martedì 24 agosto 2010

Un'ascensione sognata


I 6.189 facili metri dell'Imja Tse (Picco dell'Isola) nel Nepal

Non era la più alta delle cime ed era stata scalata molte volte, anche da dilettanti della montagna. Ma per lui era sempre stata un traguardo irraggiungibile a causa delle sue non ottimali condizioni fisiche. Finché un giorno – aveva fatto lunghe cure per irrobustire il corpo, correggere certe intemperanze del cuore, alleggerire la respirazione … finché un giorno, il giorno, a lungo sognato e preparato, arrivò. Alcuni amici che già erano stati in vetta, si dichiararono disposti a salire con lui; lui però voleva sentirsi solo in quella che considerava l’impresa della sua vita. Rifiutò ogni compagnia, anche la più cara e s’incamminò.

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Pur non essendo la più alta del gruppo, la cima che aveva scelto si avvicinava comunque ai seimila metri, una bella altezza per chi non aveva mai superato i tre mila. Grosse difficoltà alpinistiche non ne presentava, se si prescinde dalla durata dell’ascensione –circa quindici ore dal campo base– e dal lungo tratto da percorrere sulla lingua del ghiacciaio sottostante la vetta. Il freddo e il ghiaccio non lo impensierivano, anche perché era ben equipaggiato secondo il più moderno standard alpinistico. Ramponi, piccozza, corda, chiodi, moschettoni … e poi la via era attrezzata, nei tratti più scabrosi non c’era che da agganciarsi al materiale già predisposto … Tuttavia non era quel che si dice una passeggiata. Una certa ansia, se non proprio timore, lo accompagnò per le prime ore, ma poi, man mano che si accorgeva che, tutto sommato, il lungo periodo di preparazione stava dando i suoi frutti, all’ansia subentrò una crescente sensazione di fiducia, fiducia in sé stesso, nel suo fisico, ma soprattutto nella montagna che sentiva amica, incapace di tradirlo. Le ore passavano a un passo, come il suo, sempre più lento. Non duravano più un’ora ciascuna ma due o tre. La stanchezza nelle gambe e il respiro sempre più corto lo costringevano a una pausa ogni mezz’ora. Ma per l’orologio non erano più di dieci minuti. Ritornò, più grave, l’ansia dell’inizio, ma la vista del cielo oltre la cima –un azzurro cupo, quasi nero– lo attraeva con più forza di quanto la debolezza lo trattenesse.

Ancora un’ora –o erano tre?– e ce l’avrebbe fatta. A pochi metri … sembrava … uno scoramento … poi … un’ultima stretta di denti … e il sogno di molti anni divenuto realtà.

“Niente di tanto drammatico –pensò– forse avrei potuto sognare anche di più. Certo, quasi sei mila, un migliaio di più del Monte Bianco, ma tre meno del Everest … Ora comunque si tratta di scendere. Niente di che, non più di quattro o cinque ore. Arriverò al campo base prima di notte. Posso concedermi anche il lusso di uno spuntino e di un breve riposo …”

Pochi istanti dopo ecco il nostro sognatore sulla via del ritorno. Era la stessa dell’andata e gli sembrava di riconoscere ogni passo percorso. Fatica non ne provava più, anzi lo pervadeva un senso di leggerezza come quando effettivamente si sogna di scivolare aleggiando lungo un pendio. Il campo base non era ancora in vista, ma lo sarebbe stato tra poco. Non aveva gli sci ai piedi, eppure non aveva bisogno di muoverli, scorrevano sul ghiaccio senza il suo aiuto. Eppure … che strano, il ghiacciaio non gli era sembrato così lungo … Il fondo valle, il campo base man mano scomparvero dalla sua mente e la lingua ghiacciata divenne tutto il suo mondo.

Ritrovarono il corpo, alcune settimane dopo, a pochi metri dalla vetta.


Boris Porena, 2008

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