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L’uomo ha probabilmente sempre
dubitato della veridicità dei dati sensoriali. Ma difficilmente ha rinunciato
al ‘vero’ come concetto. Eppure sarebbe stata la soluzione più semplice:
senza il ‘vero’, anche il dubbio non avrebbe luogo, e così l’inganno,
l’errore, concetti però che ci sono necessarie quanto e più del ‘vero’. E
allora, manteniamoli tutti, ma solo perché ci servono, togliendogli ogni
spessore metafisico, ideologico.
Nel VII libro di La Repubblica Platone descrive il Mito della Caverna. Non so se ne sia
lui l’inventore, ma ritengo probabile che, almeno nelle sue linee essenziali,
esso gli preesistesse. Un gruppo di uomini è costretto, fin dalla nascita, a
fissare una parete della caverna in cui è rinchiuso, parete sulla quale
vengono proiettate, con l’aiuto di una sorgente luminosa –un fuoco– posta
dietro agli spettatori, le ombre di oggetti, animati o no. L’analogia con la
lanterna magica, col teatro di ombre e soprattutto con il cinema è evidente.
Per gli spettatori, incatenati ai loro posti, l’unica ‘realtà’ di cui abbiano
esperienza è appunto il gioco delle ombre sul muro. È, per Platone, il primo
grado di conoscenza, la conoscenza sensibile.
Uno dei prigionieri si libera e
scopre gli altri gradi: la conoscenza razionale, causale, infine la
contemplazione intuitiva del ‘vero’ ideale, cioè dell’idea di cui la ragione può fornirci solo una copia. Le immagini
della caverna non sono allora che una ‘copia della copia’, destituite di un
fondamento ontologico e quindi inservibili per il filosofo. La strada verso
la vera conoscenza è quindi una salita che sta a lui, al filosofo, di
percorrere per poi illuminare, coloro che non l’hanno percorsa, di una luce
‘vera’.
Questa volta l’analogia è con
le filosofie orientali, il buddismo in primo luogo, ma, come prima, non posso
che dichiarare la mia ignoranza su eventuali fonti asiatiche di Platone. La
mia riesposizione del Mito della
Caverna non soddisferà certo un esperto di filosofia greca. Non è
comunque è lui che rivolgo questo postino, ma a lettori come me, non più che
orecchianti dell’argomento. Osservo però –nella mia riesposizione, non
nell’originale– delle forzature ideologiche che mi lasciano dubbioso.
(Evidentemente anch’io, come tutti, non riesco a staccarmi del tutto
dall’ideologia della verità.)
A quanto detto prima avrei da obiettare:
· Perché il
prigioniero che si è liberato si volge indietro? Forse perché sta già
dubitando di ciò che gli sta davanti. E perché dubiterebbe, se non ha mai
visto altro?
· Il grado intermedio
della conoscenza ‘razionale’ ha come presupposto la razionalità del reale,
che cioè la realtà sia afferrabile dalla ragione, cosa che, per essere
credibile, avrebbe bisogno di un garante esterno, non è implicato nel
processo conoscitivo.
· Il grado ultimo
–l’intuizione– presuppone per così dire, sé stessa. Perché ci sarebbe
concessa, se agli altri animali non è riconosciuto neppure il diritto alla
conoscenza razionale? Non potrebbe essere che la ragione costruisce di sua
iniziativa questa graduatoria per inserirvi poi, al grado che più le
conviene, il proprio nome?
· Perché la luce che
proviene dalla filosofia dovrebbe essere più ‘veritiera’ di quella
proveniente dalla sorgente?
· Nel racconto
platonico la parola di chi possiede la verità ultima non viene ascoltata: gli
uomini preferiscono attenersi alla verità sensibile. E perché non dovrebbero?
Sarebbe come se non dovessimo dare piena fiducia a quanto ci dicono i mass media.
Perché: non dovremmo? |
lunedì 28 maggio 2012
Il Mito della Caverna
Chiavi di lettura:
Letteratura con intenzione,
Postini del 'come se'
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