sabato 19 maggio 2012

La sestina pro senectute (e vi)

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Molti vedono la vecchiaia come preparazione alla morte. La cosa è comprensibile nel caso di famiglie molto religiose, che credono in una vita dopo la morte. Altrimenti che cosa ci sarebbe da preparare?

Più utile mi sembra prepararsi alla vecchiaia, e prima si comincia, meglio è. Ma non si tratta di abituarsi all’idea di un’inevitabile sciagura. Certo, anche la vecchiaia può essere infelice, come può esserlo qualsiasi età. E allora è l’infelicità il problema, non la vecchiaia. La vecchiaia lo è solo quando giunge anzitempo. E questo può accadere, come qualsiasi altro malanno. Spesso però né almeno corresponsabile l’individuo stesso, se non la società tutta intera, che declassa la vecchiaia a ingombro sociale, poi ne piange ipocritamente la fine. L’ideologia della produttività materiale (della ricchezza prodotta) ci nasconde altri tipi di produttività che la vecchiaia invece favorisce alcune civiltà che giudichiamo –dall’alto della modernità– arcaiche tengono in considerazione perfino la demenza senile attribuendole facoltà divinatorie o taumaturgiche. Non voglio con questo farmi paladino di un ‘ritorno all’antico’, ma solo riconnettere la vecchiaia al tronco della vita, di cui non costituisce in alcun modo la cima divenuta sterile, ma può essere vista come una mano protesa verso un domani non più suo.

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