venerdì 18 maggio 2012

La sestina pro senectute (v)

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Adeguatamente preparata, socialmente sorretta, serenamente vissuta, la vecchiaia potrebbe competere con le altre stagioni della vita quanto a godibilità e rendimento. Naturalmente questi due termini andrebbero ricondotti entro i confini segnati dall’età. Questi appaiono insopportabilmente stretti se vengono pensati col pensiero di un trentennio di un cinquantenne; se li collochiamo in uno spazio preparato ad accoglierli, ci appariranno ‘giusti’, di una ‘giustezza’ del tutto soddisfacente.

Si pensa normalmente alla vecchiaia come all’età delle rinunce e non come all’età della massima espansione mentale (conoscitiva, propositiva, critica). Qualcuno obietterà che questa espansione non è utilizzabile che in minima parte, perché non riconosciuta dalla società e spesso anche censurata dall’individuo. La vecchiaia va costruita nel tempo, e la mente stessa va allenata al nuovo stadio, che, non potendo più contare sulle prestazioni giovanili, neppure si accorge di quelle rese possibili dall’età. Il ‘problema dell’anziano’ è tale solo per una società imprevidente, che ha aspettato a porselo solo a cose fatte. Esistono, è vero, nella maggioranza dei paesi, sistemi previdenziali che garantiscono la sussistenza ben oltre i limiti della vita cosiddetta produttiva, ma questi non fanno per altro verso che peggiorare le cose perché convincono l’anziano della sua esistenza parassitaria. Anche di questo la società si è accorta ed è corsa ai ripari creando per l’anziano occasioni, più o meno fittizie, di reinserimento lucrativo. Ma è proprio questo ripetuto ‘correre ai ripari’ che de motiva l’anziano e lo priva delle spinte propositive necessarie alla sopravvivenza. Il ‘problema dell’anziano’ scompare nel momento che la società cessa di considerarlo un relitto bisognoso di restauro e li restituisce il ruolo che lo rende indispensabile al compimento formativo dell’ambiente in cui vive.

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