mercoledì 29 novembre 2017

Tratta L.2 – Altre connessioni…



[Alcuni aspetti del suo comportamento compositivo trovano chiare corrispondenze con gli automatismi quasi meccanici delle sequenze muscolari che presiedono ai nostri abituali movimenti. Si pensi solo al movimento a stantuffo che domina l’intero primo tempo del Sesto concerto brandeburghese. Certo l’accentuata periodicità non è caratteristica della sola musica di Bach, basta pensare alla musica popolare, spesso legata alla periodicità dei movimenti di danza, a sua volta legata al risparmio energetico che ne deriva. Anche se non solo sua e della musica barocca in genere (vedi la pratica del ‘basso continuo’) la periodicità ritmica è alla base del suo successo anche fuori dall’ambito originario. In opposizione complementare a questa meccanicità – che rimanda alla concezione che della vita animale aveva Cartesio [1] – la pratica musicale barocca sviluppa una libertà esecutiva e improvvisativa che andrà perduta quasi del tutto in età successive.
In un certo senso non è azzardato vedere nella produzione bachiana, in quanto summa culturale di tutta un’epoca e del suo ‘stile di pensiero’, uno dei punti di arrivo, forse tout-court l’apice evolutivo delle potenzialità umane. Affermazioni del genere non godono ovviamente di alcun supporto dimostrativo e restano, anche se condivise, a completo carico di chi le fa o condivide. Ciononostante non riesco a trattenermi dal ripeterle di tanto in tanto. Non si tratta di istituire graduatorie di merito. Sere fa per esempio ho riascoltato l’op. 111 di Beethoven con l’astrale Arietta; ieri è toccato ancora una volta alla Morte e la fanciulla nella splendida esecuzione del quartetto Berg e ho riprovato l’impressione del non plus ultra. Ambedue le volte l’impressione è stata di qualcosa di estremo, di irrepetibile, anche se sapevo che queste condizioni estreme di irripetibilità erano sì uniche nel loro essere così e non altrimenti, ma che accanto a queste, altre ve n’erano, sempre diverse, ma altrettanto uniche.
Con Bach le cose stanno diversamente. Lì non è tanto la singola opera a costituire un unicum, ma è la normalità di un’intera produzione a riflettersi nel caso singolo come un unicum. Bach non può scrivere ‘capolavori’, perché in lui l’eccellenza produttiva e di assoluta normalità e non certo sotto il solo profilo tecnico (che cos’è la ‘tecnica’ in Bach?). Sembra quasi che il suo cervello non potesse funzionare che ha un livello di massimo rendimento. Proprio per questo mi piace vederci il prototipo probabilmente ineguagliabile di tutte le categorie. Credo quindi che uno studio esaustivo del pensiero umano deva incentrarsi sul funzionamento del cervello bachiano.
Per singolare fortuna abbiamo di quel funzionamento l’inequivocabile traccia nella scrittura della sua opera.
Qualcuno dirà che qualsiasi scrittura è la traccia del pensiero che l’ha generata, il che è ovvio. Nel caso della musica l’ovvietà si estende al fatto che non è neppure necessario passare per il significato di ciò che è scritto, perché è sufficiente mantenersi all’interno delle convenzioni sintattico-grammaticali del linguaggio musicale per afferrare le connessioni tra l’attività cerebrale e l’effetto anche emotivo che essa produce. Ciò vale per la musica tutta e il caso Bach non farebbe eccezione. Ma in lui le connessioni si moltiplicano, alcune delle quali non percepibili sensorialmente ma attivi a livello subliminale cosicché l’informazione che esse forniscono è quella di un’organicità interna non dissimile da quella di un organismo vivente. Altre connessioni però, in numero indefinitamente crescente, si manifestano a uno studio più dettagliato. Più uno crede d’essere penetrato nei meccanismi più reconditi del pensiero di Bach, più questo si ritira sfuggendo alla comprensione. Non tanto alla comprensione della sue strutture che stanno lì, davanti ai nostri occhi, ma di come sia stato possibile pensarle quando ancora non c’erano. Certo, esistevano i presupposti logici i grammaticali per costruirle, quelle strutture, ma la loro complessità, una volta costruite, non sembra compatibile con le capacità costruttive di un cervello umano, per quanto dotato e allenato. Non si tratta infatti di prestazioni-limite, ottenute solo una o poche volte nel corso di un’intera vita produttiva – e quanto produttiva! – , bensì di una condizione normale, o meglio di una normalità tutta eccezionale, di cui non saprei citare l’equivalente in nessun altro contesto produttivo.]



[1] Che considerava gli animali come delle vere e proprie macchine.

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