martedì 27 settembre 2011

Capolavoro mancato

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È noto che Beethoven considerava la sua Missa Solemnis la sua opera più grande. Non aveva peraltro ancora scritto o almeno non aveva terminato la Nona Sinfonia, che gli avrebbe fatto cambiare idea. Ciononostante la sua dichiarazione è difficile da comprendere se si pensa alle sue precedenti sinfonie, alle cinque ultime sonate per pianoforte, al Fidelio e così via. La sicurezza di mano, che non l’aveva mai abbandonato fino allora, qui viene improvvisamente meno, e non solo nelle parti vocali che non gli erano congeniali, ma perfino nel trattamento della forma. Così il radicale ripensamento della fuga nelle opere 106, 109 e 110 (a prescindere quindi da ciò che succederà negli ultimi quartetti) non trova il suo corrispondente nelle faticose e retoriche fughe e fugati della Messa, come anche il nuovissimo stile contrappuntistico dei suoi ultimi anni appare qui troppo spesso oscurato da residui mal digeriti di una convenzione barocca che solo con Brahms troverà un’adeguata ricollocazione culturale.

Ciò non toglie che la partitura beethoveniana contenga passi ed interi episodi di inaudita intensità espressiva. Nonché intuizioni, più che anticipatrici, direi atemporali, senz’altro paragonabili a quelle che si incontrano a ogni passo nelle sue opere effettivamente maggiori.
Come spiegare questa singolare miopia (o presbiopia) del grande, incommensurabile compositore?

Già Adorno ebbe il coraggio di parlare, a proposito di questo opus maximum, di capolavoro mancato, dove l’aggettivo sembra contraddire il sostantivo mentre non fa che sintetizzare gli estremi di una contraddizione che è nella cosa stessa.

Per parte mia, senza entrare in competizione con lo sguardo acuto e penetrante di un Adorno e senza neppure la pretesa di interpretare in termini di psicologia da salotto uno dei maggiori nodi problematici della cultura musicale tedesca del primo Ottocento, avanzerei la seguente spiegazione: poiché, come è noto, la Missa Solemnis deve aver costituito per il suo autore uno scoglio compositivo senza precedenti, è più che comprensibile la sua riluttanza a guardarla con l’occhio di un osservatore imparziale.

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