Lo stesso quadro del
postino precedente, ma dietro ogni bambino seduto intorno al grande tavolo c’è
una fila interminabile di altri bambini, e non solo bambini: anche adulti,
giovani che sembrano vecchi, i vecchi però sono morti anzi tempo, di
malnutrizione, di AIDS, di una raffica sparata da un bambino di sì e no dieci anni.
Di immagini di guerra
ne vediamo ogni giorno, nei documentari, nelle fiction, anzi non distinguiamo
nemmeno più tra un reportage e un’accurata, tecnicamente pregevole
ricostruzione, né c’importa granché distinguere. Anzi, quel bambino di cui al
postino precedente tutto sommato ci colpisce di più che non la notizia di una
nuova guerra scoppiata in qualche parte dell’Africa o dell’Asia. È sempre
l’immagine ad avere la prevalenza sul fatto. E ancora: è il caso singolo più
che non la tragedia collettiva a coinvolgerci emotivamente: in quello riusciamo
a immedesimarci, questa resta tutt’al più ‘notizia’, e le notizie scorrono su
di noi come l’acqua su di una superficie in pendenza.
È questa la sensibilità che dovrebbe salvarci dall’autoestinzione?
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