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E così è restato fino ai giorni nostri, nonostante
le molte menti, illustri e oscure che si sono affannate dietro lo sfuggente
concetto. Sfuggente sia alla comprensione che nell’oggetto significato.
Ma il tempo può dirsi un ‘oggetto’, come una sedia,
un albero? Pochi saranno di questa opinione, i più lo considereranno una
sorta di ‘contenitore’ di oggetti. Alberi e sedie sussistono nel tempo (e nello spazio), ma tempo
(e spazio) sussistono solo in se stessi – per coloro che credono nella loro
sussistenza. Ben trovata la definizione kantiana dei due come ‘a priori’
della conoscenza, cioè: possiamo conoscere gli oggetti solo se abbiamo per
essi degli appropriati contenitori fisici, appunto spazio e tempo. Ma la
‘fisicità’ di questi contenitori è reale o mentale? E il problema si riapre
sul versante psicologico: il ‘mentale’ corrisponde a un determinato stato
fisico dell’organo pensante, il cervello? e così via.
La dualità corpo-mente, ulteriormente banalizzata in
anima e corpo, ammette una riduzione monistica? E che vantaggio ne
ricaveremmo? La rinuncia al due, e per esso alla pluralità tout-court, non ci sterilizzerebbe
alla condizione del uno-tutto parmenideo?
Ma torniamo al problema del tempo, vigorosamente
trattato nell’antichità, poi, ancora ai primordi della cristianità, da
Agostino, vescovo di Ippona:
“Dunque, Dio
mio, io misuro il tempo e non so cosa misuro (…) Ne ho tratto l’opinione che
il tempo non sia che un’estensione. Di che? Lo ignoro. Però sarebbe
sorprendente se non fosse un’estensione dello spirito stesso.” (Confessioni, traduzione C. Carena)
Agostino sembra qui presentire l’interpretazione di
Kant. Ambedue tentano di sottrarre il tempo al mondo fisico e di fare una
sorta di emanazione (“estensione”) dello spirito, una precondizione dell’atto
percettivo. Kant avrà in questo idea più chiara di Agostino, il che è del
resto è ben comprensibile dopo gli empiristi inglesi e Hume in particolare.
E come stiamo messi oggi, nei confronti del grande
tema?
Le mie scarse conoscenze non mi permettono più che
qualche piratesca incursione in questo campo. Osservo per esempio che la
trattazione dello spazio e del tempo dall’ambito filosofico si è trasferita a
quello scientifico con un’operazione in un certo senso inversa a quella
appena ricordata per Agostino e Kant. È impensabile, oggi, parlare
separatamente di spazio e tempo, cioè senza tener conto della loro
unificazione nello ‘spazio-tempo’ della teoria einsteiniana della relatività.
A dire il vero, già la fisica di Newton connette questi concetti entro
formule unificanti, che però li trattano ancora come ‘parametri’
indipendenti. Nella relatività galileiana la loro indipendenza è
implicitamente sospesa, senza tuttavia
che Galileo lo dichiari apertamente, forse per non rendere ancora più
difficili i suoi rapporti con il Vaticano.
Una domanda che mi faccio spesso, al di là –o meglio
ben al di qua– delle ipotesi relativistiche è se sia sensato matematizzare il
tempo, dotandolo di un’unità di misura universale, quando la nostra
percezione di esso è a tal punto variabile da non trovarsi due occasioni
esperienziali che ne registrino l’uniformità. Mentre l’iterabilità di una
misura spaziale rende plausibile la sua oggettività, lo stesso non accade per
una misurazione temporale, irripetibile per principio. Si potrebbe replicare
che anche per lo spazio due misurazioni di uno stesso oggetto non sranno mai
identiche a causa dei microcambiamenti necessariamente avvenuti tra l’una e
l’altra. Ma di questi cambiamenti è responsabile appunto il tempo, non lo
spazio.
Non discuto ovviamente l’utilità pratica di questa
ma tematizzazione; per parte mia, entro in crisi già mi si scarica la
batteria dell’orologio da polso. Ma non vorrei neppure basare sulla ‘pratica’
un’ontologia che credo il tempo non meriti e di cui forse non ha neppure
bisogno.
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mercoledì 18 luglio 2012
Il problema dei problemi: il tempo
Chiavi di lettura:
Letteratura con intenzione,
Postini,
Postini del 'come se'
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