domenica 31 marzo 2013

Annerire i miei quaderni... (XV)




534 (14)

Riaprendo: i vecchi si sentono vecchi?

Forse quando lo stato di salute li costringe. E può darsi che spesso sia così. Nella mia esperienza –ripeto- le cose stanno altrimenti. Non è lo stato di salute né l’età a costringermi alla vecchiezza. Lo è stata la musica dal momento in cui si è rifiutata alla mia mente; lo sono stati i coleotteri da quando si sono rifiutati alla mia cattura. E ora temo lo divengano questi postini, se cesseranno di annerire i miei quaderni. Sono loro la mia difesa; se dovessero recedere dal loro incarico, d’improvviso sarei assalito dagli 84 che incombono. Non credo infatti che troverei altri 84 disposti ad assumere la mia difesa in un processo con così scarse probabilità di successo.

giovedì 28 marzo 2013

Rinascita sotto altra forma (XIV)


[533 (13)]

I vecchi si sentono vecchi?

Pur essendo competente per età, ho difficoltà a dare una risposta.

Forse ne avrei di meno se le risposte potessero essere molte e diverse.

Mi sono sentito vecchio più volte, anche da giovane, e ogni volta in un altro modo.

Per esempio, intorno ai quarant’anni, mi ci sono sentito certamente più di ora che ne ho quasi 84.

Ma non è stata l’unica volta.

Considero la vecchiaia un fenomeno ricorrente nella storia di un individuo.

E ogni volta precede una rinascita.

Rinascita sotto altra forma.

Che sia così anche l’ultima volta? Molti lo credono.

Io no. Né vorrei che fosse così. Me l’impedisce il senso della forma.

La forma aborre l’infinito. Si dà solo nella finitezza.

Anche quando l’infinito è il suo argomento.

martedì 26 marzo 2013

Le cose, gli oggetti invecchiano? (XIII)


[532 (12)]
Le cose, gli oggetti invecchiano? Ho già accennato nel postino precedente al fatto che di molte parole facciamo un uso che potremmo dire ‘metafonico’ in quanto, trasferendole da un campo esperienziale a un altro, ne trasformiamo anche il senso. Un animale –compreso l’uomo– ‘vecchio’ ci dà l’idea di un animale indebolito dall’età vicino alla morte, una ‘città vecchia’ è piuttosto un’attrattiva turistica da conservare il più possibile. L’antiquariato è un commercio redditizio, i cui oggetti vengono stimati proprio in ragione della loro età. Viceversa un giovane in cerca di lavoro viene sottostimato per la stessa ragione. Ma quest’ultimo non è un oggetto e la sua valutazione segue altri criteri.

Ricordo che da bambino avevo un orsacchiotto di stoffa, spelacchiato e malridotto, vecchissimo all’apparenza, ma non per me, che lo consideravo amico e coetaneo. Del resto anche i genitori e i nonni non hanno età per i nipoti, finché questi sono in età infantile; la coscienza del tempo –o dovremmo dire la sua costruzione– si forma a poco a poco, quando se ne comincia ad avvertire l’utilità. Il tempo di per sé è utile? Certo, nella misura in cui la cultura gli assegna un ruolo nella razionalizzazione dell’esperienza. Gli altri animali hanno il concetto di tempo?

Forse non il concetto (e a che gli servirebbe?); credo però che ne abbiano l’esperienza non razionalizzata. Un giovane leone percepisce la ‘vecchiaia’ di un rivale con cui misurarsi, così come questo sa quando gli conviene girare alla larga. I viventi conoscono bene gli innumerevoli ‘indicatori di tempo’ che essi stessi si sono dati per orientarsi cronologicamente. Una sfinge comincia a battere le ali all’arrivo del crepuscolo per raggiungere prima della notte la temperatura corporea necessaria all’involo.  Il corpo stesso invia al cervello i segnali che avvertono l’animale vecchio di non avventurarsi in un’impresa superiore alle sue forze. Così come danno via libera al giovane, anche se questo non garantisce il successo.

Le cose, gli oggetti sono indifferenti al tempo; anche un sasso, un pianeta ‘misurano’, per così dire, il tempo con i loro cambiamenti, solo i viventi sono in grado di ‘leggere’ le loro misurazioni.

domenica 24 marzo 2013

‘Vecchio’ (XII)


[531 (11)]
La parola ‘vecchio’ e  i suoi derivati ‘invecchiare’, ‘invecchiamento’, ‘vecchiaia’ ecc. ricavano la loro semantica, o meglio il loro alone connotativo dall’esperienza della vita umana così come gli uomini la verbalizzano. Non avrebbe molto senso dire che una stella o un albero sono ‘vecchi’ se non li riferissimo al nostro modo di essere o diventare vecchi. Di per sé abbiamo a che fare solo con stadi diversi di processi trasformazionali, e tutto ciò che chiamiamo ‘realtà’ è descrivibile in termini di processi e trasformazioni meglio che di stati ed essenze. Ma le associazioni che risveglia in noi il termine ‘ vecchio’ sono tutt’altre da quelle che risveglia il termine ‘giovane’. Una farfalla appena uscita dalla crisalide la vediamo giovane, anche se ha alle spalle una vita intera da bruco. Homo sapiens è ancora giovane come specie, anche se a rappresentarla prendiamo un uomo di settanta anni; considerato come genere è alquanto più vecchio, come mammifero ancora molto di più, come essere vivente conta due o tre miliardi di anni.

Una volta deciso il termine di riferimento le cose si chiariscono, come per tutte le parole prive di valore assoluto. Solo che molto spesso ci dimentichiamo di aver deciso noi quel termine e assolutizziamo tutto ciò che ne deriva. Gli antichi romani erano antichi fin dalla nascita, i dinosauri sono rettili ‘preistorici’ anche se non è chiaro a quale storia ci si riferisca. Complice di questa ambiguità è il verbo essere, che finge  determinazione anche là dove questa è logicamente impossibile. Ma la parola non è soltanto un veicolo del pensiero logico. Per là passano molteplici ‘stili di pensiero’. L’errore –errore nel senso di ‘confusione’, ‘errare senza meta’– non nasce dalle parole, ma dal loro uso, e questo varia a seconda dello stile di pensiero cui l’assoggettiamo. Molto spesso di questo stile non ci rendiamo conto. Più grave, anche se non infrequente, il caso che ce ne rendiamo conto benissimo, ma facciamo in modo che il destinatario delle nostre parole lo scambi per un altro. Ne sanno qualcosa coloro che professano ideologie e religioni.

sabato 23 marzo 2013

E ancor meno il suo punto di arrivo (XI)


[530 (10)]
No, la vecchiaia assolutamente non piace e ancor meno il suo punto di arrivo. Eppure, in media, la sopportiamo in odio a quel punto. Con qualche eccezione, però. Ricordo ancora, dopo più di sessant’anni, un’anziana signora, malata di cancro, che chiedeva –educatamente ma con fermezza– di essere lasciata morire. I medici però le rifiutarono cristianamente (!) l’estremo aiuto, condannandola ad altri due mesi di sofferenza.

Non voglio però parlare della morte, ma ancora della vecchiaia, che, bene o male, è vita, più consapevole, forse, di esserlo che non le sue fasi precedenti. È più raro che sia un anziano, e non un giovane, a spingere sull’acceleratore quando non è il caso.

Quando ha inizio la vecchiaia?

Ho conosciuto vecchi di quarant’anni e anche meno. Io stesso a quell’età mi consideravo finito, senza più un futuro né come uomo né come professionista. E non posso dire di essermi sbagliato, perché, dopo quella precoce vecchiezza, la mia vita ha avuto un secondo inizio, una seconda gioventù, cosicché quella che sto attualmente vivendo posso dirla una seconda vecchiaia. Questa è indubbiamente assai più gravosa dal punto di vista fisico che non la precedente. Quanto a equilibrio interno –un tempo si sarebbe detto ‘spirituale’– è incomparabilmente più stabile dell’altra. E per una ragione molto semplice: il ‘vecchio’ di allora non vedeva un futuro per il suo passato, pur avendolo, il vecchio di oggi sa di non avere un futuro, ma conosce quello che è stato il suo per tanti anni e sa che non ne avrebbe desiderato uno migliore.

E che ne è dell’unicità dell’io?

Un io scisso, plurimo, privo di centralità?

Questa è l’esperienza della mia vita, ma credo di poterla augurare a chiunque altro, se non alla mia stessa specie animale.

venerdì 22 marzo 2013

Benservito... senza tanti complimenti... (X)


[529 (9)]
La Natura –uso questo termine nell’abituale senso fortemente ideologizzato– non tiene in nessun conto la vecchiaia e, quando è giunto il momento, ci dà il benservito senza tanti complimenti. A dire il vero non si cura neppure dei giovani, quelli però in genere se la cavano da soli, mentre ai vecchi non resta che andarsene, volenti o nolenti. Negli animali è così da sempre: il leone, quando perde i denti, muore di fame, il bufalo, quando non ce la fa più a correre, si lascia sbranare dai leoni (con i denti), le vespe, che non sopportano il freddo, muoiono tutte (salvo la regina) all’arrivo dell’inverno. Anche gli orsi e i castori soffrono il freddo, ma per loro (e altri) la morte si è fatta gentilmente sostituire –pro tempore– dal letargo. A nessun animale –con una sola eccezione– è venuto in mente di usare la vecchiaia per opporsi alla morte. Semmai per assecondarla. Solo l’uomo ha intrapreso un’inutile battaglia contro la vecchiaia, per lo più con l’unico risultato di prolungarne la sgradevolezza, spesso di acuirla. Leopardi si augurava di non doverne varcare la “detestata soglia”, oggi può capitare di vivere più di un quarto della vita seduti su quella soglia. Che fare allora? rifiutare questa stagione estrema della vita? accettarla con rassegnazione? nasconderla dietro ridicoli ceroni e trattamenti di lifting? trattandola come nemica aizzandola contro di noi?

E se non facessimo nulla e lasciassimo fare lei, non però con rassegnazione ma con curiosità e interesse. Dopotutto è cosa che sta capitando a noi o capiterà in futuro e non dovremmo cercar di capire di cosa si tratta? Osservare invecchiare: può darsi che non sia il più dilettevole dei filmati, ma è quello che ancora non abbiamo visto almeno non con noi come protagonisti, e non dovremmo assistervi con partecipazione? Sappiamo già come andrà a finire, ma non conosciamo la strada che ci resta da percorrere. E non dovremmo essere interessati anche a quest’ultimo tratto?

Io per esempio: da molti mesi mi imbottiscono di pillole, faccio ginnastiche riabilitanti, frequento un centro geriatrico, osservo una dieta vegetariana, tento di rinvigorire la mente scrivendo postini…

Tutto questo, naturalmente, non per tener lontano qualcuno che non ho nessuna intenzione di recedere, ma solo per capire…

giovedì 21 marzo 2013

Fanno di tutto per combatterla... (IX)


[528 (8)]
Della vecchiaia si parla in genere piuttosto male. C’è chi la considera addirittura una –inevitabile– malattia, e le scienze mediche fanno di tutto per combatterla, quando converrebbe forse piuttosto lasciarla fare come qualcosa che matura in noi fin da quando siamo bambini. Certo, la vecchiaia sa essere aggressiva quanto il peggiore dei nemici, quando però si accompagna alla malattia, e allora è piuttosto quest’ultima il vero nemico da combattere. E se la vecchiaia indebolisce l’organismo, indebolisce però anche l’organismo dell’aggressore che si mostra in genere meno virulento che nei confronti di un giovane. Si arriva al paradosso che, più uno invecchia più almeno aumentano le sue speranze di vita. Non so se sia così ma fa bene ai vecchi pensarlo.

lunedì 18 marzo 2013

Melanconia controbilanciata (VIII)

[527 (7)][527 (7)]

Se la vecchiaia mia mi lascia quasi indifferente quella altrui mi turba e mi rattrista.

Questo vale soprattutto per le donne che vorrei non invecchiassero mai. È certamente un residuo di maschilismo ad agire in me. Dico così perché ritengo e spero di non aver conservato altra traccia di un atteggiamento che mi è estraneo fin da quando ero ragazzo. La mia considerazione per le donne mi ha portato più volte a sovrastimarla rispetto all’uomo per le sue facoltà mentali e per la capacità di dare un senso non competitivo all’esistenza. Mi rendo però conto che anche questa competizione tra i sessi è di una insopportabile banalità. Anche le banalità, tuttavia, hanno pieno diritto di rispetto se non altro per l’ampia diffusione di cui godono. E così la melanconia che provo nel veder sfiorire la bellezza femminile (di quella maschile non parlo per mancanza di competenza) non penso mi debba attirare il rimprovero da parte femminile, tanto più che questo sfiorire è largamente controbilanciato dalla spesso prodigiosa crescita della saggezza nella donna in età avanzata.

mercoledì 13 marzo 2013

L’età non rimbambisce, come si dice... (VII)



La gioventù e la vecchiaia, di Pietro della Vecchia
[526 (6)]
La vecchiaia non ci sarebbe se non ci fossero i giovani a rimarcarla. Sono loro i suoi artefici, i responsabili della sua diversità…

Così un vecchio inacidito e scontroso. E avrebbe ragione se tra gioventù e vecchiaia ci fosse opposizione. Ma non c’è, giusta la parola di un vecchio che l’età ha risparmiato per concedergliene gli anni:

“Das Alter macht nicht kindisch, wie man spricht,
Es findet uns nur noch als wahre Kinder.”
Goethe, Faust, Vorspiel auf dem Theater

(L’età non rimbambisce, come si dice, ma ci trova ancora veri bambini.)

È una delle citazioni cui ricorro assai spesso quando si tratta di descrivere lo stato in cui mi trovo, ormai da parecchi anni, stato per certi versi di effettiva regressione infantile, per altri di ipermaturità senile, non sempre gradevole per me e chi mi sta intorno. Il guaio è che i due stadi non sono chiaramente distinguibili né è in mio potere farlo cosicché chi non mi conosce bene non di rado resta interdetto e non sa come prendermi, se come uno che ragiona o uno il cui cervello è andato in auto. Spesso, anche quando scrivo, sono in dubbio io stesso, rinforzato in questo dalla consuetudine con IMC che, tra le molte virtù, non ha quella di fornire certezze. A chi mi chiedesse se rimpiango la ‘perduta giovinezza’ risponderei che no, non la rimpiango; semmai in certi momenti di attonita meraviglia propri dell’infanzia, ma questi si ripropongono a ogni primavera e ogni ascolto di un Lied di Schubert, a ogni sguardo scambiato con Paola. Certo, farei volentieri a meno dei dolori e della debolezza che mi impedisce di camminare, ma non sono ancora al punto di preferire il passato al presente. Quello, oltretutto resta incluso nel mio presente, e anche se qualche parte ne va perduta per il venir meno della memoria, non me ne accorgo, come penso non mi accorgerò quando si perderanno anche il presente con il suo carico di passato e il futuro con quel poco che resta di speranza.

domenica 10 marzo 2013

Diffidenza dell'anziano, insofferenza del giovane (VI)



[525 (5)]
Credo che la musica, tutta la musica, anche quella che alcuni di noi –io per esempio– guardano dall’alto in basso, probabilmente senza ragione, si basi sull’invenzione. Non è detto che l’invenzione si trovi sempre allo stesso posto –per esempio sempre nella melodia o nel ritmo, o nella qualità del suono (nel sound)– e così capita di frequente che non si trovi là dove per abitudine la cerchiamo, mentre si trova da una parte dove neppure la sospetteremmo e così non ce ne accorgiamo. È questo che rende l’anziano diffidente verso la novità e il giovane insofferente verso ciò che considera risaputo anche se lui non lo conosce affatto…

C’è una punta di risentimento in ciò che vado dicendo e non cerco neppure di nasconderlo. Ma il risentimento non è diretto tanto verso i giovani quanto verso coloro che, non più giovani, hanno pensato bene di sfruttare la naturale impulsività acritica e irriflessa di quegli anni per creare un mercato oltremodo redditizio nel nome di una giovinezza ideologizzata, irreale, sostanzialmente falsa. Perché, i classici, i romantici, e quelli precedenti non sono stati giovani anche loro, non hanno saputo vivere ed esprimere la loro gioventù tanto quanto i loro colleghi di oggi? E forse con maggiore consapevolezza perché non condannati alle stereotipie imposte dalle case discografiche? Ma di questa immensa ricchezza il giovane in media non sa nulla in quanto la scuola e la cultura di media ritengono superfluo parlargliene, almeno da noi in Italia.

Questa ricorrente lamentela non sarebbe nient’altro che una senile querimonia se riguardasse soltanto la musica o se la musica non fosse altro che quella di cui parlano la televisione e le riviste ad essa collegate. Ma il riflesso negli itinerari formativi va ben oltre la sparizione della musica dalla nostra cultura e investe soprattutto il pensiero riflettente sempre più inibito dalla ricerca di verità ultime che sappiamo ormai benissimo essere irraggiungibili, come sappiamo essere irraggiungibili le verità di cui ci parla certa musica senza bisogno di usare la parola.

venerdì 8 marzo 2013

Forse siamo stati vecchi fin da giovani… (V)


[524 (4)]
  • Può essere nuova l’esperienza della vecchiezza?
  • Certo! Nuova per il singolo, vecchia per la società.
  • E noi saremmo una società ‘vecchia’?
  • In ogni caso più vecchia degli individui che la compongono.
  • E quand’è che l’individuo si dice vecchio?
  • Glielo segnala il corpo con i suoi acciacchi.
  • E una società ‘vecchia’ è una società di vecchi?
  • Non necessariamente. Può essere anche una tribù amazzonica rimasta isolata per millenni e con una vita media di mento di trent’anni.
  • Una società ‘vecchia’ soffre anch’essa dei malanni dell’età?
  • Certamente, ma dei suoi sintomi spesso non ci accorgiamo, perché ne siamo colpiti tutti, indistintamente.
  • A dire il vero, poiché sembra assodato che discendiamo tutti da una medesima coppia di mutanti, non ha senso distinguerci per età ‘biologica’, ma solo per età individuale, e in tal senso l’esperienza dell’invecchiamento non può che essere privata…
  • … anche se comune a tutti…
  • A riflettere sulla vecchiaia possono essere soltanto i vecchi?
  • Quando Goethe inventò la figura dell’arpista e Schubert la interpretò musicalmente non erano certo vecchi.
  • Giusto! Vedi noi due: vecchio l’uno, giovane l’altro.
  • Ma se siamo la stessa persona!
  • Forse siamo stati vecchi fin da giovani…
  • … e forse continuiamo a essere giovani anche da vecchi…
  • (a due)… e oggi non sappiamo deciderci e aspettiamo che qualcuno venga a decidere per noi. Ma ci lasci ancora qualche tempo per pensare…


mercoledì 6 marzo 2013

La forza di cedere (IV)




Dalla serie Half Drag, di Leland Bobbé
[523]

Resistere, resistere, resistere…

Oppure cedere…

La forza di resistere, il piacere di cedere.

La retorica corrente considera maschile resistere, femminile cedere.

Balle: spesso chi resiste semplicemente non ha la forza di cedere.

Perché se non è facile abbandonare una posizione duramente conquistata, nella quale abbiamo investito buona parte di noi stessi, ancora più difficile può risultare abbandonarla quando è palesemente perdente.
Cedere non significa necessariamente dichiararsi sconfitti, ma può anche significare rendersi disponibili al pensiero altrui, a ipotesi altre dalle nostre. E in questo senso, il ‘femminile’ è più forte a resistere del ‘maschile’.

Se a un uomo vengono meno i suoi ideali, le sue fedi, la sua mascolinità ne risulta fortemente compromessa. Il suo cedimento tuttavia è ben altro da quello della donna consenziente, che non è certo un passivo arrendersi alla volontà altrui, ma deliberata partecipazione a un piacere comune. Il verbo ‘cedere’ come pressoché tutti i termini di una lingua, non possiede un suo proprio significato ma lo riceve dal contesto –verbale, situazionale– in cui si trova inserito. D’altra parte il suo inserimento in quel certo contesto dipende dal significato che il contesto suggerisce, un loop che rende il linguaggio verbale assai poco affidabile. E così il cedimento, come anche la resistenza, non ammettono una qualificazione di genere, ma solo circostanziale e anche lì il giudizio sulla circostanzialità resta una variabile aperta che in nessun modo conviene chiudere.

Allora ‘resistere’ in determinate occasioni può voler dire cedere o anche viceversa? E che ci sarebbe di strano? I linguaggi li abbiamo inventati noi, come pure il giudizio, quindi anche il loro uso è a nostro arbitrio.
Oppure no?

venerdì 1 marzo 2013

Riempire un tempo riottoso stanca (III)


[522]
·       Nel precedente postino mi sono lasciato andare ai facili giochini pseudo-logici di cui più volte ho abusato.
·       E perché l’hai fatto?
·       Per riempire il tempo e il quaderno.
·       E perché hai voluto riempirli?
·       Perché da tempo sono abituato così.
·       E ti piace farlo?
·       Un tempo, forse, oggi non più.
·       E allora?
·       Si vive anche per inerzia.
·       Vuoi dire per superare i ‘buchi del tempo’ (o ‘della vita’)?
·       Sì, ma ormai i ‘buchi’ stanno diventando troppi e la vita non basta a riempirli e non resta che il tempo vuoto (o il vuoto del tempo).
·       E tu lo riempi continuando a scrivere insulsi postini? Ma non doveva essere la vita a riempire il tempo?
·       Già, ma quella se ne fugge via.
·       E, ti dispiace?
·       Non tanto. Perché riempire un tempo riottoso stanca. “Lavorare stanca”, ha detto un tale. Anche riempire un tempo riottoso stanca, dico io.
·       Perché lo chiami riottoso?
·       Perché è vecchio. Almeno il mio lo è, e i vecchi sono riottosi.
·       Allora sei tu a essere riottoso non il tuo tempo.
·       Che differenza fa? Lo sto riempendo di vita riottosa e così è il tempo ad apparirmi riottoso.
·       E se lo riempissi di un tempo gentile?
·       Non dipende da me.
·       E da chi allora?
·       Dal paese ignobile in cui vivo.
·       E perché ignobile?