[In musica, ci dicono, la forma
dialettica per eccellenza è la sonata
classica, anzi il suo primo tempo – gli altri potendo assumere vari altri
modelli – soprattutto per come lo ha trattato Beethoven nelle sue opere
strumentali (sonate, quartetti, sinfonie ecc.). Il terreno era stato dissodato
già da Haydn e Mozart, cosicché non restava altro da aggiungere, dal punto di
vista delle ‘forme’, che l’ampliamento di questa e la sua progressiva
dissoluzione. Ad ambedue le cose provvederà Beethoven, soprattutto nei cinque
ultimi quartetti e nella Grande Fuga.
Quanto alla Sonata op. 111, la sua
novità, o meglio ‘unicità’, risiede non tanto nella forma in sé – sia il primo
tempo che le successive variazioni non si discostano granché dai rispettivi
modelli – quanto
1)
nello spostamento del peso specifico dal primo al secondo
tempo, nonostante la poderosa introduzione e l’irruente scrittura del primo.
2)
L’inevitabile investitura simbolica nel rapporto tra i
due tempi, cui qui daremo veste politica, ma che potrebbe essere interpretato
come un estremo saluto alla forma sonata (Adorno, Mann) o in molti altri modi.
(È questa una caratteristica della
semantica musicale che, ben più di quella verbale, può ricevere letture
fortemente diversificate, al limite della contraddittorietà.)
[] [] [] [] []
La 1) ci riguarda in questa sede solo
in quanto supporto formale per la 2), di cui rileva al massimo grado la
pregnanza semantica.
Ci si potrà chiedere che cosa ci invita
a riconoscere questa “pregnanza semantica” in una serie di variazioni,
indubbiamente assai diversificate eppure unitarie un tempo. Qui converrà rivolgere
l’attenzione al termine di riferimento cui arbitrariamente ci siamo rivolti: la
‘politica’. Anziché alla politica nelle sue generalità cercheremo di limitarci
il parallelo all’odierna democrazia mercantile e concorrenziale. È questa
un’abbastanza evidente derivazione del pensiero dialettico-liberale, maturato
nel corso del Settecento in simbiosi con il suo contrario – o apparente contrario – : il soggettivismo
sentimentale. L’uno favorisce lo sviluppo dell’economia e la produzione di
ricchezza, l’altro un uso ‘nobile’ e moralmente difendibile della ricchezza
prodotta. Alla base di tutto questo c’è un principio di dualità: bene/male,
giusto/sbagliato, colpevole/innocente, ricco/povero ecc. Ambedue i termini di
questa dualità fanno parte del nostro mondo, che quindi è retto dalla loro
opposizione, con altre parole, dalla guerra che, quando si limita allo scontro
verbale, prende il nome di ‘polemica’ [1].
Si osserverà che nel discorso politico, anche se i contenuti potrebbero con
facilità accordarsi l’un l’altro, si preferisce di gran lunga la polemica, che
oltretutto conserva l’individualità degli opponenti. L’individuo infatti emerge
dalle opposizioni e ognuno di noi ci tiene soprattutto ad affermarsi come tale.
Il comunismo, al di là delle sue efferatezze, si è rivelato inviso ai più, e
quindi perdente nella competizione col capitalismo, per l’appiattimento
dell’individuo sulla collettività. Se qua e là è rimasto in vita e proprio per
la sua oppositività nei confronti del suo concorrente. Un comunismo con qualche
chance di sopravvivenza dovrebbe
forse basarsi su un fondamento unitario anziché dualistico?
Ha senso fondare il due sull’uno?
In matematica, certamente: il concetto
di ‘successore’ è basilare e il due si ottiene dall’uno appunto applicando quel
concetto, e lo zero, che in origine non era successore di nessun numero, è
potuto diventarlo – ‘successore’ e ‘numero’ – solo con l’invenzione dei numeri negativi.
Più in genere il linguaggio permette
sempre di fondare la pluralità sull’unità anche senza l’intervento di un
‘successore’. Basta che inventi una parola che designi un livello numericamente
superiore a quello dato e… il gioco è fatto: pecora > gregge,
individuo > famiglia > nazione > specie
umana… Sulla realtà oggettiva di questi livelli, compreso il primo, c’è da
dubitare, ma dal punto di vista comunicazionale funzionano benissimo. La
pluralità è quindi accettabile non meno dell’unità e, politicamente, la
pluralità democratica non è da meno dell’unità comunista. Ciò vuol dire che non
è difendibile la preminenza dell’una sull’altra. Il criterio di scelta deve
essere pratico, circostanziale e non teorico.
Storicamente il comunismo è risultato
perdente. La cosa è significativa?]
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