mercoledì 29 giugno 2011

La grande 101


[127] Da bambino ero appassionato di treni. Ne avevo anche uno, marca Märklin, con una locomotiva a vapore di modello francese, bellissima, potentissima, grigio chiara, lunga (col tender) 59 cm, ma nella realtà le preferivo la tedesca 101, tutta nera e della sagoma più tradizionale. È la locomotiva che tutti gli anni si portava me e mia madre ad Amburgo, dove passavamo i mesi estivi dalla nonna e dagli altri parenti tedeschi. Era per me il periodo più bello dell’anno, specialmente da quando –credo fosse il 1936– mia madre mi parcheggiava dagli zii in una villetta fuori città, mentre lei restava con la nonna in centro. Ma non è di questa vacanza che voglio parlarvi, bensì del viaggio in treno. La tratta italiana fino alla frontiera di Chiasso era elettrificata e per me di scarso interesse. Anche la parte svizzera, parimenti elettrificata mi interessava principalmente per il passaggio delle Alpi e il traforo del Gottardo. Il vero viaggio cominciava quando, a Basilea veniva sganciata la motrice elettrica e attaccata la grande 101, a vapore. Perché questa ingiusta preferenza (forse tutte le preferenze sono ingiuste) quando sapevo che le motrici elettriche sviluppano una potenza molto maggiore che non la locomotiva a vapore? Perché questa potenza non si faceva vedere, a trasmetterla c’era solo un inappariscente filo, mentre tutto nella locomotiva a vapore esprimeva forza incontenibile: dal fuoco al suo interno agli sbuffi di vapore provenienti dalla ciminiera e da tutte le commessure del corpo potente. E poi l’iniziale slittamento delle ruote prima di far presa sulle lucide rotaie e l’evidente sforzo del mostro per vincere l’inerzia della lunga fila di vagoni. Tutto questo era ben visibile ed era bello. Bellezza che nasceva dalla esteriorizzazione della funzionalità. Ce n’era abbastanza da affascinare i sensi di un bambino, come anche di un adulto futurista. Certo, anche le motrici spostavano i vagoni e li facevano correre molto più rapidamente, ma non lo davano a vedere, gelide e impassibili nello svolgere la loro funzione. Oltretutto si sapeva che non erano loro, le motrici, a produrre la forza ma da qualche parte un lontano torrente di montagna. Dubito che gente come Boccioni o Marinetti si sarebbero infiammati per la velocità se a produrla fossero state forze silenziose e occulte.
Ma non era solo la bellezza ‘funzionale’ della locomotiva 101 a eccitare la fantasia di un bambino appassionato di ferrovie, vi contribuivano tutto un contorno di fattori, come il piacere quasi sensuale del ritmico sobbalzo delle ruote sulle commessure dei binari, ogni tanto drammaticamente interrotto dal passaggio su uno scambio o un incrocio, o, più sottile e incisivo, del ‘canto’ delle ruote a una determinata velocità. Ero convinto che quel canto era possibile udirlo solo sulle ferrovie tedesche, in particolare nella Germania centro-settentrionale, una volta raggiunte le brughiere della Lüneburga Heida, alternate a boschi di aghifoglie su cui vedevo aleggiare con volo calmo e maestoso le poiane. Ovviamente, ci aggiungevo molto di mio, però non mi sentirei di escludere che su quel terreno, sabbio e compatto, anche le ruote di un normale treno a vapore potessero ‘cantare’. C’era molto di mitico in quelle sensazioni epidermiche che invano ho ricercato negli anni seguenti e che poi sono i sogni notturni hanno saputo restituirmi.

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