giovedì 22 dicembre 2011

Allora perché?

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Ieri ho provato a scrivere alcuni versi in italiano. Mi è stato difficilissimo. Ricordo che non lo era altrettanto scriverli in tedesco, lingua nella quale però avevo qualche difficoltà con la prosa e il discorso parlato. Ora, da qualche anno ormai, ho rinunciato quasi del tutto alla lingua materna e, parallelamente, a ogni tentazione poetica. Da che questa asimmetria espressiva?
Quanto al tedesco, hanno certo giocato un ruolo le mie predilezione letterarie che mi hanno portato fin da bambino a leggere poesie e racconti in quella lingua, più tardi a dedicarmi quasi esclusivamente a Goethe e Thomas Mann. Se a ciò si aggiunge la mia quasi maniacale passione per il Lied –Schubert soprattutto– e tutto risulta chiaro.
Quanto alla mia lingua paterna, l’unica lettura poetica che mi ha accompagnato costantemente nel pensiero è stata ed è la Divina Commedia, a cui, nonostante le tremende difficoltà ad esempio del Paradiso, ritorno spesso con immutata emozione. Conosco poco il romanzo italiano moderno, sono però un buon lettore di saggistica, soprattutto scientifica, per la quale però mi avvalgo più che altro di traduzioni dall’inglese (lingua che non conosco).
Ma ritorniamo ai miei traballanti versi in italiano, resi ancora più incerti dall’uso non richiesto della rima. In uno dei prossimi postini mi riprometto qualche riflessione su questo ingrediente dell’espressione poetica che Leopardi giudicava in essenziale al verso italiano.
Perché misurarsi con questo artificioso ostacolo aggiuntivo, quando già di per sé la concentrazione propria della scrittura in versi costituisce una difficoltà non indifferente per chi voglia evitare il rischio del ridicolo. (Parlo in generale, non certo del mio sporadico tentativo che questo rischio non si è curato di evitare). Ed effettivamente il ricorso alla rima suona oggi come la sfida di un gioco enigmistico che si accetta dopo aver perso altre sfide... Allora perché? Perché affrontare la sfida più grande, dove la sconfitta è quasi certa?
Per parte mia l’ho affrontata sul terreno neutro di una lingua che da anni aveva perso per me ogni referenzialità comunicativa, chiuso ormai in un discorso privato senza dirimpettaio. L’italiano mi serve ancora per parlare a un tu. E a un tu in genere non si parla in rima.

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