venerdì 3 settembre 2010

NO alla guerra

La città di Dresda, fotografata da Richard Peter dalla torre del Comune. In primo piano, l'allegoria della Bontà.

Perché ‘no alla guerra’ quando da che mondo è mondo gli uomini si può dire che non hanno fatto altro che intramezzare le guerre con l’accumulo di ragioni per farne delle altre. Se è vero che le guerre hanno seminato morte e distruzione, è anche vero che hanno prodotto ingenti guadagni e progresso civile e tecnico. E nessuno, pur dichiarandolo ai quattro venti, ha mai pensato seriamente di proscrivere la guerra. Se non altro a titolo difensivo tutti i popoli l’hanno sempre ammessa e non è mai convenuto a nessuno distinguere chiaramente tra difesa e offesa. Cito spesso il testo di un madrigale di incerta origine:

Distingui offesa da difesa.

Se questa offende, è pur legittima,

perché così la vuol chi si difende.

Abbiamo esempi recentissimi di guerre ‘difensive’ del tutto indistinguibili da quelle ‘offensive’. Neppure Hiroshima e Nagasaki sono stati un deterrente bastevole a farci rinunciare alla soluzione bellica dei conflitti. Eppure dovremmo rinunciarvi, se vogliamo sopravvivere. E non starò qui a ripetere il perché.

I diciannove del "no"

Eva Hesse, Repetition Nineteen III, 1968, fibra di vetro e poliester

Questo titolo così ... cinematografico ... annuncia una serie di postini, appunto diciannove, che Boris ha preparato recentemente e che presenteremo in successione a partire da oggi.

Il potere del "no" espresso con decisione è ben conosciuto - esprime rivendicazioni, concentra energie ... Ad esempio, in alcuni seminari di difesa personale si insegna, davanti ad una possibile aggressione, a confrontarsi con l'attaccante e urlare "no" con decisione, accompagnando l'urlo con gestualità molto decisa.

Ma lascio che sia Boris a presentarvi la serie ... e a cominciare da oggi pubblicheremo questi diciannove interventi.

Premessa

Dò qui inizio a una serie di postini che trattano brevemente di tutto ciò che vorrei non ci fosse nel mondo e che invece non solo c’è, ma viene spesso esibito con soddisfazione. Dico subito che questi postini sono fortemente connotati ideologicamente e che per questo non dovrebbero comparire in una raccolta a sua volta inserita in un insieme di scritti di impostazione metaculturale. A parziale scusante dirò subito che, oltre a non pretendere (come è ovvio) a nessuna verità, i postini sono fortemente soggettivi e quasi sollecitano il dissenso, purché motivato, come del resto questi stessi tenteranno di darsi una motivazione. Il numero diciannove non ha altra ragione che quella di rispondere al numero di righe disponibili sulle pagine del quaderno su cui sono stati scritti. È quindi possibile –anzi me lo auguro- arricchire la serie di tutti quei postini che i riceventi vorranno inviarci.

mercoledì 1 settembre 2010

Identità e ... identitarismo


Boris insiste regolarmente affinché io scriva. Oggi mi permetto di presentarvi qualche idea –evidentemente molto ispirata al suo pensiero, persino alle sue espressioni– che si è consolidata al seguito dei recenti dibattiti in Germania (caso Sarrazin) e in Francia (espulsioni del governo Sarkozy). Ho avuto l’occasione di esporle nella pagina web di Federico Mayor Zaragoza, ex-presidente dell’Unesco e attuale presidente della Fundación Cultura de Paz, convergente assai con il messaggio ormai pluridecennale di Boris e del Centro Metaculturale.

N.B. Stile di pensiero, relazione d'aiuto e composizione delle differenze sono termini che acquistano un senso specifico nelle opere di Boris Porena, dove sono stati sviluppati dettagliatamente. Anche la citazione d'Orazio è stata utilizzata in diverse occasioni in queste opere. 'Prendere consapevolezza per agire, agire per prendere consapevolezza' rispecchia trasparentemente il poreniano analizzare per comporre, comporre per analizzare.

Quando due culture entrano in contatto reciproco, si influiscono a vicenda (Grecia capta Romam cepit, osservò non del tutto senza sagacia un ‘conquistatore conquistato’ più di venti secoli fa). Gli arrivati e/o conquistati (oggigiorno, la conquista per eccellenza è la mescola di sfruttamento economico ed emarginazione sociale) si dibattono tra due pulsioni contrastanti. Da un lato, pulsione verso l’integrazione (bisogna dire l’ovvio – se non ne esistesse almeno in ragionevole misura, non sarebbero venuti). Da un altro, pulsione verso l’identità.

Risulta spiegabile che le nostre società si concentrino sulla parte problematica, che è chiaramente la seconda. Davanti ad essa, ci sono alcuni anni che stiamo provando con una combinazione di paternalismi di facciata e, sotto la loro copertura, delle bastonate dell’accidente). Ma è chiaro che questo cocktail non funziona e spazia – non aiuta l’integrazione, non riduce le diseguaglianze. E davanti alle bastonate l’identità semmai si rinforza – proviamo a chiederlo ai guerriglieri di tutte le epoche.

Con ciò, il senso di identità si sclerotizza e comincia a diventare identitarismo. (Costruisco questa parolaccia con la desinenza –ismo perché denota un’ideologia, che pretende di avere valore assoluto). Questo fenomeno non avviene soltanto nei margini radicali del gruppo bastonato; l’identitarismo salta, come vero virus ideologico, i tenui confini tra culture, e modifica il ‘DNA culturale’ del gruppo dominante. Genera uno stile di pensiero che, senza prendere consapevolezza di questa retroalimentazione negativa, si lancia a proporre politiche identitariste (talvolta tesi, come quelle di Sarrazin in Germania, talvolta azioni, come le espulsioni attuate dal governo Sarkozy).

Leggere di più ... Cosa propone concettualmente questo identitarismo dominante? Al mio parere, sono tre le sue linee d’azione. Primo, diffonde dati sprovvisti di contesto e strutturati secondo stereotipi (‘i musulmani costano di più al nostro sistema di protezione sociale’, ‘gli zingari rubano’ e così via). Secondo, rifiuta i paternalismi dell’odierno apparato sociale. Terzo, non solo non denuncia le corrispondenti bastonate ad hoc ma persino chiede che si rinforzino.

Come combattere questo virus? Non penso che valgano repressioni né tanto meno censure politicamente corrette. Neanche vale rincarare la dose di politiche di dimostrata inefficacia. Forse valga la pena, invece, adoperare uno stile di pensiero lucido, relativizzante, orientato alla realtà, che scommetta decisamente per la pace.

Davanti alla prima proposta identitarista, bisogna fornire informazioni e situare nel contesto appropriato i dati divulgati. Mi si permetta un esempio sarcastico: senza contesto, potremmo anche affermare che i residenti di Buchenwald ne uscivano scheletrici (i sopravvissuti, si intenda bene) e che probabilmente questi anoressici privi della più elementare gratitudine erano afflitti da un gene che gli impediva di metabolizzare il salutare brodo di pietre che ivi gli veniva generosamente offerto, assieme a un’ampia gamma di attività fisiche all’altezza della miglior palestra. Senza contesto, potremmo anche affermare che gli immigrati fanno affondare il nostro sistema sociale, oppure che gli zingari rubano. Siamo liberi di farlo, ma non solo descriveremmo in modo storpiato la realtà, ma anche danneggeremmo le nostre speranze di pace.

La seconda proposta dell’identitarismo merita applauso parziale, anche venendo da dove viene. Il paternalismo non ha nulla a che vedere con l’aiuto all’integrazione, come non ha nulla a che vedere con l’educazione. Il paternalismo finge la pace presente ma non fa nulla per prevenire la guerra futura. Ma non basta con denunciare il paternalismo: bisogna progettare ed eseguire un’azione di aiuto non paternalista che rispetti la dignità di quello che riceve l’aiuto e di quello che lo porge. L’obiettivo della relazione d’aiuto sarà la composizione armonica delle differenze, che sono relative; non può essere pretestuale, misericordia di uno ‘che vale di più’, che spinge qualche tozzo di pane secco nella mano di un altro che ‘vale di meno’ per tranquillizzare la propria coscienza, evitare sommosse … e giustificare le bastonate che continua ad amministrare in parallelo.

La terza proposta deve essere denunciata. Non serve rinforzare la pioggia di bastonate sui già bastonati. Serve invece rinforzare il principio di legalità, senza eccettuarne nessuno –so che in italiano suona sovversivo–. Questa legalità deve consolidarsi nell’ambito dello Stato, per tutti coloro che vi abitano. Successivamente, deve emanarsi e propagarsi verso la comunità degli Stati, come legalità internazionale. Solo attraverso la legalità diventa possibile una pace vera e duratura.

Prendere consapevolezza per agire, agire per prendere consapevolezza. Appunto perché non consideriamo positivo il senso assoluto dell’identità –in modo fondato, poiché è pericoloso per la pace– non possiamo combatterlo con un identitarismo di senso contrario, ugualmente assolutista.

L’affermazione assoluta dell’identità, assieme alle disuguaglianze economiche e sociali, e al disastro ambientale, sono le tre grandi minacce per la pace. Oggi, le minacce per la pace hanno implicazioni senza precedenti nella storia dell’umanità. Sono diventate minacce per la specie, se non per l’intero pianeta, dovuto alla straordinaria densità che abbiamo raggiunto, e ai mezzi tecnologici disponibili per fare la guerra – purtroppo le bastonate, che già in ambito sociale sono più che metaforiche, in ambito planetario rischiano di diventare ‘megatonate’, letteralmente, se la discordia ci scappa di mano, a furia di avvivare il fuoco degli identitarismi.

Prendere consapevolezza è un processo a 360°. Le identità che vengono affermate come assolute non si trovano soltanto ‘fuori’ dalle nostre società, incarnate in individui di pelle oscura, vestiti diversi, abitudine strane. Esistono altre identità assolute che si affermano in modo altrettanto insidioso dentro alla nostra cultura, come sono i nazionalismi, i gruppi di potere religioso, politico, ideologico, economico, … chi più ne abbia più ne metta.

Dobbiamo prendere consapevolezza della minaccia molteplice. Se non interveniamo urgentemente e decisamente per relativizzare le identità, tutte le identità; per ridurre le disuguaglianze; per proteggere l’ambiente che è casa di tutti … si annunciano tempi brutti, molto brutti. Per tutte le identità e per i loro portatori.

sabato 28 agosto 2010

Storia dell’artigiano corretto e del mobiliere che non lo è


(Sedia prodotta dallo studio giapponese di design Nendo)

(La storia è solo parzialmente inventata)

Un tale, convinto assertore dell’artigianato di contro all’industria dei consumi, si trasferisce dalla grande città, di cui è stufo, in un piccolo paese in cui gli si adopera a ridar vita al locale artigianato del mobile, ormai quasi estinto. Per far questo, rifiuta però il passivo ossequio a una tradizione non più sentita da nessuno e vuol ricominciare da capo. Adotta quindi un corretto itinerario metodologico, che dallo studio del legname (struttura delle fibre, durezza, stagionatura ecc.) attraverso la progressiva acquisizione dei vari modi di lavorazione e un’ampia, fondata ricerca di nuove tecniche, porta lui e il gruppo dei suoi collaboratori –per lo più giovani del luogo, in cerca di una qualificazione professionale– alla progettazione ed esecuzione della prima sedia, artigianalmente pregevole, ma un po’ cara.

Intanto nel paese vicino un altro tale ha aperto una piccola fabbrica di mobili in serie. Ha assunto da fuori il personale specializzato, acquista legname all’ingrosso e a basso prezzo senza curarsi troppo della qualità, non cerca né sperimenta ma ricalca i modelli di mercato, e il giorno in cui l’artigiano espone la sua sedia, apre una ‘mostra del mobile’. Da quel giorno nella zona non si parla più di artigianato.

(da Musica prima)



venerdì 27 agosto 2010

Unsere Stimmen haben gesungen [CBP-IIa:5]


Qualche dato su questa Cantata per coro e orchestra del 1999 (codice CBP-IIA:5 del catalogo Conti, titolo italiano "Le nostre voci hanno cantato"), il cui facsimile è stato curato da Edizioni Van der Mispel.

Composizione del coro: dodici cantanti (tre soprano, tre contralto, tre tenori e tre bassi, inclusi i solisti)

Composizione dell'orchestra (che in caso di necessità si può ridurre):

  • fiati: flauto, oboe, corno inglese (in Fa), e fagotto
  • archi: tre violini I, tre violini II, tre viole, due violoncelli, un contrabbasso
  • organo come accompagnamento (o eventualmente una tastiera elettronica)

Secondo Boris Porena, la cantata si allinea in modo visibile –non solo nella scelta dell’organico– con il modello bachiano, specialmente con le prime opere del periodo nel quale Bach ha occupato l’incarico di organista a Mühlhausen (1707-1708) (come, ad esempio, Gott ist mein König, BWV 71).


Leggere di più ...Il manoscritto comprende 96 pagine in tre quaderni, di cui la partitura ne occupa 92. Venne concluso il giovedì 4 Febbraio 1999.

Quanto al testo tedesco, è originale di Boris Porena stesso. Composto nell’estate del 1990 a Ratingen, comprende 48 versi distribuiti in nove strofe. Il seguente schema mostra come lo sviluppa la cantata.

martedì 24 agosto 2010

Un'ascensione sognata


I 6.189 facili metri dell'Imja Tse (Picco dell'Isola) nel Nepal

Non era la più alta delle cime ed era stata scalata molte volte, anche da dilettanti della montagna. Ma per lui era sempre stata un traguardo irraggiungibile a causa delle sue non ottimali condizioni fisiche. Finché un giorno – aveva fatto lunghe cure per irrobustire il corpo, correggere certe intemperanze del cuore, alleggerire la respirazione … finché un giorno, il giorno, a lungo sognato e preparato, arrivò. Alcuni amici che già erano stati in vetta, si dichiararono disposti a salire con lui; lui però voleva sentirsi solo in quella che considerava l’impresa della sua vita. Rifiutò ogni compagnia, anche la più cara e s’incamminò.

Leggere di più ...
Pur non essendo la più alta del gruppo, la cima che aveva scelto si avvicinava comunque ai seimila metri, una bella altezza per chi non aveva mai superato i tre mila. Grosse difficoltà alpinistiche non ne presentava, se si prescinde dalla durata dell’ascensione –circa quindici ore dal campo base– e dal lungo tratto da percorrere sulla lingua del ghiacciaio sottostante la vetta. Il freddo e il ghiaccio non lo impensierivano, anche perché era ben equipaggiato secondo il più moderno standard alpinistico. Ramponi, piccozza, corda, chiodi, moschettoni … e poi la via era attrezzata, nei tratti più scabrosi non c’era che da agganciarsi al materiale già predisposto … Tuttavia non era quel che si dice una passeggiata. Una certa ansia, se non proprio timore, lo accompagnò per le prime ore, ma poi, man mano che si accorgeva che, tutto sommato, il lungo periodo di preparazione stava dando i suoi frutti, all’ansia subentrò una crescente sensazione di fiducia, fiducia in sé stesso, nel suo fisico, ma soprattutto nella montagna che sentiva amica, incapace di tradirlo. Le ore passavano a un passo, come il suo, sempre più lento. Non duravano più un’ora ciascuna ma due o tre. La stanchezza nelle gambe e il respiro sempre più corto lo costringevano a una pausa ogni mezz’ora. Ma per l’orologio non erano più di dieci minuti. Ritornò, più grave, l’ansia dell’inizio, ma la vista del cielo oltre la cima –un azzurro cupo, quasi nero– lo attraeva con più forza di quanto la debolezza lo trattenesse.

Ancora un’ora –o erano tre?– e ce l’avrebbe fatta. A pochi metri … sembrava … uno scoramento … poi … un’ultima stretta di denti … e il sogno di molti anni divenuto realtà.

“Niente di tanto drammatico –pensò– forse avrei potuto sognare anche di più. Certo, quasi sei mila, un migliaio di più del Monte Bianco, ma tre meno del Everest … Ora comunque si tratta di scendere. Niente di che, non più di quattro o cinque ore. Arriverò al campo base prima di notte. Posso concedermi anche il lusso di uno spuntino e di un breve riposo …”

Pochi istanti dopo ecco il nostro sognatore sulla via del ritorno. Era la stessa dell’andata e gli sembrava di riconoscere ogni passo percorso. Fatica non ne provava più, anzi lo pervadeva un senso di leggerezza come quando effettivamente si sogna di scivolare aleggiando lungo un pendio. Il campo base non era ancora in vista, ma lo sarebbe stato tra poco. Non aveva gli sci ai piedi, eppure non aveva bisogno di muoverli, scorrevano sul ghiaccio senza il suo aiuto. Eppure … che strano, il ghiacciaio non gli era sembrato così lungo … Il fondo valle, il campo base man mano scomparvero dalla sua mente e la lingua ghiacciata divenne tutto il suo mondo.

Ritrovarono il corpo, alcune settimane dopo, a pochi metri dalla vetta.


Boris Porena, 2008

sabato 21 agosto 2010

Un ricordo di Erich Vio




Oggi pubblichiamo una poesia di Erich Vio (Fiume, 1910 – Andorra, 1999). Questo mio amico, chirurgo di carriera internazionale, ha lasciato un'opera poetica trilingue (aggiungendo alla sua lingua madre -il tedesco- l’italiano e l’inglese) assai interessante e inconsueta. Adattandosi alle costrizioni della forma classica, e della rima consonante, tratta con rigore e chiarezza argomenti scientifici e contemporanei. Opera poco conosciuta, penso.

La nostra cultura odierna, da una parte estremamente mercantilizzata ed orientata al 'successo' (commerciale, di vendite), dall'altra parte satura di una densità di produzione senza precedenti, sembra priva di strumenti per trattare i 'minori' di un determinato ambito culturale. Il ché è un peccato, visto che i 'minori' risultano sicuramente cruciali per capire un’epoca. La stessa qualifica di ‘minore’ è di solito soggettiva - Wagner, per farne un esempio, considerava a Schumann e Schubert musicisti minori quasi completamente privi di interesse. Personalmente, trascurerei volentieri qualche lembo della produzione dei 'maggiori' per fare spazio a questi 'minori'.

Ecco la poesia che ho scelto -dalla raccolta Fragen ohne Antwort, Domande senza risposta, 1992- nel suo originale tedesco, seguita -dopo il salto- dalla mia traduzione spontanea




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IL MISTERO DEI QUANTI

Che una particella possa trovarsi contemporaneamente in più luoghi è pressoché incomprensibile, ma che questa particella sia disposta a legarsi a un preciso punto dello spazio quando la si misura, per molti suona come una favola, eppure i fisici ci credono. È qualcosa di inimmaginabile, come un buco nero, singolarità tagliata fuori, dove le leggi della fisica non valgono più. Che un universo esista e io possa mettergliene accanto degli altri, dove la stessa particella potrebbe trovarsi (perché ci sono infiniti universi) … questo sembra così incredibile nel gioco delle diverse ipotesi cosmologiche che mi trovo costretto a dubitarne. Eppure non è un’insensatezza. I calcoli matematici hanno spinto grandi intelligenze nel fiume dell'incredibile. Abbiamo il diritto di dubitarne perché quest'ipotesi scuote le fondamenta del razionale? Dovremmo disperare della nostra mente, o fermarci stupefatti davanti al profondo mistero che l'uomo si pone come compito, quando l'oscuro rimescolio delle forze creatrici gli parla dall’estrema vicinanza come dagli spazi più lontani?

Ci sia permesso includere una parziale bibliografia delle opere di Erich Vio,

Afrikanische Gedichte, Lempp Verlag, Schwäbisch Gmünd, 1975
Irrwege der Freiheit (prosa), Ellenberg Verlag, Köln 1978 (traduzione in croato, Stranputice slobode, Hrvatski liječnički zbor, Rijeka 1997)
Die gesenkte Fackel,Ellenberg Verlag, Köln 1978
O leben – du tolles Spiel, Stoedtner Verlag, Berlin 1979
Reisebilder in Gedichten, Der Karlsruher Bote, Karlsruhe 1982
Airy Nothing, Downlander Publishing, Eastbourne 1982
Clarin Call, Downlander Publishing, Eastbourne 1983
Contribution to «Four selected Poets», Downlander Publishing, Eastbourne 1984
Far Apart, Downlander Publishing, Eastbourne 1984
The Great Divide, Downlander Publishing, Eastbourne 1985
Ein Zusammenausklang, Boesche Verlag, Berlin 1985
Einst, dereinst und jetzt, Verlag Graphikum, Göttingen 1989
Sterne, Atome und Seelen – Eine Trilogie, Verlag Graphikum, Göttingen 1991
Traum und Erlebnis, Verlag Graphikum, Göttingen 1991
Fragen ohne Antwort – Stimmungen zu Natur und Kunst, Verlag Graphikum, Göttingen 1992
Abschied, aktuell Verlag für Literatur der Gegenwart, Weinstadt 1993
Das Schauspiel – Eine Trilogie,aktuell Verlag für Literatur der Gegenwart, Weinstadt 1994
Inseln im Strom, Verlag Graphikum, Göttingen 1994
Gedanken die fragen und gehen – Gedichte, die lauschen und sehen, aktuell Verlag für Literatur der Gegenwart, Weinstadt 1995
Mein Ich im Du des Alls, aktuell Verlag für Literatur der Gegenwart, Weinstadt 1996
Dreisprachig/Trilingual/Trilingue, Lesedition „ad acta“, Wien 1996

mercoledì 18 agosto 2010

Perchè IMC? (terza parte)


La sopravvivenza, intesa come controllo dell'aggressione, disponibilità al dialogo con UCL differenti dal nostro e la conseguente integrazione del diverso, è l'ultima finalità del nostro contributo pedagogico. Gli sforzi individuali e sociali finora compiuti in questa direzione non garantiscono per nulla la nostra sopravvivenza. Ne deduciamo che il problema sottostante è di natura complessa e in ogni caso non risolvibile con una "ricetta" (vale a dire una maniera di intervento) ben specifica.
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Senz'altro ci vorrebbe tutta una classe di interventi. Ora, una classe di interventi si costruisce se c'è un comune orizzonte metodologico. In effetti, IMC ci ha portato a ricercare un comportamento culturale di base.
Si tratta dunque della gestione del culturalmente diverso, che sinora suscita troppo spesso l'aggressione, attraverso l'analisi dell'incontro tra più persone, partecipi di UCL diversi, che si trovano, per un motivo o per l'altro, a fare, forse a vivere, insieme. In che modo torna utile un orientamento metodologico come quello suggerito da IMC? Secondo le nostre esperienza, una situazione del genere, potrebbe giovarsi di un modello interattivo che abbiamo chiamato circuito autogenerativo, modello in cui vige un progetto di individuazione delle alternative che a sua volta innesca delle modulazioni culturali, giungendo - nel caso ideale - alla composizione di un UCL accettabile da tutti i partecipanti. Lo strumento fondamentale che permette di raggiungere questo scopo l'abbiamo chiamato catabasi metaculturale, i cui presupposti risiedono nella trasferibilità dei meccanismi mentali impiegati, la cui conseguenza è l'analisi metaculturale.

martedì 17 agosto 2010

Perchè IMC? (seconda parte)


La risposta è, ancora una volta, ideologicamente semplice, ma di difficile attuazione. Il suo nome è scuola, intesa come progetto educativo in direzione di una società planetaria. Il solo termine di società planetaria genera sospetti e ben a ragione: l'immagine di una società livellata senza più diversità, uguale a Roma come a Tokyo, a New York, Mombasa, ci spaventa, eppure sembra che proprio in questa direzione ci stiamo movendo. Leggere di più ... Il dilagante consumismo, il modello sociale unico offertoci dal mercato mondiale e dalle multinazionali sembrano ammettere il diverso solo in quanto oggetto di sfruttamento economico... E' questa la società planetaria a cui la scuola dovrebbe prepararci, cui la stessa ipotesi qui discussa (IMC) vorrebbe indirizzarci?
Certamente no: se fino a ieri lo spettro da temere è stato il comunismo reale (cioè nella veste datagli dall'Unione Sovietica), oggi lo è l'appiattimento sull'ideologia vincente: quella del modello concorrenziale. La quale, proprio per sopravvivere, ha bisogno anche lei di ideologie, modelli, di UCL (universi culturali locali) alternativi. Ce lo dicono i biologi, i genetisti, gli etologi, gli antropologi: la vita ha bisogno della diversità e dove questa viene meno, anche la vita è in pericolo. Ma se la diversità genera conflitto, e il conflitto la guerra, il pericolo per la vita è ancora maggiore.
Come uscire da questa antinomia, come sperare ancora nella sopravvivenza? Innanzitutto non limitandosi a sperare ma agendo di conseguenza. La pace, oltre alla veste ideologica, ha bisogno di una tecnica che la realizzi. Finora la tecnica si è alimentata soprattutto delle ricerche in campo militare, ha avuto nella guerra il suo principale motore evolutivo; oggi il progresso tecnologico deve mirare alla convivenza pacifica delle diversità, cioè alla loro salvaguardia e composizione. E questo fin dalla scuola dell'infanzia. IMC (ipotesi metaculturale) proprio questo si propone: contribuire ad una tecnica didattico-pedagogica in direzione della sopravvivenza.

lunedì 16 agosto 2010

Perchè IMC? (prima parte)



E' presto detto [...]: dialogare anzichè difendere, accettare pregiudizialmente la parità del diverso. Tutti parlano oggi di tolleranza, ma la parola stessa è inadeguata. Il diverso non basta che venga "tollerato" (chi di noi si contenterebbe di essere tollerato?), occorre che lo si cerchi come si cercherebbe una ricchezza, un vantaggio.
Leggere di più ... Fino a ieri (ma siamo sicuri che oggi le cose vadano altrimenti?) il diverso, comunque inteso, era già quasi un nemico, qualcosa di cui diffidare, da tenere a bada per non farsene inquinare. Gli odi interetnici non hanno altra origine, altra motivazione, ed è singolare come una forma così arcaica di pensiero sia potuta sopravvivere fino ai nostri giorni, nel pieno dell'era tecnologica ed informatica. E non solo è sopravvissuta questa mentalità, ma per più volte nel corso del Novecento ha messo seriamente a repentaglio la sopravvivenza stessa del genere umano e tuttora non c'è da star sicuri.
Ma non dovrebbero bastare i continui richiami alla pace, alla solidarietà tra i popoli, ai diritti dell'uomo, alla fratellanza universale, richiami di cui sono pieni l'etere informatico e la carta stampata di tutto il mondo?
No, non bastano.
Un conto è l'ideologia della pace, della fratellanza, un conto i comportamenti che dovrebbero seguirne ma che il più delle volte la contraddicono, a cominciare dalle piccole cose, dal litigio in famiglia alla sopraffazione di un concorrente. Sappiamo tutti che la guerra non è più una soluzione proponibile per risolvere i conflitti (ce lo impedisce la bomba H), eppure la guerre continuano a farsi, così come ci si droga ben sapendo a che rischi si va incontro. Probabilmente occorrerà del tempo a che la pratica della pace consegua alle dichiarazioni ideologiche, ma intanto che cosa fare, come preparare il terreno a un futuro di dialogo e di reciproca "modulazione culturale"?

domenica 15 agosto 2010

Domenica ... che noia ...


Qualcuno propone un argomento?

domenica 8 agosto 2010

Un grande immenso amore




La purezza incontaminata di un amore mentale, eterno, di incalcolabile intensità.

giovedì 5 agosto 2010

Tre riflessioni sulla vita

martedì 3 agosto 2010

Ancora suoni



Quanto spazio occupa un suono? Quanti universi sonori possono essere presenti contemporaneamente nello stesso spazio?

domenica 1 agosto 2010

Suoni



Semplici vibrazioni dell'aria in grado di costruire interi universi, paralleli al nostro, in grado di dipingerlo, di sentirlo, di immaginarlo.