Fotografia di Juliana Trujillo
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Si parla
molto –ma si fa poco– di convivenza pacifica nella diversità. Si parla anche –ma
si fa ancora a meno– di convivenza pacifica tra noi e il nostro pianeta.
Intanto, per cominciare, a che titolo ‘nostro’? Perché siamo noi a devastarlo?
Molte altre
specie convivono con noi, ma non lo devastano.
Perché
altre specie glielo impediscono.
Noi
invece ci siamo eletti unici rappresentanti di una specie ‘superiore’, in
diritto di considerarsi proprietaria del pianeta e di chi ci vive. Sappiamo
benissimo che non è così perché ce lo ripetono a ogni passo centinaia di voci
più o meno autorevoli, che però restano per lo più inascoltate. E chi sono
queste voci?
Ogni
paese ha la sua. Interi movimenti le hanno fatte proprie: così in Francia Serge
Latouche sta da anni studiando l’impatto negativo che la specie umana produce
sull’ambiente e propone, di contro alla diffusa l’idea (ideologia?) di una
crescita illimitata della nostra specie e del suo potere, una graduale
decrescita fino a ritrovare tra noi e l’ambiente –fisico e biologico– il
perfetto equilibrio. In Italia l’analogo movimento per una ‘decrescita felice’ è
portato avanti da Maurizio Pallante e dai suoi collaboratori. Ma probabilmente
nella maggior parte dei paesi esistono oggi iniziative simili, alcune delle
quali, come Greenpeace, assai attive
anche politicamente. Questa difesa dei diritti alla vita (o della vita) è
inoltre fortemente radicata in molte religioni, soprattutto orientali ma anche
nelle credenze animiste diffuse in tutto il mondo. Molto meno convinta questa
adesione alla vita e ai suoi ‘diritti’ appare nelle grandi religioni ‘rivelate’
(giudaesimo, cristianesimo, islam), dove l’attaccamento ai valori ‘trascendenti’
rende i fedeli assai meno sensibili a quelli che direttamente ci riguardano. Per
un cristiano, un ebreo o un musulmano la natura e i viventi non umani sono
soprattutto un terreno di conquista e sfruttamento, ed è proprio questa visione
antropocentrica che, unitamente al potere acquisito in particolare dalle
popolazioni più interessate allo sviluppo tecnologico, ci ha portato al
distacco dalla comune matrice naturale, distacco cui dobbiamo oggi il pericolo
che tutti ci sovrasta, ma del quale, pervicacemente, non vogliamo sentir
parlare.
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