Adeguatamente preparata,
socialmente sorretta, serenamente vissuta, la vecchiaia potrebbe competere
con le altre stagioni della vita quanto a godibilità e rendimento.
Naturalmente questi due termini andrebbero ricondotti entro i confini segnati
dall’età. Questi appaiono insopportabilmente stretti se vengono pensati col
pensiero di un trentennio di un cinquantenne; se li collochiamo in uno spazio
preparato ad accoglierli, ci appariranno ‘giusti’, di una ‘giustezza’ del
tutto soddisfacente.
Si pensa normalmente alla
vecchiaia come all’età delle rinunce e non come all’età della massima
espansione mentale (conoscitiva, propositiva, critica). Qualcuno obietterà
che questa espansione non è utilizzabile che in minima parte, perché non
riconosciuta dalla società e spesso anche censurata dall’individuo. La
vecchiaia va costruita nel tempo, e la mente stessa va allenata al nuovo
stadio, che, non potendo più contare sulle prestazioni giovanili, neppure si
accorge di quelle rese possibili dall’età. Il ‘problema dell’anziano’ è tale
solo per una società imprevidente, che ha aspettato a porselo solo a cose
fatte. Esistono, è vero, nella maggioranza dei paesi, sistemi previdenziali
che garantiscono la sussistenza ben oltre i limiti della vita cosiddetta
produttiva, ma questi non fanno per altro verso che peggiorare le cose perché
convincono l’anziano della sua esistenza parassitaria. Anche di questo la
società si è accorta ed è corsa ai ripari creando per l’anziano occasioni,
più o meno fittizie, di reinserimento lucrativo. Ma è proprio questo ripetuto
‘correre ai ripari’ che de motiva l’anziano e lo priva delle spinte
propositive necessarie alla sopravvivenza. Il ‘problema dell’anziano’
scompare nel momento che la società cessa di considerarlo un relitto
bisognoso di restauro e li restituisce il ruolo che lo rende indispensabile
al compimento formativo dell’ambiente in cui vive.
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venerdì 18 maggio 2012
La sestina pro senectute (v)
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