domenica 28 dicembre 2014

Tratta XXVI.6 – IMC gioca a carte scoperte...



[Dialogante 2]  Sicché anche IMC, come la morale dei moralisti, non fa che richiamarsi alle nostre responsabilità, simili in questo ai retori della politica, che continuamente dichiarano ed esortano ad assumersi ciascuno le proprie responsabilità, senza che nessuno sappia che cosa questo voglia dire.
[Dialogante 1]  Se una certa somiglianza c’è, è però vero che IMC, a differenza dei politici, non solo cerca di dare un fondamento a questa responsabilità, ma fornisce su richiesta anche gli strumenti necessari.
[Dialogante 2]  In altre parole IMC gioca a carte scoperte, cosa che ben raramente fanno i politici.
[Dialogante 1]  Perché dici che IMC gioca ‘a carte scoperte’?
[Dialogante 2]  Perché analizza sé stessa nel momento che si esprime.
[Dialogante 1]  Che vuoi dire?
[Dialogante 2]  Che le sue espressioni conseguono sempre a una catabasi metaculturale composta da infiniti passi…
[Dialogante 1]  … di cui però solo alcuni – fino all’arresto – effettivamente compiuti…
[Dialogante 2]  … ma con l’apertura potenziale a compierne degli altri, per quanti ne servano.
[Dialogante 1]  La catabasi metaculturale non arriva quindi mai a delle espressioni definitive.
[Dialogante 2]  Si tratta di interpretare convenientemente la parola ‘definitiva’ in rapporto alla nostra finitezza.
[Dialogante 1]  E quale sarebbe una tale interpretazione?
[Dialogante 2]  Una, appunto, che assegni un limite provvisorio alla ‘catabasi’, cioè alla discesa lungo l’infinita catena delle cause.
[Dialogante 1]  Qualcosa che mi ricorda Aristotele e Tommasso. Non del tutto estraneo, quindi, alla filosofia ‘classica’…
[Dialogante 2]  … se non forse per l’arresto
[Dialogante 1]  … che tuttavia, penso, neppure quei due pensatori così poco ‘relativisti’ avrebbero rifiutato.


sabato 27 dicembre 2014

Tratta XXVI.5 – … essendo solo un’ipotesi non può nulla…




[Dialogante 1]  Recita la seconda definizione di IMC che tale ipotesi equivarrebbe alla sospensione del principio di non contraddizione, considerato fondante di tutte le conoscenze perché discendente direttamente da Dio. Questo principio è stato invero oggetto di numerosi attacchi, sia in Oriente che in Occidente, soprattutto da parte del pensiero religioso (per esempio nella definizione di Dio come Uno e Trino) e mistico, ma è di fatto sopravvissuto anche nelle forme logiche attuali. IMC non solo non lo riconosce ma fa della contraddizione il nuovo fondamento del pensiero (non del conoscere). Ne abbiamo segnalato or ora un’occorrenza che lo porrebbe anche all’origine di IMC nella duplice e contraddittoria ottica particolaristica e globalizzante che la caratterizza.
[Dialogante 2]  Più volte mi sono chiesto se IMC è nata appunto dalla necessita di conciliare quelle due ottiche, ambedue probabilmente indispensabili per la nostra sopravvivenza, oppure è stata una fortunata coincidenza che ci ha messo a disposizione, nel momento del bisogno, un modello così plastico.
[Dialogante 1]  È vero comunque che lo abbiamo a disposizione, ma è anche vero che non lo usiamo, un po’ perche non sappiamo ancora farlo, un po’ perché ingenti forze ideologiche e religiose ce lo impediscono.
[Dialogante 2]  Se ce l’impediscono, dovremmo reagire per il diritto di IMC alla piena cittadinanza teorica e operativa…
[Dialogante 1]  …ma IMC non conosce parole come ‘diritto’, ‘reagire’, ‘impedire’, se non come metafora di qualcosa che in un mondo metaculturalizzato non ha più ragione d’essere.
[Dialogante 2]  Abbiamo quindi le mani legate dalla nostra stessa ipotesi di partenza.
[Dialogante 1]  Tanto più deve averle legate IMC, che, essendo solo un’ipotesi non può nulla e men che mai legarci o pigliarci le mani.
[Dialogante 2]  Chi può o non può siamo soltanto noi, sui quali ricade per intero la responsabilità del nostro agire.
[Dialogante 1]  Se qualcuno avesse pensato di scaricarla su IMC, si sbaglia di grosso.

venerdì 26 dicembre 2014

Tratta XXVI.4 – L’identità culturale è nuovamente avvertita come centrale




[Dialogante 1]  Insisti, anche se non apertamente, a darmi dell’utopista. A parte il fatto che non mi sento offeso per questo, continuo a essere convinto che senza una radicale revisione della scuola e delle sue finalità non c’è futuro per l’umanità.
[Dialogante 2]  Il punto, però, non è questo. Dal fatto che la scuola debba cambiare si discute ormai da decenni, ma sul come non c’è accordo. In alcuni casi, come nei tentativi più recenti, sembra addirittura che la soluzione ai problemi formativi di oggi vada ricercata nella scuola di ieri. Senza escludere parziali ritorni al passato, questi dovrebbero scaturire da un’analisi del presente condotta con strumenti analitici aggiornati…
[Dialogante 1]  … strumenti che non posso essere interni a una qualsiasi cultura, anche evoluta, come la nostra, e neppure a una sedicente ‘supercultura’ (ancora una volta, come la nostra), bensì devono essere costruiti ‘metaculturalmente’, cioè su basi sì culturali (di qualsiasi cultura) ma metaculturalmente riflesse.
[Dialogante 2]  Parli come se tutti ti capissero quando parli di ‘riflessione metaculturale’.
[Dialogante 1]  Hai ragione, ma ho disseminato tutti questi scritti di dettagliate spiegazioni dei termini usati, cosicché è molto improbabile che un visitatore, anche distratto, di questi Indagini e Dispersione non si sia imbattuto in qualcuna di queste.
[Dialogante 2]  Il problema non è se il visitatore si sia imbattuto o non in una di queste spiegazioni e neppure se l’abbia capita (c’è ben poco da capire). Il problema è se, avendola capita, ne condivide il concetto. L’identità culturale, oggi, nell’età della globalizzazione di tutto, è nuovamente avvertita come centrale, mentre la formazione di una coscienza non banale e l’accettazione diffusa di IMC è alquanto problematica.
[Dialogante 1]  Non si vuole capire che IMC nasce proprio per garantire le individualità personali – tribali, nazionali, religiose, etniche – a fronte della necessaria e inevitabile globalizzazione.
[Dialogante 2]  È effettivamente difficile, non tanto capire, quanto gestire nella quotidianità questa duplice, contraddittoria ottica, particolaristica e globale a un tempo.

giovedì 25 dicembre 2014

Tratta XXVI.3 – Visione utopistico-idillica



[Dialogante 2]  È più che ovvio che un paio di paragrafi di un breve capitolo sull’argomento non danno neppure l’idea di ciò che è possibile fare in un’ottica ‘di base’ come quella adottata da più di trent’anni dal Centro Metaculturale (e ripresa di recente negli incontri gestiti da Paola Bučan).
[Dialogante 1]  Tutt’al più queste annotazioni possono suscitare curiosità per documentazioni più ampie e dettagliate, quali il lettore potrà trovare nelle Indagini metaculturali e in alcuni scritti e raccolte concomitanti.
[Dialogante 2]  A dire il vero, pensiamo che la ‘formazione di base’ possa essere raggiunta – e forse in futuro lo sarà senza l’aiuto di testi scritti, addirittura senza la presenza di un insegnante, ma solo con un adeguato training controllato da un operatore metaculturale.
[Dialogante 1]  Questo perché lo strumento principe di un processo di autoformazione ce l’abbiamo tutti – il cervello – mentre l’apporto nozionistico esterno non eccede il patrimonio comune, acquisibile semplicemente vivendo in un contesto sociale, e all’indispensabile apporto critico relativizzante provvederebbe appunto l’operatore metaculturale.
[Dialogante 2]  Visione utopistico-idillica, troppo lontana dall’attuale realtà se non altro perché con il ‘normale’ apparato nozionistico esterno presentiamo anche schegge ideologiche in grado di compromettere tutto l’edificio della cultura di base.
[Dialogante 1]  D’accordo sul carattere utopistico della mia visione. Penso però che le classi docenti del futuro, almeno per i gradi scolastici inferiori, sarebbe bene che godessero di una formazione meta (cioè critico-relativizzante in senso metaculturale) più che non di un ampio repertorio nozionistico, oggi facilmente ottenibile con pochi clic sul computer.
[Dialogante 2]  Sono naturalmente d’accordo con ciò che dici. Troppi però sono ancora le voci discordanti perché si possa contare in tempi ragionevoli su una così radicale riforma dei processi formativi.

mercoledì 24 dicembre 2014

Tratta XXVI.2 – Gli incontri sul visivo


La porta della confusione

[Dialogante 1]  Forse è bene che spieghiamo sommariamente a chi ci legge come si svolgono gli incontri settimanali con Paola sul visivo (è questo il termine scelto dai partecipanti). All’inizio Paola consegna il progetto di massima, che è sempre semplicissimo, ma estremamente ‘aperto’, che cioè ammette un numero stragrande di ‘letture’ diverse.
[Dialogante 2]  Ecco per esempio uno dei primi progetti consegnati[1]:
Campo: tutto il foglio
Elementi: cinque elementi verticali della stessa lunghezza da tracciare sul foglio
Strumenti: una penna o matita
(La parola ‘campo’ specifica la superficie su cui viene tracciato il disegno)
Nulla è detto su dove tracciare i segmenti, sulla distanza tra loro, sulla lunghezza. Quasi tutti interpretano la consegna con cinque segmenti equidistanti, tracciati con inizio in alto a sinistra del foglio. Solo pochi li dispongono in altre parte del campo. In un unico caso i cinque segmenti sono dissociati in parte diverse del campo.
L’analisi (collettiva) ha poi rilevato i condizionamenti culturali che hanno impedito di riconoscere la ‘apertura’ del progetto, uniformandone la ‘lettura’ in base alle normali esperienze di scrittura.
[Dialogante 1]  Gli altri incontri di quest’anno (2010-2011) sono stati dedicati alla costruzione di ‘serie’ di disegni. Anche qui il termine ‘serie’ è stato fatto oggetto di più interpretazioni divergenti:
                                    serie trasformazionale continua
(in cui un disegno A viene replicato con piccole varianti che un po’ alla volta lo trasformano in un disegno B)
                                    serie trasformazionale discontinua
(in cui la trasformazione di A in B si svolge senza evidente continuità, a salti, con inversioni di direzione ecc.)
                                    serie non trasformazionale, i cui elementi sono collegati da altri criteri (per esempio la presenza costante di un elemento evidente o anche no)
                                    serie definita da un comportamento comune degli elementi
(per esempio da una tendenza all’accrescimento di un parametro)
                            ………
                                    serie degli elementi del tutto scollegati e indipendenti
(cosa fare perché vengano percepiti come ‘serie’?)
[Dialogante 2]  La tipologia della serie non viene comunque ricercata a priori e tecnicamente, ma ricavata analiticamente dai lavori di realizzazione del progetto di massima, e anche queste analisi, inizialmente guidate dall’operatore metaculturale (qui Paola), molto presto si sono svolte all’interno del gruppo discente, senza più l’intervento dell’operatore. Questo, come già detto, si limitava a essere presente, tutte le fasi del lavoro essendo di fatto controllate parte dai singoli, parte dal gruppo.
[Dialogante 1]  Domandiamoci ora, a che cosa ha portato questa esperienza corale:
                            A       Per il singolo: la progressiva emancipazione dai condizionamenti culturali, il che non significa il loro rifiuto, ma il loro controllo attraverso la consapevolezza, la capacità di servirsi della mente altrui senza entrare in competizione con esso; l’attivazione della mente propria a fini di sinergia, non di rivalità; dato un progetto, l’individuazione delle alternative; il forte incremento delle facoltà sia analitiche che compositive; la crescita dell’autonomia individuale…
                            B       Per il gruppo: il superamento dell’individuo, che non è rinuncia alla propria individualità, ma disponibilità a metterla a disposizione di una mente collettiva; responsabilizzazione del gruppo in confronto del progetto concordato; acquisizione di una sensibilità per ciò che accade fuori dai propri confini; crescita di una coscienza sopraindividuale, di appartenenza a qualcosa che va al di là del proprio egoismo…




[1]             Vedi [10d] Esperienze grafico-pittoriche, Volume III L’Ipotesi Metaculturale, Indagini metaculturali.

martedì 23 dicembre 2014

Tratta XXVI.1 – … sarebbe stato possibile qualsiasi innesto specifico…



[Dialogante 2]  Ricordo che molti anni fa, nel progettare la figura professionale dell’operatore culturale di base (poi meglio caratterizzato come metaculturale[1]), l’avevamo immaginato come un agente formatore che, al culmine della sua esperienza, sarebbe rimasto in silenzio a osservare il gruppo di formandi intenti a lavorare in proprio o tutt’al più integrandosi fra loro. Sarebbe cioè bastata la sua presenza senza esplicito passaggio di informazioni perché il lavoro di formazione, opportunamente innescato e occasionalmente stimolato, si trasformasse in autoformazione.
[Dialogante 1]  Era una condizione esterna, che non osavamo supporre si potesse verificare nella realtà. Già l’esperienza della pratica musicale di base (anni Settanta) aveva peraltro mostrato come opportune condizioni di partenza e di conduzione potevano portare, in un tempo relativamente breve a un buon grado di autonomia compositiva tra i componenti del gruppo discente, che però, nell’esperienza della composizione visiva, dopo solo qualche mese di progressivo ritiro dell’operatore dalla scena dei nostri incontri (pur restando l’operatore fisicamente presente), il cammino del gruppo verso la piena autonomia progettuale ed esecutiva – autonomia mentale anzitutto, poi anche manuale, tecnica – poteva dirsi compiuto.
[Dialogante 2]  Su questa base sarebbe stato quindi possibile qualsiasi innesto specifico, si sarebbe potuta sviluppare qualsiasi tecnica pittorica, acquisita o inventata.
[Dialogante 1]  In alcuni casi, di questo sovrappiù professionalmente non si sentiva neppure il bisogno, tanto evidenti e soddisfacenti apparivano i risultati ottenuti, al punto che un’eventuale integrazione per esempio figurale o addirittura figurativa sarebbe stata avvertita come inutile ridondanza in un percorso largamente autosufficiente.
[Dialogante 2]  Anche l’assiduità dei partecipanti a questi incontri settimanali (si tenga conto che si trattava di persone lavorativamente impegnate) la dice lunga su loro interesse anche individuale, testimoniato a fine anno da decine di cartelle gonfie di disegni accuratamente suddivisi e catalogati.


[1]             Vedi [3] L’operatore culturale di base nel Volume I – Prodromi delle Indagini metaculturali.

domenica 21 dicembre 2014

Tratte di memoria – XXV.6 Estinzione ad opera del progresso?





[Dialogante 2]  È la memoria che ci fa essere come individui…
[Dialogante 1]  … ci costruisce un poco alla volta.
[Dialogante 2]  Probabilmente occorre un’enorme quantità di dati perché la costruzione sia terminata.
[Dialogante 1]  In altri mammiferi la maggior parte dei dati è già trasmessa ereditariamente, nelle antilopi per esempio tutte quelle necessarie a una corsa mirata.
[Dialogante 2]  Nell’uomo, più che i dati definitivi mi sembrano preordinati i ‘vuoti’ per accoglierli.
[Dialogante 1]  In Musica-Società[1], credo per influsso di Lorenz, ho parlato di Möglichkeitsformen (forme di possibilità), una volta esaurite le quali, l’avventura umana sarebbe giunta a termine.
[Dialogante 2]  Eravamo ancora degli ottimisti, oggi pensiamo che finisca molto prima di aver esaurito le sue potenzialità.
[Dialogante 1]  Parli delle potenzialità come di oggetti soggetti a consumo. Questo sarà pure vero – o meglio culturalmente predicabile – per un fiammifero o un litro di benzina, non credo per la mente umana, che ci piace considerare ‘aperta’, cioè non calcolabile nel suo rendimento.
[Dialogante 2]  È lo stesso esito previsto in Musica-Società: solo che allora immaginavo che, prima di scomparire, la nostra specie avrebbe dovuto sperimentare tutte le possibilità implicite nel suo corredo genetico, oggi, visto le cose come vanno, non lo immagino più.
[Dialogante 1]  Esistono le morti violente o casuali, sia per gli individui che per le popolazioni e così credo anche per l’umanità.
[Dialogante 2]  La nostra estinzione potrebbe essere casuale?
[Dialogante 1]  Più probabile: violenta.
[Dialogante 2]  Ad opera di chi?
[Dialogante 1]  Del progresso che ci ha reso così stupidi da estinguere noi stessi.


[1]             Vedi [1] Musica-società nel Volume I – Prodromi delle Indagini metaculturali.

sabato 20 dicembre 2014

Tratte di memoria – XXV.5 (Memorie figurali)



Fu uno shock visivo paragonabile solo a quello che accoglie il visitatore impreparato la prima volta che entra nella Cappella Sistina. Io avevo già subito quello shock, attenuato però dalla lunga consuetudine con i molti dettagli riprodotti ovunque, nei libri di arte e di storia, financo negli annunci pubblicitari e sui mezzi di trasporto. Non avevo però visto mai una riproduzione dell’altare di Isenheim, né conoscevo altre opere di Matthias Grünewald. Quando entrai, a Colmar, assieme alla mia prima moglie Ida, nel grande ambiente che accoglieva la gigantesca pala, restammo ambedue quasi atterriti dalla terribilità si direbbe michelangiolesca – del Cristo martoriato e crocefisso, dipinto con brutale realismo e minuziosa ricchezza di particolari, con ai piedi la grande virgola della Maddalena collo spasmo delle sue mani intrecciate e l’assurdo, didascalico gesto ostensivo del personaggio che sta lì e non partecipa. Non meno emozionanti le scene dipinte sulle ‘ali’ che ricoprivano l’immagine centrale quando l’altare restava chiuso: mi colpì in particolare l’uso del colore nell’immagine di Maria inginocchiata, degli Angeli musicanti e del Cristo risorto, come immerso nella luce di un arcobaleno glorificante. E ancora: il lacerante contrasto con il mistero dei colori spenti di una ‘sacra conversazione’ tra alberi rinsecchiti che sanno di morte pur nella energica vita dei dialoganti.
L’esperienza della Pala di Isenheim ha riecheggiato a lungo anche nella mia produzione musicale degli anni Sessanta. Ho tentato anche di riproporre gli effetti di luminescenza che si trovano numerosi nei riquadri della pala. Così l’alone variopinto che circonda alcune immagini e che ho più sopra attribuito a un ‘arcobaleno glorificante’, l’ho tradotto musicalmente sovrapponendo più contorni sonori non coincidenti di una stessa figura così da suggerire una sorta di diffrazione sonora. Questo espediente è poi degenerato in una ‘tecnica’ che mi ha perseguitato per anni – quasi non fossi io a inseguire lei, fino a condurmi alla paralisi degli ultimi anni Sessanta e alla rottura definitiva nel Sessantotto. Matthias Grünewald è stato quindi tra le cause lontane del mio tracollo di allora.

venerdì 19 dicembre 2014

Tratte di memoria – XXV.4 (Memoria letteraria)



Non solo un letterato ancorché abbia scritto non poco in questi ultimi anni. Ciò che ho scritto non ha che marginalmente a che fare con quel che si chiama letteratura o, franciosamente, belles lettres. A dire il vero, non si tratta neanche di letteratura scientifica o filosofica. Per me è sufficiente ‘scritti metaculturali’. Ciò non toglie che in passato io sia stato un discreto lettore. Non solo di Topolino e Paperino, che comunque detengono il record delle cose lette. A prescindere da questi, i miei autori preferiti continuano, come cinquanta anni fa a essere Thomas Mann, Goethe e Dante. Li ho nominati in ordine inverso da quello cronologico e da come li ho conosciuti: Dante a scuola, Goethe negli anni immediatamente seguenti (forse attraverso i Lieder di Schubert), Mann a partire dal 1953, quando mia madre mi regalò il Doktor Faustus. Non che non abbia letto anche altri autori – per esempio Kafka o Borges e, tra gli italiani, Gadda o Calvino – ma quelli su cui non mi stanco di ritornare sono quei tre. A Goethe mi sono accostato più volte (ne fecissem!) anche musicalmente. Gli altri due li ho risparmiati, anche se Mann non ha risparmiato me, nel senso che ha condizionato il mio sviluppo mentale fino alla piena formulazione di IMC. Oltre che ai bambini e ragazzi di Cantalupo debbo infatti a Thomas Mann il percorso mentale che mi ha portato allo stile metaculturale che da tempo domina il mio pensiero. Può sembrare strano che un autore così caratteristico del modo di pensare europeo si sia dimostrato anche capace di fornire una solida base al suo superamento. Pur non ritenendolo il suo libro maggiore, penso che la sua svolta, oltre l’Europa, verso la globalità politica oggi necessaria alla sopravvivenza si trovi nel Giuseppe, vero segnavia per un domani di pacificazione universale.
La Divina Commedia me la trovo sempre davanti, non solo perché ne possiedo più copie, sparse per casa, ma perché ne è piena la mia mente dal “… mezzo del cammin…” fino a “… che move il sole e l’altre stelle”.

giovedì 18 dicembre 2014

Tratte di memoria – XXV.3 (Memorie musicali)



Di Schubert conoscevo solo Ständchen, che mi sembrava troppo ‘mediterranea’ (per me i ‘veri’ mari erano il Mare del Nord e il Baltico) e l’Ave Maria, che aveva il torto di essere un’Ave Maria. Poi un giorno, per caso udii alla radio Die Krähe[1] (sarà stato il 1937) e per anni non riuscì a togliermela dalla mente finché, molti anni dopo venne a conoscenza di tutta la Winterreise e fu l’inizio di un’amicizia – purtroppo unilaterale – per la vita.
………

Un’altra amicizia unilaterale la devo, sempre via radio, ai settimanali Concerti Martini e Rossi, che mi fecero conoscere l’una dopo l’altra, tutte le Sinfonie di Beethoven, che mi fecero convinto – sbagliando – di essere nato per la musica. Dopo tutto quelle Sinfonie le aveva scritte lui, non io.
………

Un terzo caso, anche questo per la vita, lo devo a un Büchlein, un libretto scritto per una tale Anna Maddalena e, poco dopo, al No. 9 di una raccolta da cui si sceglievano alcune composizioni da presentare all’esame di pianoforte in Conservatorio. Solo molto più tardi avrei incontrato Cantate e Passioni.
………

Di Chopin sono stato appassionato amico per una decina d’anni, durante i quali imparai tra l’altro tutti e ventiquattro gli Studi – che riuscii a eseguire decentemente – la prima e la quarta Ballate ecc. ecc. Ma il mio amore per lui passava – fisicamente – per le dita e solo in seguito soddisfaceva pienamente anche il cervello. Questo amore restò poi latente per decenni per riaffiorare infine quando le dita avevano dimenticato i tasti del pianoforte.
………

L’ultima ‘cotta’ musicale è assai più recente e non si è ancora sedimentata in una condizione di stabilità emotiva. A dirla tutta, non solo Mahler, ma tutti gli autori che mi hanno segnato non hanno raggiunto in me questa condizione, e continuano ad agitarmi, e questa loro agitazione è la mia vita.




[1]             Poesia di Wilhelm Müller (1794-1827) messa in musica da Franz Schubert nella Winterreise, op. 89 no. 15, D. 911 no. 15 (1827).