore di mercato di IMC è prossimo allo zero. E oggi avere un valore di mercato prossimo allo zero equivale a non esistere. A chi ci domandasse a ché si deve il fatto che IMC ha un valore di mercato così basso risponderemmo: per la semplice ragione che per noi è il mercato ad avere un valore assai basso. Forse perché è alto il suo valore ideologico e noi siamo diffidenti verso i valori ideologici? Ma il mercato è ideologico solo in seconda battuta; in prima il suo valore è economico, pecuniario: produce ricchezza e oggi è questa che sta soffocando il nostro pianeta e chi lo abita. Si obietterà che non siamo noi (quella parte di noi che lo è) a essere ricchi (è proprio la Terra con ciò che ha e produce). Na ciò che ha e produce non è ‘ricchezza’; lo diventa solo quando ce ne appropriamo noi, e sta a noi farlo diventare un’altra cosa, un altro ‘valore’. Esistono valori che non siano ideologici e neppure economici? Per IMC uno ve n’è, anch’esso ideologico ed economico, tuttavia irrinunciabile per la maggior parte degli uomini, e per cui IMC è stata formulata: la sopravvivenza. E con questa ovvietà vi/ci saluto con affetto,

Cantalupo, 16-V-2009

lunedì 11 maggio 2009

Cosa vedi quando fai una passeggiata pomeridiana nel sentierino davanti a casa tua?

Eccoci di nuovo, vi proponiamo questo articolo scritto da Boris pubblicato sul sito della Decrescita Felice in data 28 Aprile 2009.


di
Boris Porena

Il guaio è che vedo sempre meno cose. Le montagne stanno sempre lì, le case degli uomini, ahimé, sono sempre di più, gli insetti, ahinoi! tendono a scomparire. Seguo il fenomeno da molte decine di anni in quanto sono collezionista di coleotteri dal 1940. Questa sparizione si è fatta catastrofica - almeno per quanto posso vedere - negli ultimi tre anni. Sia io che i miei colleghi ne parliamo invero da una trentina di anni ma la rarefazione degli individui e delle specie ha seguito un andamento esponenziale che appunto negli ultimi anni è diventato preoccupante. Lo sarebbe già se riguardasse solo il mondo degli insetti - di cui la nostra cultura non si preoccupa granché, anzi, ha contribuito allo sterminio nei modi che sappiamo-.

Sarebbe già un sintomo assai grave di deterioramento dell’ambiente ma un attimo di riflessione ci porta a concludere che questa sola sparizione finirà per avere vistose conseguenze negative anche in altri campi (impollinazione, biodiversità, alimentazione di uccelli, rettili, mammiferi ecc.).
Per quanto le nostre osservazioni siano state e siano alquanto accurate, non posso essere sicuro che il fenomeno non sia limitato alle poche aree visitate dagli entomologi di mia conoscenza. Sarei quindi, o meglio saremmo assai grati a chiunque volesse confermare o smentire questa nostra non superficiale impressione.

Boris Porena
borisporena@gmail.com

mercoledì 6 maggio 2009

Metaparola "Aggressione"

Continua sul blog specifico delle Metaparole l'aggiunta di nuove elementi di questa opera recente di Boris, di prossima pubblicazione integrale.

Proponiamo oggi qui -con una videoillustrazione un tantino dissacrante- la metaparola aggressione.




Con una stessa parola designiamo comportamenti alquanto diversi. Un leopardo 'aggredisce' un’antilope per nutrirsi. Un essere umano ne aggredisce un altro, ma raramente per mangiarlo. Semmai per derubarlo. Il che peraltro in certi casi equivale all'azione del leopardo, in quanto gli permette di sopravvivere. Ci sarebbe da domandarsi chi o che cosa gli impedisce la sopravvivenza; e si scoprirebbe che sono altri uomini. E la sua aggressione sembrerebbe allora più giustificata di quella del leopardo, cui l’antilope non impedisce nulla, semmai gli si offre come preda.
Leggere di più ...Comunque non diremmo che un uomo 'aggredisce' un piatto di insalata o una capra l'erba di un prato. Tutt'al più si tratterebbe di un'espressione metaforica per significare la voracità del comportamento nutrizionale. Se quindi compariamo la parola con l'azione che essa designa, vediamo che la parola è una, cui corrispondono però azioni diverse e diversamente interpretabili. È un fatto di tutta normalità, ma non sempre riconosciuto. Usiamo le parole essenzialmente per capirci ma non di rado sono le parole stesse che fanno sì che non ci capiamo. Quando vediamo dei banditi aggredire una banca, percepiamo la violenza dell'azione, ma non ne comprendiamo il senso: è necessità di sopravvivenza, è voracità di chi, avendo, vuole di più, è sete di giustizia sociale, è fanatismo politico? L'aggressione resta sempre aggressione come parola, ma il fatto significato può essere di volta in volta un altro. Anche la legge non si ferma alla parola e cerca di andare oltre. IMC* può darle una mano, come può dare una mano ogni volta che le parole ci impediscono di capirci.

* IMC: Ipotesi Metaculturale

Ringraziamo Eva Serena per il cortese contributo editoriale.

lunedì 4 maggio 2009

Cinquant'anni or sono ...

Proponiamo oggi un articolo del giovane Porena di più di mezzo secolo fa. Gli amatori della musica apprezzeranno le testimonianze degli incontri con Adorno, Stockhausen … ma anche la solida valutazione, allora non del tutto condivisa, che esprime su Hindemith, Nono, Webern. Gli amatori del pensiero apprezzeranno le maniere dell’articolo, già inizialmente metaculturali, dove spicca la sobrietà critica con la quale un compositore ancora alle prime armi 'agisce e reagisce' davanti ad un incontro altocolto, di enorme prestigio.


I Ferienkurse di Darmstadt

Si sono svolti quest’anno a Darmstadt, dal 16 al 28 luglio, per la dodicesima volta, i Ferienkurse für Neue Musik. I corsi, istituiti nell’immediato dopoguerra dal Dott. Wolfgang Steinecke e posti sotto l’egida del Kranichsteiner Musikinstitut, hanno potuto ancora arricchire, rispetto agli anni precedenti, il loro programma grazie alla fusione di essi con l’iniziativa dell’Ente radiofonico dell’Assia: «Tage für Neue Musik».
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La magnifica organizzazione che ha regolato l’andamento delle manifestazioni, ha permesso a più di quattrocento musicisti di ogni nazione e continente di assistere, liberi da ogni preoccupazione materiale riguardante il vitto e l’alloggio, nella sicurezza che solo una grossa busta piena di biglietti, tagliandi, marche e contromarche può dare, ad una serie di concerti e manifestazioni così suddivise: 2 concerti orchestrali, 7 da camera, 10 tra conferenze e dibattiti; tutto ciò oltre i normali corsi di pianoforte, violino, flauto, composizione.

Nei varii concerti, sia orchestrali che da camera, sono state eseguite tra l’altro anche molte musiche di autori italiani e precisamente di Luciano Berio, Aldo Clementi, Franco Evangelisti, Giacomo Manzoni, Camillo Togni. A queste esecuzioni effettive vanno aggiunte l’audizione di una registrazione del Canto sospeso di Luigi Nono (di gran lunga la più bella cosa che si sia potuta udire quest’anno a Darmstadt, comunque un’opera di primo piano che meriterebbe di essere largamente conosciuta anche da noi) e l’audizione di musiche elettroniche dei Maestri Berio e Maderna, composte nello Studio di Fonologia della radiotelevisione italiana a Milano.

Ad un uditore profano, l’aspetto fonico complessivo dei concerti di Darmstadt sarebbe apparso forse poco differenziato, monocolore, di un «grigio topo» insomma, ma è un fatto che gli uditori profani a Darmstadt non sono rappresentati. Le musiche eseguite, a parte i due concerti dedicati a grandi autori della generazione passata (con severa esclusione di Paul Hindemith), erano tutte di giovani autori seguaci della tecnica seriale, soprattutto della corrente dei postweberniani. Il panorama della situazione della musica contemporanea è stato presentato così, non nella sua interezza, ma in modo assolutamente bastevole a caratterizzare un determinato settore.

Tra le conferenze erano particolarmente attese quelle del Prof. Theodor Wiesengrund Adomo. Quattro conferenze di due ore l’una, tenute a braccio e con incredibile bravura, hanno ampiamente soddisfatto l’attesa del colto pubblico. L’illustre Professore ha riconfermato la sua diffidenza verso gli esperimenti più estremi dei giovani seriali, non tanto per il loro estremismo, quanto per l’assenza messi di quella intima forza dello spinto che aveva spinto a suo tempo Arnold Schoenberg ad opporre alla tradizione il suo tragico no; i giovani seriali postweberniani avranno avuto sicuramente i loro dubbi sulla genuinità del no di Schoenberg alla tradizione, comunque non hanno osato cimentarsi con la scaltrissima dialettica di Adorno.

La parte più interessante dei Ferienkurse era rappresentata però dai corsi stessi. Mi è impossibile qui accennare anche brevemente a tutti i cicli di lezioni che sono stati tenuti quest’anno a Darmstadt; mi limiterò così ai corsi per compositori e, anche tra questi, solo ai più caratteristici.

Luigi Nono, il già ricordato autore del Canto sospeso, ha dedicato le sue lezioni ad un’analisi più che accurata, direi quasi scientifica, delle Variazioni op. 31 di A. Schoenberg; Hermann Scherchen e Henry Pousseur (un giovane compositore belga di cui si è potuta ascoltare tra l’altro anche una strana ed un po’ equivoca composizione elettronica) hanno analizzato l’opera di Anton Webern integrando il loro dire con audizioni di musiche di questo grande autore, in Italia considerato assai a torto come un più o meno pedissequo seguace di Schoenberg. Ma la personalità che più si è imposta all’attenzione di tutti, colui che è ormai da considerarsi come il Führer dei musicisti dell’estrema seriale, il compositore che, un po’ per il suo fascino personale, un po’ per il fascino delle sue teorie filosofico-fisico-matematico-musicali, riusciva sempre a riempire fino all’ultimo posto l’aula riservata alle sue lezioni, costui è Karlheinz Stockhausen. Dovendo rinunciare per ragioni di spazio a soffermarmi oltre sulle sue affermazioni teoriche, accennerò solamente alla musica frutto dell’applicazione dei teoremi stockhauseniani. Oltre il già noto pezzo elettronico Gesang der Jünglinge, si son potuti udire di lui il quintetto Zeitmasse per strumenti a fiato, eseguito in maniera superlativa dal quintetto a fiati della Radio di Colonia e accolto quasi trionfalmente dal pubblico internazionale di Darmstadt, e il Klavierstück XI che ha riscosso alquanto minori simpatie.

In ambedue questi lavori la libertà dell’interprete o degli interpreti, propugnata come ultima scoperta da Stockhausen, si spinge fino alla soglia dell’arbitrarietà non più controllabile, anzi non esita talvolta a sorpassarla. Il risultato fonico può sembrare, al solito profano, assai simile a quello dei pezzi composti dallo stesso autore con il calcolo più preciso.

Comunque si voglia valutare il fenomeno Darmstadt, non è però da disconoscergli un posto di primaria importanza nella civiltà musicale contemporanea, non solo per la sua “azione” sulle giovani generazioni, ma anche per la “reazione” che non può mancare di suscitare forse anche nelle medesime giovani generazioni.

Pubblicato in
Ricordiana
Rivista mensile di vita musicale
Anno III, N. 9 Novembre 1957, pp. 514-515