venerdì 6 aprile 2012

5i) Le leggi


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È un argomento tecnico in cui non posso entrare. Poiché tuttavia è anche un argomento che ci riguarda tutti ma soprattutto delimita da un certo punto di vista il nostro spazio vitale, l’ambiente antropico che ci siamo costruiti, qualche osservazione ci è concessa.

Ha senso parlare di ‘leggi di natura’ come la gravitazione o la costanza della velocità della luce nel vuoto?

Più che di una legge ne parlerei come di un attributo dell’oggetto considerato, inscindibile da questo, o un attributo relazionale che accompagna necessariamente la relazione in questione. A una legge umana si può contravvenire, a una legge di natura no. Queste possiamo cambiarle, quelle no. Possiamo però ‘falsificarle’ se scopriamo almeno un caso in cui non sono valide.

La parola ‘legge’ ha almeno due significati distinti.

In una repubblica ideale, abitata da esseri indefettibili, non ci sarebbe bisogno di leggi.

Se consideriamo la legge come un ‘patto sociale’ che regola i rapporti tra tutti contraenti, questa trova la sua ragion d’essere nel fatto che indefettibili non siamo e che patti possono essere disattesi. La legge ha il suo fondamento nella non osservanza della stessa. Se fosse commisurata all’uomo non avremmo bisogno di nominarla separatamente così come, dicendo “uomo”, non ne nominiamo le singole parti. Ne ricaviamo che, non essendo ‘di natura’, le leggi sono un prodotto nostro, defettibile quanto lo siamo noi e che quindi non meritano maggior ‘rispetto’ di chi vi contravviene. Non conosciamo infatti le complesse e contraddittorie ragioni che determinano i nostri comportamenti. Se il concetto di ‘leggi’ va relativizzato, tanto più questo vale per il concetto di ‘colpa’, enfatizzato dalle religioni fino a farne un carico supplementare al carico dell’esistenza, mentre sarebbe da espungere, se non altro dal quadro delle leggi. Queste penso che dovrebbero occuparsi essenzialmente dell’incidenza delle nostre azioni sul sociale e sull’ambiente anziché della sua valutazione nei termini astratti rigidi di un codice. Non credo nelle azioni e tanto meno negli individui ‘colpevoli’, credo piuttosto nell’insufficiente contestualizzazione dei fatti da parte dell’organo giudicante.

Sono ovviamente possibili molte altre letture della parola ‘legge’. Tra queste vorrei e sceglierne una, sempre non specialistica, ma più attenta della precedente alla ‘realtà’. Uomini e donne non sono indefettibili né le loro repubbliche sono platonicamente ‘ideali’. Le leggi intervengono appunto a compensare le loro debolezze. E la nozione di ‘colpa’ localizza la trasgressione evitando di spalmarla su tutta l’umanità. In questo senso non rende possibile la sopravvivenza di ‘non colpevoli’, cosa che non faceva il ‘peccato originale’, che, se non ci fosse stato chi ce ne ha liberato, continuerebbe a condannarci tutti per l’eternità – colpa effettivamente inaudita, ma di chi se non di colui che l’ha inventata?

Oggi i ‘non colpevoli’ se la cavano, ma che ne è dei ‘colpevoli’? La condanna li colpisce, anche se non per l’eternità. E a che titolo fa? In nome della giustizia. Una giustizia che non si propone l’infallibilità, ma tollera errori, tanto chi paga è comunque un altro… È la versione cinica di questa ‘lettura’, da affiancare a un’altra, socialmente più motivata.

La giustizia non mira all’autoaffermazione come garante di verità ma solo a riequilibrare, seppure con altre ingiustizie, quelle che gli uomini non possono fare a meno di compiere. E a questa compensazione la società sembra non voler rinunciare. Un tempo si chiamava ‘vendetta’; oggi la parola suona male, ma la cosa è rimasta, con una sovrincrostazione di ipocrisia che non la rende migliore. Altre giustificazioni la giustizia adduce a sua difesa e non è facile disconoscerne la validità. Così una parte almeno della condanna serve a risarcire il danneggiato del danno subito. Ma c’è da esser sicuri che il danno avvertito sia uguale al danno inflitto? Il pregiudizio matematico parifica le cifre, non il loro valore soggettivo, e questo è ciò che conta. L’invenzione del numero proprio a questo è servita: a sostituire con delle invarianti di superficie le variabili profonde dell’esperienza umana. È una palese ingiustizia, ma come rettificarla? La giustizia non può che fare appello all’inerzia dei numeri. La mobilità dell’animo umano non è affar suo, e anche la giustizia non può che ignorarla.

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