[Alcuni aspetti del suo comportamento
compositivo trovano chiare corrispondenze con gli automatismi quasi meccanici
delle sequenze muscolari che presiedono ai nostri abituali movimenti. Si pensi
solo al movimento a stantuffo che domina l’intero primo tempo del Sesto concerto brandeburghese. Certo l’accentuata
periodicità non è caratteristica della sola musica di Bach, basta pensare alla
musica popolare, spesso legata alla periodicità dei movimenti di danza, a sua
volta legata al risparmio energetico che ne deriva. Anche se non solo sua e
della musica barocca in genere (vedi la pratica del ‘basso continuo’) la
periodicità ritmica è alla base del suo successo anche fuori dall’ambito
originario. In opposizione complementare a questa meccanicità – che rimanda
alla concezione che della vita animale aveva Cartesio [1]
– la pratica musicale barocca sviluppa una libertà esecutiva e improvvisativa
che andrà perduta quasi del tutto in età successive.
In un certo senso non è azzardato
vedere nella produzione bachiana, in quanto summa
culturale di tutta un’epoca e del suo ‘stile di pensiero’, uno dei punti di
arrivo, forse tout-court l’apice
evolutivo delle potenzialità umane. Affermazioni del genere non godono
ovviamente di alcun supporto dimostrativo e restano, anche se condivise, a
completo carico di chi le fa o condivide. Ciononostante non riesco a
trattenermi dal ripeterle di tanto in tanto. Non si tratta di istituire
graduatorie di merito. Sere fa per esempio ho riascoltato l’op. 111 di
Beethoven con l’astrale Arietta; ieri
è toccato ancora una volta alla Morte e
la fanciulla nella splendida esecuzione del quartetto Berg e ho riprovato
l’impressione del non plus ultra.
Ambedue le volte l’impressione è stata di qualcosa di estremo, di irrepetibile,
anche se sapevo che queste condizioni estreme di irripetibilità erano sì uniche
nel loro essere così e non altrimenti, ma che accanto a queste, altre ve
n’erano, sempre diverse, ma altrettanto uniche.
Con Bach le cose stanno diversamente.
Lì non è tanto la singola opera a costituire un unicum, ma è la normalità di un’intera produzione a riflettersi nel
caso singolo come un unicum. Bach non
può scrivere ‘capolavori’, perché in lui l’eccellenza produttiva e di assoluta
normalità e non certo sotto il solo profilo tecnico (che cos’è la ‘tecnica’ in
Bach?). Sembra quasi che il suo cervello non potesse funzionare che ha un
livello di massimo rendimento. Proprio per questo mi piace vederci il prototipo
probabilmente ineguagliabile di tutte le categorie. Credo quindi che uno studio
esaustivo del pensiero umano deva incentrarsi sul funzionamento del cervello
bachiano.
Per singolare fortuna abbiamo di quel
funzionamento l’inequivocabile traccia nella scrittura della sua opera.
Qualcuno dirà che qualsiasi scrittura è
la traccia del pensiero che l’ha generata, il che è ovvio. Nel caso della
musica l’ovvietà si estende al fatto che non è neppure necessario passare per
il significato di ciò che è scritto, perché è sufficiente mantenersi
all’interno delle convenzioni sintattico-grammaticali del linguaggio musicale
per afferrare le connessioni tra l’attività cerebrale e l’effetto anche emotivo
che essa produce. Ciò vale per la musica tutta e il caso Bach non farebbe
eccezione. Ma in lui le connessioni si moltiplicano, alcune delle quali non
percepibili sensorialmente ma attivi a livello subliminale cosicché
l’informazione che esse forniscono è quella di un’organicità interna non
dissimile da quella di un organismo vivente. Altre connessioni però, in numero
indefinitamente crescente, si manifestano a uno studio più dettagliato. Più uno
crede d’essere penetrato nei meccanismi più reconditi del pensiero di Bach, più
questo si ritira sfuggendo alla comprensione. Non tanto alla comprensione della
sue strutture che stanno lì, davanti ai nostri occhi, ma di come sia stato
possibile pensarle quando ancora non c’erano. Certo, esistevano i presupposti
logici i grammaticali per costruirle, quelle strutture, ma la loro complessità,
una volta costruite, non sembra compatibile con le capacità costruttive di un
cervello umano, per quanto dotato e allenato. Non si tratta infatti di
prestazioni-limite, ottenute solo una o poche volte nel corso di un’intera vita
produttiva – e quanto produttiva! – , bensì di una condizione normale, o meglio
di una normalità tutta eccezionale, di cui non saprei citare l’equivalente in
nessun altro contesto produttivo.]
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