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Questo genere di
riflessioni, protratte per molti anni, anche dopo la conclusione del mio
itinerario professionale, mi hanno portato a una seconda ipotesi (dopo IMC):
che ci troviamo nel bel mezzo di una transizione –o dovrei dire ‘mutazione’–
antropologica dallo stadio culturale a una metaculturale.
Non si tratterebbe più del passaggio da una cultura a un’altra in seguito a
un’occupazione militare o una rivoluzione sociale, bensì dell’uscita definitiva
da una visione del mondo (Weltanschauung)
fondata su presupposti culturali di qualsiasi tipo (religiosi, ideologici,
scientifici). Ciò vuol dire che presupposti del genere possono continuare a
esistere a livello individuale e anche collettivo, ma che là dove sopravvivono,
non vengono più assunti a fondamento sovraculturale della vita pubblica o dei
sistemi normativi. Leggi e norme non cesseranno ovviamente
di esistere e funzionare, ma più come garanti pratici di civile convivenza che
come principi etici di valore universale. Usi e costumi conserveranno, anzi
potranno accrescere la loro variabilità locale, ma depurati dalla funzione
coercitiva di modello cui improntare la propria vita. In una parola le culture
non spariranno, anzi si rafforzeranno nella loro unicità. La concorrenza non
avrà più ragion d’essere, ciascuno imparando dall’altro ad essere sé stesso e
non una sbiadita copia di quello…
Mi accorgo di essermi
fatto prendere la mano dalla retorica dell’utopia, mentre quest’ultima è
l’ultima cosa che ci serve per realizzare la mutazione che ci affranchi
dall’ebbrezza della condizione culturale senza perdere la ricchezza di cui è
portatrice quale che ne sia la provenienza. Siamo tutti esseri umani allo
stesso titolo, ma ciascuno a suo modo, ed è interesse comune che ci conserviamo
nella nostra inconfrontabile singolarità.
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