Mi sembra di aver già
raccontato in uno di questi postini del preciso e circostanziato ricordo di
una persona frequentata per mesi, poi d’improvviso sparita senza che io ne
abbia conservato la minima traccia al punto da farmi dubitare, non dico della
realtà della persona, ma della realtà del ricordo.
A questa incertezza di secondo
grado mi sembra che Proust abbia dedicato il suo grande romanzo.
«Per molto tempo
sono andato a letto presto. A volte, appena spento il lume, gli occhi mi si
chiudevano istantaneamente. Non avevo neppure il tempo di dirmi: “mi sto
addormentando”. Una mezz’ora dopo, il pensiero che era ora di prender sonno
mi svegliava; sentivo di dover posare il libro che credevo di aver ancora in
mano, e soffiare sul lume. Non avevo smesso, nel sonno, di riflettere su ciò
che avevo letto, ma le mie riflessioni avevano preso un corso tutto
particolare: mi sembrava di essere io l’argomento del libro: una chiesa, un
quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V.»
Sogno di un sogno. Ricordo di
un ricordo. Non più trovato. Per fortuna nostra però À la recherche du temps perdu è lì, davanti ad noi con i suoi
sette volumi e le circa tremiladuecento pagine.
Il tempo del ricordo è un tempo
‘perduto’ o un tempo ritrovato?
La memoria è forse la più
complessa delle facoltà ‘biologiche’. Non dico ‘umane’, perché la
riscontriamo anche tra gli animali ai primi gradi della scala evolutiva. Può
anche darsi che non sia una facoltà semplice, monoplanare, ma sia la somma o
l’integrale di più livelli sviluppatisi nel tempo. L’‘elementare’ reazione di
difesa di una cellula che si contrae al tatto o, molto più in là, l’aumento
della salivazione alla vista o al solo ricordo di un cibo particolarmente
gradito sono probabilmente tra i primi stadi della memoria. Forse conviene
distinguere tra ‘memoria’ e ‘ricordo’, questo designando piuttosto il
contingente contenuto di quella. O forse la distinzione è solo di comodo: il
ricordo lo percepiamo attraverso la memoria, la memoria la percepiamo solo in
presenza di un ricordo, o meglio non la percepiamo affatto, ma la inferiamo
dal fatto di ricordare, per cui inventiamo –estraendo– una ‘facoltà’, la
memoria appunto. La nostra mente cerca
concetti secondo necessità, poi li reifica al punto di farci cercare la sede
specifica di qualcosa che si produce a livello di ‘sistema’, non di singolo
organo.
Proust avrebbe quindi ‘perso’
il suo tempo nel tentativo di localizzare la memoria?
Si direbbe proprio il
contrario. I sette volumi della Recherche
dimostrano quanto per lui la memoria si sviluppasse parallelamente
all’esperienza vitale, forse anzi indistinguibile da quella. Esperire è
iscrivere nella memoria. Addirittura ‘essere = ricordare’, il tempo è
un’invenzione umana.
Nell’ultimo capoverso osservo
che l’espressione si è fatta progressivamente più rigida, apodittica,
ideologica. Una parola tira l’altra e senza paure si arriva a proposizioni ad
‘effetto’ (“il tempo è un’invenzione umana”), scarsamente difendibili sul
piano filosofico. Un espediente retorico?
Ha poca importanza che lo sia o
no. Più conta il fatto che ce rendiamo conto di quali mezzi la parola ha a
disposizione per convincere, per piegare a sé il pensiero del ricevente. Gli
scritti del livello di un Proust, di un Mann, ma anche un abile creatore o
giornalista hanno a disposizione, indipendentemente da ciò che dicono, una
‘tecnica’ del come dirlo, e di questa sarebbe bene fossero consapevoli anche
i riceventi. Se non altro per mantenere la propria indipendenza mentale. La
scuola provvede a questo? La società ha interesse all’indipendenza mentale
dei suoi membri? La democrazia ne ha bisogno?
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giovedì 19 luglio 2012
À la recherche du temps perdu
[402]
Chiavi di lettura:
Letteratura con intenzione,
Postini,
Postini del 'come se'
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