venerdì 30 settembre 2011

Coesistenza degli incompatibili

[208]

Anche i visitatori di questi postini avranno ormai capito che uno dei compositori da me più amati è Franz Schubert, a cui in una ipotetica gara di preferenza assegnerei addirittura il secondo posto, dopo Bach. Parlando seriamente, c’è però almeno un’opera, peraltro frequentemente eseguita, per la quale non riesco a provare la simpatia che altri le rivolgono. È la Wandererphantasie, troppo lisztiana ante litteram per essere convincentemente schubertiana. Incomprensibile per me che sia stata scritta lo stesso anno dei due tempi dell’Incompiuta! Evidentemente l’attività compositiva, almeno per un autore come Schubert, non è coerente con se stessa né unitaria, quasi vi pongano di meno più persone, neppure d’accordo tra loro. Altro motivo di ammirazione, questa coesistenza degli incompatibili! che poi, a ben guardare, incompatibili non sono. Il semplicismo pianistico della Wanderer lo ritroviamo per esempio negli accompagnamenti di molti dei suoi Lieder, dove nascondono –o meglio rivelano– una sensibilità armonico-timbrica anticipante Schumann e Chopin. La stessa sensibilità che pervade la maggior parte dei suoi Ländler, i Moments musicals (sic) e, ovviamente, anche la Wanderer, solo che io non so ritrovarcela.



giovedì 29 settembre 2011

Forse faremmo bene a studiare meglio ...


[207]

Non posso che chiedere scusa all’eventuale visitatore o lettore delle banalità che sto per proporgli, banalità non in sé, ma per le innumerevoli volte che gli sarà capitato di sentirle. Spesso infatti le ripetizioni eccessive svalutano fino all’insignificanza le cose dette. Ne dovrebbero sapere qualcosa le religioni e forse anche le culture. Qualche volta però da una ripetizione non passiva, ma criticamente riflessa può nascere un modo non convenzionale di vedere un’ovvietà.

Tutti conosciamo il paradosso di Achille e la tartaruga con cui gli Eleati e in particolare Zenone attaccarono fino a vanificare l’idea della continuità spaziale e temporale. Solo millenni più tardi la teoria dei quanti ebbe ragione dei famosi paradossi, che tuttavia si ripropongono a ogni nuova generazione. Eccoli per esempio in una veste rinnovata.

Il tempo non esiste: infatti, se esistesse, non potrebbe consistere che di passato, futuro o presente. Ma il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente ha durata nulla, e la somma di tre quantità nulle non può dare qualcosa. Analogamente lo spazio, o è fuori dal tempo –nel qual caso, essendo noi nel tempo, non possiamo conoscerlo– o è nel tempo, che lo inghiottirebbe nella sua nullità.

È piuttosto facile, disponendo di concetti come lo zero (il nulla) e l’infinito creare paradossi del tipo ‘Zenone’, come più tardi, in ambito logico, variare all’infinito il paradosso del cretese bugiardo, spingendolo fino alle estreme conseguenze illustrate da Gödel. Ma tutte queste considerazioni poggiano su presupposti che restano inanalizzati o, se lo sono, non possono che esserlo attraverso lo strumento del pensiero. E chi ci assicura che questo strumento conduce a una qualche ‘verità’? e, andando oltre, che una verità esista e sia raggiungibile dalla mente?

Tutte questioni inessenziali alla vita, come gli altri animali ci dimostrano, che vivono come noi, senza porsele. Ma credo che l’evoluzione abbia sviluppato nell’uomo questa capacità riflessiva in conseguenza di uno stimolo inessenziale alla sua sopravvivenza. Forse faremmo bene a studiare meglio le connessioni tra mente e vita anziché perderci dietro speculazioni logiche, fantasmi religiosi e speculazioni filosofiche, che difficilmente ci potranno aiutare a risolvere i problemi vitali che le nostre stesse menti spesso pospongono a quelli per cui si sono evolute.

mercoledì 28 settembre 2011

Tranquilla grandiosità - scavalcata

[206]

È stato certamente un caso che la televisione abbia trasmesso il Requiem tedesco di Brahms il giorno dopo della Missa Solemnis, ma questo caso ci ha permesso di confrontare due capolavori, l’uno ‘mancato’ come dice Adorno, l’altro, il Requiem, pienamente realizzato. Non avrebbe molto senso usare di questa occasione per stabilire una gerarchia tra i due, troppo radicalmente diverse essendo sia l’impostazione tecnica sia il retroterra ideologico dei due lavori. Da un lato la perfezione formale e la levigatezza del linguaggio brahmsiano, perfezione e levigatezza che non si riduce però mai all’ovvietà; dall’altro la prorompente, quasi astorica novità del linguaggio beethoveniano, a tratti come vittima della sua stessa temerarietà. Si osservino per esempio le tendenze arcaizzanti in ambedue, tendenze riaffioranti qua e là anche nella Nona Sinfonia e nei successivi quartetti beethoveniani, definitivamente incorporata nella grammatica armonica in Brahms. Di conseguenza spariscono in quest’ultimo le disuguaglianze, talora quasi incompatibilità che caratterizzano lo stile dell’ultimo Beethoven a favore di una maggiore coerenza e uniformità comunicativa. D’altro canto il livello evolutivo raggiunto dal linguaggio armonico nel corso del Ottocento permette al compositore di sviluppare, anche grazie al recupero, in veste moderna, del contrappunto rinascimentale e bachiano, una complessità che all’epoca di Beethoven era raggiungibile solo al prezzo di discontinuità e trasgressioni linguistiche.

Tutto questo spiega in parte l’impressione di ‘non risolto’ nella Missa Solemnis di contro all’inattaccabile compiutezza del Deutsches Requiem. Per un’altra parte la discrepanza tra i due lavori va forse attribuita al retroterra ideologico cui ho accennato. Temperie ancora post-rivoluzionaria, idealistico-umanitaria nell’un caso, acquetata e sicura ormai “all’ombra del potere” (Thomas Mann) nell’altro. In Brahms peraltro l’intimismo romantico che di quell’‘ombra’ andava in cerca sembra –forse per influenza di Beethoven– aspirare esso stesso a quel potere. Di qui la tranquilla grandiosità del Requiem a fronte di una grandezza instabile, malsicura, corrosa dai suoi stessi dubbi nella Missa. Con le sue opere estreme, compressa la Missa, il compositore più anziano scavalca il più giovane sulla via che porterà al disfacimento della lingua musicale europea e dell’ideologia della stabilità.

martedì 27 settembre 2011

Capolavoro mancato

[205]

È noto che Beethoven considerava la sua Missa Solemnis la sua opera più grande. Non aveva peraltro ancora scritto o almeno non aveva terminato la Nona Sinfonia, che gli avrebbe fatto cambiare idea. Ciononostante la sua dichiarazione è difficile da comprendere se si pensa alle sue precedenti sinfonie, alle cinque ultime sonate per pianoforte, al Fidelio e così via. La sicurezza di mano, che non l’aveva mai abbandonato fino allora, qui viene improvvisamente meno, e non solo nelle parti vocali che non gli erano congeniali, ma perfino nel trattamento della forma. Così il radicale ripensamento della fuga nelle opere 106, 109 e 110 (a prescindere quindi da ciò che succederà negli ultimi quartetti) non trova il suo corrispondente nelle faticose e retoriche fughe e fugati della Messa, come anche il nuovissimo stile contrappuntistico dei suoi ultimi anni appare qui troppo spesso oscurato da residui mal digeriti di una convenzione barocca che solo con Brahms troverà un’adeguata ricollocazione culturale.

Ciò non toglie che la partitura beethoveniana contenga passi ed interi episodi di inaudita intensità espressiva. Nonché intuizioni, più che anticipatrici, direi atemporali, senz’altro paragonabili a quelle che si incontrano a ogni passo nelle sue opere effettivamente maggiori.
Come spiegare questa singolare miopia (o presbiopia) del grande, incommensurabile compositore?

Già Adorno ebbe il coraggio di parlare, a proposito di questo opus maximum, di capolavoro mancato, dove l’aggettivo sembra contraddire il sostantivo mentre non fa che sintetizzare gli estremi di una contraddizione che è nella cosa stessa.

Per parte mia, senza entrare in competizione con lo sguardo acuto e penetrante di un Adorno e senza neppure la pretesa di interpretare in termini di psicologia da salotto uno dei maggiori nodi problematici della cultura musicale tedesca del primo Ottocento, avanzerei la seguente spiegazione: poiché, come è noto, la Missa Solemnis deve aver costituito per il suo autore uno scoglio compositivo senza precedenti, è più che comprensibile la sua riluttanza a guardarla con l’occhio di un osservatore imparziale.

venerdì 23 settembre 2011

Senza ordine apparente


[204]
So benissimo che non è più di moda porsi domande come quelle di questi ultimi postini. Infatti:
• alcuni le ritengono insensate,
• altri le considerano risolte dalle religioni, dalle filosofie o dalle scienze,
• altri pensano che siano insolubili dalle limitate capacità del nostro cervello,
• altri che siano insolubili per principio,
• altri infine sono disinteressati.

Se lo chiedeste a me –ma perché dovreste farlo?– vi risponderei:

È proprio delle mode andare o venire senza ordine apparente. Se oggi vi rispondessi in un certo modo, non sono affatto sicuro che domani farei lo stesso. Quindi, vi prego, aspettate almeno fino a dopodomani.

giovedì 22 settembre 2011

Il mondo ha una finalità?

[203]
Il mondo ha una finalità?

Domanda ingenua e ideologica a un tempo, come del resto qualsiasi domanda che pretenda un chiarimento sul senso del mondo.
Secondo molte religioni sarebbe l’uomo il fine ultimo del creato e sono ancora in molti a pensare in questo modo. Altri lo ritengono intollerabilmente presuntuoso e, ancora una volta, ingenuo e primitivo.

Uniamoci a coloro che non credono in una finalità del mondo e chiediamoci: se il mondo non ha una finalità, potremmo attribuirgliene una a piacere, senza offendere chicchesia, sempreché non cerchiamo di convincerlo. Allora anche andrebbe bene l’uomo come finalità ultima, addirittura la nostra stessa persona. Certo, sarebbe ingenuo, presuntuoso ecc. credere che le cose stiano così, ma forse non sarebbe male che ci comportassimo come se stessero così.

mercoledì 21 settembre 2011

Individuo o specie, specie o individuo?

[202]
Ieri in televisione: un bel documentario sui leoni. Domanda: la natura è interessata all'individuo o solo alla specie?

[È qui in azione il potere ‘cosificante’ della parola: ‘natura’, ‘specie’, forse anche ‘individuo’ ne sono il frutto.]

Risposta possibile: a giudicare da ciò che ci mostra la televisione, l’individuo conta poco e niente: un branco di leoni o di iene mangia tranquillamente un bufalo visivo e lo stesso fanno le larve di certe vespine con i bruchi. Anche noi, del resto, per gustare al meglio un’aragosta, la buttiamo viva nell’acqua bollente. La ‘natura’ tuttavia –si dirà– provvede anche all’individuo, dotandolo di efficaci armi difensive (per esempio le corna del bufalo) o di non meno efficaci sistemi di camuffamento. Ma questi –si obietterà– servono piuttosto alla specie che non all’individuo. Ma anche le specie nascono muoiono come gli individui, e spesso proprio per l’azione di altre specie. Forse allora la ‘natura’ è interessata unicamente al mantenimento della vita in qualunque modo essa si manifesti…

E quando la vita verrà bruciata dalla ‘supernova’ in cui si sarà trasformato il sole per poi congelarsi in ‘nana bianca’? Prima che ciò accada, la vita si sarà trasferita in un’altra galassia, e così via…

Ma perché ostinarsi a cercare una risposta?

martedì 20 settembre 2011

Cosifica, istituisce, inventa, scinde

La scuola di Atene, di Raffaello Sanzio
[201]

Un'antica domanda, una facile risposta. Chi ha creato le cose, il mondo? La parola.
La parola cosifica le esperienze, istituisce relazioni, inventa le categorie virgole insomma fatto tutto ciò che serve per costruire la ‘realtà’. Scinde Hume in Parmenide ed Eraclito.

lunedì 19 settembre 2011

De viris illustribus (e vi)

"Non c'è bisogno di appuntamento", dell'artista cristiano Stephen Sawyer
[200]
Il vir illustris cui vorrei accennare nell'ultimo postino di questa breve serie non è più frutto d'invenzione o distorsione grottesca ma prestito della realtà, per quanto attendibile possa essere una realtà 'interpretata' (ma quale realtà non lo è?).

È una storia raccontata miliardi di volte da quando si è raccontata per la prima volta nei fatti (ben pochi tuttavia tra i testimoni diretti li hanno poi raccontati). Ecco la storia, in un’interpretazione tardiva e in nessun modo garantita.

Nella Palestina nell’epoca di Tiberio un giovane giudeo concepì e mise in atto un coraggioso piano per liberare i suoi connazionali e l’umanità tutta dal gioco, non dei romani, ma di un dio crudele e corruttibile. Dato il grande prestigio di questo dio, il piano esigeva che gli si affiancasse una figura di prestigio pari se non superiore –per esempio un figlio– disposta a sostituirlo e a farsi uccidere dagli uomini, che in tal modo avrebbero distrutto in se stessi l’idea di ‘dio’ e conquistato la propria autonomia. Che fecero gli uomini?

Pur di non dover sopportare il peso di un pensiero autonomo uccisero il coraggioso giudeo, poi ne fecero un nuovo dio, più potente del primo, tradendo così per viltà il piano originario.

venerdì 16 settembre 2011

De viris illustribus (v)

[199]
Visse tardi, quando la popolazione terrestre, raggiunti ormai i nove miliardi, si era ormai divisa, due miliardi circa nell'emisfero settentrionale, il resto in quello meridionale. Le diverse condizioni economiche e di vita avevano cominciato a influire sull’aspetto fisico, oltreché su quello comportamentale, degli abitanti. In ambedue gli emisferi era evidente una tendenza ‘regressiva’: a fasi precedenti nel processo di ominazione (al livello del neanderthalensis) al sud, a una fase di rattrappimento corporeo e mentale al nord. Soprattutto qui erano frequenti i casi di adiposi cerebrale con uno sviluppo abnorme del cervello accompagnato da precocissimo rimbecillimento senile, manifestantesi talora a partire dai cinque-sei anni.
Raramente qualche individuo si sviluppava ancora secondo la ‘normalità’ dei passati millenni. Uno in particolare sembrava rispondere ancora allo standard europeo intorno al duemila. Si era messo in testa di salvare l’umanità dall’estinzione ormai prossima. Per raggiungere il suo nobile scopo intraprese approfonditi studi sulle cause della vistosa regressione in cui il genere umano era incappato dopo l’era dello ‘sviluppo infinito’, durata più di tremila anni. Individuò così tre cause principali:
• le telecomunicazioni,
• la medicina,
• la musica.
Le telecomunicazioni, soprattutto da quando le necessarie apparecchiature venivano alloggiati direttamente nella scatola cranica, avevano sostituito il pensiero individuale con la gestione a distanza e la conseguente atrofizzazione di intere parti del cervello.
La medicina assicurava una vita media di duecentocinquanta anni, di cui centosettanta in condizioni di estrema senilità, dovuta all’abuso di una pratica sonora chiamata “MUSICA”, ma che nulla aveva a che fare con l’omonima pratica culturale anteriori al duemila. Gli studi del ‘nostro’ erano ormai a buon punto e lasciavano intravedere la possibilità di immettere nell’emisfero nord consistenti quantitativi di neanderthalensis che avrebbero riequilibrato le due regressioni. Purtroppo è intervenuto a questo punto l’occulto ‘potere centrale’ affermare una ricerca che avrebbe potuto restituire agli uomini la perduta autonomia del pensiero.

giovedì 15 settembre 2011

De viris illustribus (iv)

Brueghel – Il combattimento del Carnevale e la Quaresima
[198]
Dondo (o Dando) d'Alghero (o Dalgherio), saggista e poeta sardo, naturalizzato toscano, vissuto a Firenze tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento. Non lasciò mai la città di adozione, salvo brevi periodi di vacanza. A nove anni –presto, quindi, anche per quei tempi– sposò una tal Bice, figlia del popolo, cui rimase fedele e devoto per tutta la vita. Ciò non gli impedì tuttavia di avere, con lei e con alcune sue amiche, cento figli, a ciascuno dei quali intitolò una canzone (era infatti anche musicista).
La sua opera, vastissima, è giunta a noi solo in copie dei suoi contemporanei o posteri immediati. Ricordiamo, oltre all’opus maximum di cui tra breve,
• un trattato sul turpiloquio toscano,
• una raccolta di Canti conviviali,
• un elenco di buoni propositi per una vita migliore,
• il Canzoniere della domenica ad uso delle coppiette.
Su queste e altre opere di contorno domina però il suddetto opus maximum, cioè la Commedia del vino, che lo occupò senza interruzioni fino alla morte. Non si tratta, nonostante il nome, di un lavoro teatrale, ma di poema epico-didascalico costituito dalle cento canzoni cui ho già accennato. Queste sono così distinte e raggruppate:
• trenta tre di argomento minerario raccolte nelle miniere dell’isola d’Elba dalla viva voce dei minatori,
• trenta tre ‘canti di montagna’ raccolti parte sulle Dolomiti, parte in Piemonte,
• trenta tre di argomento decisamente licenzioso, presumibilmente raccolte nelle bettole fiorentine,
• una canzone introduttiva che sembra non sia originale, dal titolo “Volare”.
Tutte queste canzoni erano assai diffuse e venivano cantate a ogni angolo di strada, tanto che le autorità di Firenze e di molte altre città tentarono, senza risultato, di vietarle per non bloccare il mercato delle novità. Tale era la popolarità di Dondo d’Alghero.
La tradizione pittorica ce lo raffigura piuttosto magro, dal profilo aquilino. Un’altra tradizione –letteraria– lo vuole basso, grassottello, col naso grosso, perennemente arrossato.
[Dedico questo postino all’amico e illustre italianista Nino Borsellino.]

mercoledì 14 settembre 2011

Ci sappiano scusare il silenzio i lettori...



... ma eravamo rimasti a bocca aperta a guardare gli allenamenti di una futura stella della politica ... o sarà della finanza?

domenica 11 settembre 2011

De viris illustribus (iii)

Un ritratto, lontanamente ispirato a Jean Auguste Dominique Ingres, di Hardy Ecke
[197]
Non si conosce con esattezza la sua data di nascita. Anzi non la si conosce neppure approssimativamente. C’è chi dice che sia nato addirittura prima del mille; in quel caso sarebbe stato un veggente o un profeta, trovandosi tra i suoi scritti (che ci sarebbero pervenuti solo in copia tardiva) una descrizione esatta di un motore a scoppio. Altri invece sostengono che sia un autore di fantascienza del secolo scorso.

A lui si vorrebbero ricondurre anche alcune opere finora ascritte ad autori vari, anche distanti nel tempo, come un Orlando abbandonato, presumibilmente del Quattrocento, o un Simplicius non simplex del tardo seicento danese.

Non sembra sia mai morto. Un suo ritratto, erroneamente attribuito a Ingres, si trovava nella pinacoteca di Dresda.

sabato 10 settembre 2011

De viris illustribus (ii)

[196]
Era morto il 31 dicembre 1999 a mezzanotte, pèrfettamente sconosciuto pur avendo scritto più di trecento libri, alcuni dei quali divisi in più tomi. Si scoperse poi che aveva esercitato per molti anni anche un’intensa attività pittorica, che solo di recente comincia ad essere conosciuta e valutata come probabilmente merita. Risulta essere anche il compositore di alcune centinaia di composizioni musicali inedite e mai eseguite… Tra le carte trovate alla sua morte c’è un testamento, il cui testo, per la sua singolarità, ha fatto immediatamente il giro del mondo:
“Sconosciuto a tutti e anche a me stesso, ho riassunto nella mia opera duemila anni di storia e cultura universale. Fatene ciò che vi pare. Anche se decidete di distruggerla, non mi offenderò. Non intendo inoltrarmi di un minuto nel nuovo millennio”.

Morì come si è detto, ma non fu suicidio.

venerdì 9 settembre 2011

De viris illustribus

[195]

Figlio di madre mongola (nativa dei dintorni di Ulan Bator) e di padre basco (Donostia), i genitori si erano conosciuti nell’ambasciata francese di Oslo, dove erano entrambi addetti alle cucine. Non avevano mai sentito il bisogno di comunicare tra loro a parole, essendo sufficiente la comunicazione sessuale, cui erano dediti con entusiasmo. Così il piccolo crebbe non parlante, non sapendosi decidere per nessuna delle lingue con cui conviveva. La lingua che preferiva, pur non convivendoci, era una variante fonetica del mandarino antico, variante nella quale concepì e scrisse il ben noto capolavoro che gli valse sia il Nobel che il Pulitzer nel 2032.

giovedì 8 settembre 2011

Collegare la sopravvivenza alla cultura


[194]

Ho appena (postino precedente) avanzato la temeraria ipotesi che IMC nasca ‘spontaneamente’ in ogni cervello.
Ciò può voler dire:
  • o che IMC è un prodotto necessario dell’evoluzione biologica, cioè qualcosa di indipendente dalla nostra volontà,
  • o che IMC è un prodotto culturale, localizzato in uno o più UCL, ma non biologicamente necessario.
È tuttavia possibile anche una via intermedia:
  • IMC non è biologicamente necessario, quindi culturalmente dipendente, solo che da lei dipende la nostra sopravvivenza.
In un certo senso questa terza via collega la sopravvivenza alla cultura rendendoci, attraverso quest’ultima, responsabili di una condizione esistenziale: la vita.
Non so quale di queste vie sia quella effettivamente percorsa dall’evoluzione né penso che sia importante stabilirlo. La situazione è quella che è e, se esistono chances di sopravvivenza, non ci resta che cercarle.
Ma che vuol dire che delle chances esistono?
Esistono o dobbiamo fabbricarcele?

mercoledì 7 settembre 2011

Come se da IMC dipendessero le sorti del mondo

[193]
Spesso mi sento rimproverare la pretesa di avere in tasca la verità, la parola risolutiva per qualsiasi problema, di assumere quindi atteggiamenti di superiorità spesso fastidiosi. Siccome sono in molti a muovermi questo rimprovero, ci deve essere qualcosa in me che lo giustifichi. Ricordo infatti, una ventina di anni fa, la mia insistenza nel proporre e difendere IMC come se da essa dipendessero le sorti del mondo. La cosa buffa è che lo credo ancora, ma non vedo come da questo potrei ricavare una qualche superiorità. IMC esclude ogni affermazione di verità, quindi anche di essere ‘vera’ essa stessa, ma non contesta a nessuno il diritto di non aderire all’ipotesi e di avere una sua verità. Non credo di conseguenza che sia IMC all’origine di questi rimproveri. Deve perciò trattarsi del mio al servirmi dell’ipotesi. La mia iniziale insistenza era dovuta probabilmente al fatto che anch’io, come chiunque ho dovuto cominciare a capirla –e questo è accaduto un po’ alla volta durante gli anni Novanta– fino a costatare l’inutilità della sua enunciazione e tanto più della sua difesa, se non nascerà autonomamente in ogni cervello.

martedì 6 settembre 2011

I termini son capovolti

[192]
Ma non sto svalutando eccessivamente un’ipotesi formulata essenzialmente per salvaguardare la pace? Forse la pace avrebbe bisogno di un difensore più determinato di IMC.

Credo che se la pace avesse bisogno, per istaurarsi, di un difensore, tanto varrebbe lasciar perdere. I confini tra ‘offesa’ e ‘difesa’ non solo sono evanescenti fino all’indistinguibilità, ma adombrati dal sospetto di ipocrisia. IMC ha dalla sua l’estrema debolezza che ne fa il punto più basso del ‘pensiero debole’. Siamo agli antipodi del tradizionale “Si vis pacem, para bellum”. L’avvento dell’energia nucleare ha capovolto i termini; non più la forza, il ‘più dell’altro’ accresce le possibilità di sopravvivenza, ma ‘il meno dell’altro’, la relativa debolezza. Questo, s’intende, se la debolezza viene riconosciuta nella sua forza che è anzitutto mentale.
In questo senso IMC, in quanto ipotesi essenzialmente critica delle culture, di ogni cultura, è un forte stimolo allo sviluppo della mente e, come tale, dovrebbe entrare a far parte dei normali percorsi educativi. Ovviamente non nelle sue formulazioni teoriche –che potranno essere discusse in un secondo momento–, ma nelle molteplici applicazioni pratiche, di cui il lettore troverà più di qualche traccia nei volumi delle Indagini metaculturali.

lunedì 5 settembre 2011

IMC non è che un’ipotesi


Un'interessante ipotesi dello scultore francese Eduard Martinet

[191]
Il vaglio dei prossimi decenni direi che è indispensabile per IMC come per tutte le teorie che ne tengono conto. Non essendo IMC un’ipotesi scientifica invalidabile e tanto meno l’espressione di un pensiero assoluto, l’unica possibile convalida come anche l’unica invalidazione dipendono dalla cultura, cioè dagli UCL.

Siamo incappati in un’aperta contraddizione. Ma come: l’ipotesi che dovrebbe traghettarci fuori dagli assoluti ideologici ha essa stessa bisogno di una convalida culturale che le dia uno statuto di assolutezza? Un’assolutezza che nient’altro potrebbe darle, ma di cui ha evidentemente bisogno, se non altro per essere competitiva in un mondo che sembra reggersi sulla competizione?

Finché restiamo all’interno di IMC la contraddizione non dovrebbe preoccuparci secondo quanto detto infinite volte. IMC ha tuttavia la pretesa di essere riconosciuta –come ‘ipotesi’– anche negli UCL, se non in tutti, almeno in qualcuno. La scappatoia che basterebbe costruire un UCL che sospenda il principio di non contraddizione non serve, perché –per DEFINIZIONE 2– esso coinciderebbe così con IMC, creando così una tautologia. L’unica via di uscita sta nel fatto che IMC non è che un’ipotesi, e si può aderire oppure no, che in ogni caso non può essere dimostrata e con cui non val la pena entrare in conflitto.

giovedì 1 settembre 2011

Teoria metaculturale dei modelli


[190]
Esiste certamente una ‘teoria dei modelli’ che però, data la mia pessima abitudine di leggere poco o niente, soprattutto su ciò di cui avrei bisogno, non conosco ovvero ho dimenticato. Nei precedenti quattro postini ho cercato di mostrare come avrei proceduto qualora mi fossi imbarcato in un’impresa del genere. A grandi linee: avrei cominciato a raccogliere e analizzare esempi dal vivo, sia rovistando tra le esperienze del Centro, sia rifacendomi a documenti di altre provenienze, quindi sarei passato ai primi tentativi di trarre da questo materiale delle linee-guida per un primo abbozzo di teoria, da confrontare con eventuali teorie già esistenti. Dopo alcuni anni di rifacimenti, correzioni, relativizzazioni sarei così giunto a una prima formulazione, sempre e comunque ‘aperta’, mai definitiva. Come si vede, anche in questo caso mi sono servito di un modello, analogo a quello sperimentato per Musica prima e non certo originale. Purtroppo non ho più il tempo né la lucidità mentale per realizzare un progetto del genere che non dovrebbe limitarsi alla sola esperienza musicale ma ricoprire un’area equivalente a quella ricoperta da IMC. Anzi, vedrei una Teoria metaculturale dei modelli come prosecuzione o appendice di IMC. Naturalmente l’impresa varrà la pena solo se IMC passerà il vaglio dei prossimi decenni.