[Dialogante 2] C’è poi un
terzo modo di essere io. Un io di
valenza universale: io-Dio.
[Dialogante 1] Una
qualifica che alcune religioni attribuiscono ai loro capi. Per esempio
nell’antico Egitto, dove il Faraone era considerato una divinità, nella Roma
imperiale dove, nell’esempio egiziano, anche l’imperatore era un dio, come del
resto in molte altre civiltà nelle quali religione e potere politico
confluiscono in un unico concetto di ‘divinità’.
[Dialogante 2] Abbiamo cioè
un’idea intensificata di umanità, dove l’io
si estende nominalmente –ma anche fattualmente– a tutta la società.
[Dialogante 1] E, quando
ciò non accade, resta sempre il potere ad assumere il contorno della sacralità,
per cui, quando una persona per una via o per un’altra vi accede, scatta
automaticamente la qualifica successiva.
[Dialogante 2] Come
sappiamo, vi è anche un’altra via per accedere allo stato di divinità, una via
che non ha a che fare con il potere, anzi lo rifiuta tout-court o addirittura lo sostituisce con il grado più basso nella
classifica sociale, quello di vittima sacrificale. È il caso di Gesù Cristo la
cui ‘divinità’ si è imposta a miliardi di individui proprio grazie alla
graduatoria inversa di cui si è fatto campione.
[Dialogante 1] E a questo
punto non si può che deprecare il radicale stravolgimento di questa via,
stravolgimento che da duemila anni le varie chiese che si rifanno a Lui stanno
perpetrando in omaggio al principio che aveva creduto di eliminare: il potere: non il potere amministrativo e
giudiziario di Roma, ma quello politico-religioso di una civiltà destinata a
rapido declino.
[Dialogante 2] Che cosa ti
ha spinto a questa improbabile lezioncina sui rapporti tra Roma, il
Cristianesimo delle origini e quel che è venuto dopo?
[Dialogante 1] Non so, non
certo la competenza storica, forse la nostalgia per i lontani giorni del liceo
o la mia innegabile simpatia per la figura, storica o inventata, di Gesù
Cristo. Sia come sia, ecco un provvidenziale punto.
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