martedì 16 gennaio 2018

Tratta LI.3 (La sestina ipermetra) - Una possibile lettura politica della sonata per pianoforte op. 111 di Ludwig van Beethoven


[L’attacco della Sonata, magniloquente e bellicoso, sembra riportarci, dopo le sonate op. 101 e 110, qualche anno indietro, nel bel mezzo dell’età eroica della produzione beethoveniana. Anzi, tutt’intero il primo tempo respira un’aria napoleonica forse un po’ demodé, carica di trattenuta aggressività, aria che ritroveremo ancora nel primo movimento della Nona Sinfonia, ma che si pensava avesse fatto il suo tempo nell’opera cameristica di Beethoven. Ecco invece nuovamente i toni perentori della Terza Sinfonia, della Quinta e dell’Appassionata, resi, se possibile, ancora più drastici dall’implacabile assistenza di un linguaggio che nulla più concede alla piacevolezza uditiva.
Perché questo ritorno a un’inesorabilità che le op. 100 e 110 sembravano aver lasciato dietro di sé?

Il pensiero compositivo di Beethoven eccede talvolta i limiti di una sola opera. Gli viene incontro in questo la tendenza del suo tempo a vedere le cose del mondo in rapporto dialettico, in termini di opposizione e suo superamento. Bastano osservare alcune coppie o gruppi di sue opere, come le tre Sonate op. 31 o le Sinfonie Quinta e Sesta, per rendersi conto di quanto il suo pensiero sopravanzasse ogni confine. Nell’op. 111 il piano complessivo della Sonata vive dell’opposizione interna, vistosissima, tra i due movimenti che la compongono, ma al tempo stesso si differenzia dalle due sonate che la precedono, proprio per questa opposizione, che, per raggiungere il massimo di evidenza, rinuncia alla tradizionale dialettica interna al primo tempo, la cui struttura risulta così essenzialmente monotematica con un semplice accenno (battute 50-52) a una figura discendente blandamente oppositiva. La mancanza di un vero secondo tema accresce così la compattezza del primo tempo che di conseguenza assume nella sua interezza – introduzione compresa – la funzione di antecedente dialettico del secondo tempo, com’era già accaduto nell’op. 90. Lì però il peso strutturale ed espressivo era equamente ripartito tra i due tempi, mentre qui risulta fortemente sbilanciato in favore del secondo, al punto di farlo apparire come punto di arrivo (Adorno, Mann) dell’intera storia della Sonata.]

domenica 14 gennaio 2018

Tratta LI.2 (La sestina ipermetra) - Una possibile lettura politica della sonata per pianoforte op. 111 di Ludwig van Beethoven


[L’op. 111 è una delle sei sonate beethovenianie in due soli movimenti (op. 49, nn. 1 e 2, op. 54, op. 78, op. 90, op. 111) a fronte delle ventisei in tre o quattro. L’op. 49 non sembra aver problematizzato, nella mente dell’autore, il problema formale: né i primi tempi, né i secondi (finali) mostrano particolarità che li differenzino formalmente dai relativi modelli in Haydn o ancora in Clementi. Nell’op. 54 primo tempo si discosta alquanto dalla forma tradizionale, occhieggiando piuttosto un ABA ripetuto e variato senza un’effettiva elaborazione tematica, mentre il secondo, come poi il finale dell’op. 57, è piuttosto uno studio sostanzialmente monotematico con episodi intercalati.
Alquanto più attenta alle peculiarità di una forma articolata in due soli movimenti è l’op. 78, cui l’autore sembra sia stato particolarmente affezionato. Qui i due movimenti sono evidentemente calibrati l’uno sull’altro in senso oppositivo. Già le quattro misure introduttive preannunciano per il primo movimento un carattere dolcemente intimistico, poi confermato dal tema principale e da tutta la condotta melodizzante del brano. Tutt’altra cosa il secondo tempo, un Allegro vivace, a metà strada tra l’episodicità di un rondò e la ripetitività di uno studio. La preponderanza di un disegno quasi clavicembalistico e coppie di semicrome si oppone nettamente alla metodicità del primo tempo, anche se, a guardar bene, il vero tema di questo secondo movimento, tema le cui ripetizioni pressoché invariabili suggeriscono appunto la forma di rondò, mostra anch’essa una sotterranea tendenza alla cantabilità.
Decisamente fondati sul rapporto oppositivo, i due tempi dell’op. 90 sforano ormai la semantica interna al fatto musicale fino ad aprirla simbolicamente a una semantica riguardante la specie umana tout-court. L’opposizione investe qui non solo la macroforma dei due tempi, ma penetra all’interno del primo differenziando – e non solo dinamicamente – proposta e risposta dal tema principale, quindi le due frasi del medesimo, e, ancora, la frase conclusiva, quindi l’apertura di una parte di raccordo al secondo tema, a sua volta articolato in un’esposizione, una ripetizione variata e una formula cadenzale più volte ridondata. La dialettica che ha permeato di sé fin nei più minuti particolari la struttura compositiva del primo tempo si oppone ora globalmente a la quasi schubertiana adialetticità ripetitiva del secondo, appena contraddetta da una momentanea vertigine armonico-contrappuntistica (battute 203-218). La via è aperta verso il raggiungimento supremo nell’Arietta dell’op. 111.] 

mercoledì 10 gennaio 2018

Tratta LI.1 (La sestina ipermetra) - Una possibile lettura politica della sonata per pianoforte op. 111 di Ludwig van Beethoven


[Non si dice che sia la lettura più giusta – e poi, quale sarebbe la più giusta? –. Ma solo che sia possibile’, e questo ritengo di poterlo dimostrare facendola. Molti inverdiranno al solo pensiero, soprattutto in considerazione dell’Arietta, ma è proprio su questa che intendo basarmi per la mia dimostrazione, che – ripeto – riguarda la fattibilità, non la giustezza dell’analisi.

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L’op. 111è l’ultima delle trentadue Sonate per pianoforte del loro Autore, non l’ultima delle sue opere per questo strumento. La seguono, se non altro, le Trentatrè variazioni sopra un valzer di Diabelli op. 120, e due raccolte di Bagatelle op. 119 e op. 126. Ma la forma principe del pianismo classico-romantico, che tale resterà anche per buona metà del Novecento, e la sonata, che vedrà i compositori impegnati al massimo grado nonostante la prepotente avanzata di altre forme, più in sintonia con le esigenze espressive piuttosto che costruttive dall’Ottocento. Molto prima che la Sonata avesse terminato la sua parabola culturale, ci fu chi le diede l’estremo addio dal suo stesso interno, almeno secondo l’opinione espressa da Thomas Mann nel Doktor Faustus e risalente a una fondamentale analisi di Theodor Wiesengrund Adorno. La lettura dell’op. 111 come non plus ultra della forma sonata conserva a mio parere la sua piena validità, ovviamente non cronologica, ma simbolica. Dopo di lei non conosco altra sonata che dichiari con altrettanta perentorietà quel non plus ultra di cui parlano Adorno e Mann.

Ora però a questa lettura, indubbiamente affascinante e oltremodo convincente, vorrei sovrapporre un’altra, non certo per sostituirsi ad essa, ma per mostrare la polisemanticità ricavabile da un testo musicale, polisemanticità probabilmente inestinguibile dal linguaggio verbale ma che senza di questo resterebbe nascosta tra i ben più accattivanti suoni del discorso musicale.]