giovedì 19 luglio 2012

À la recherche du temps perdu

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Mi sembra di aver già raccontato in uno di questi postini del preciso e circostanziato ricordo di una persona frequentata per mesi, poi d’improvviso sparita senza che io ne abbia conservato la minima traccia al punto da farmi dubitare, non dico della realtà della persona, ma della realtà del ricordo.
A questa incertezza di secondo grado mi sembra che Proust abbia dedicato il suo grande romanzo.
«Per molto tempo sono andato a letto presto. A volte, appena spento il lume, gli occhi mi si chiudevano istantaneamente. Non avevo neppure il tempo di dirmi: “mi sto addormentando”. Una mezz’ora dopo, il pensiero che era ora di prender sonno mi svegliava; sentivo di dover posare il libro che credevo di aver ancora in mano, e soffiare sul lume. Non avevo smesso, nel sonno, di riflettere su ciò che avevo letto, ma le mie riflessioni avevano preso un corso tutto particolare: mi sembrava di essere io l’argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V.»
Sogno di un sogno. Ricordo di un ricordo. Non più trovato. Per fortuna nostra però À la recherche du temps perdu è lì, davanti ad noi con i suoi sette volumi e le circa tremiladuecento pagine.
Il tempo del ricordo è un tempo ‘perduto’ o un tempo ritrovato?
La memoria è forse la più complessa delle facoltà ‘biologiche’. Non dico ‘umane’, perché la riscontriamo anche tra gli animali ai primi gradi della scala evolutiva. Può anche darsi che non sia una facoltà semplice, monoplanare, ma sia la somma o l’integrale di più livelli sviluppatisi nel tempo. L’‘elementare’ reazione di difesa di una cellula che si contrae al tatto o, molto più in là, l’aumento della salivazione alla vista o al solo ricordo di un cibo particolarmente gradito sono probabilmente tra i primi stadi della memoria. Forse conviene distinguere tra ‘memoria’ e ‘ricordo’, questo designando piuttosto il contingente contenuto di quella. O forse la distinzione è solo di comodo: il ricordo lo percepiamo attraverso la memoria, la memoria la percepiamo solo in presenza di un ricordo, o meglio non la percepiamo affatto, ma la inferiamo dal fatto di ricordare, per cui inventiamo –estraendo– una ‘facoltà’, la memoria appunto. La nostra mente cerca concetti secondo necessità, poi li reifica al punto di farci cercare la sede specifica di qualcosa che si produce a livello di ‘sistema’, non di singolo organo.

Proust avrebbe quindi ‘perso’ il suo tempo nel tentativo di localizzare la memoria?
Si direbbe proprio il contrario. I sette volumi della Recherche dimostrano quanto per lui la memoria si sviluppasse parallelamente all’esperienza vitale, forse anzi indistinguibile da quella. Esperire è iscrivere nella memoria. Addirittura ‘essere = ricordare’, il tempo è un’invenzione umana.
Nell’ultimo capoverso osservo che l’espressione si è fatta progressivamente più rigida, apodittica, ideologica. Una parola tira l’altra e senza paure si arriva a proposizioni ad ‘effetto’ (“il tempo è un’invenzione umana”), scarsamente difendibili sul piano filosofico. Un espediente retorico?
Ha poca importanza che lo sia o no. Più conta il fatto che ce rendiamo conto di quali mezzi la parola ha a disposizione per convincere, per piegare a sé il pensiero del ricevente. Gli scritti del livello di un Proust, di un Mann, ma anche un abile creatore o giornalista hanno a disposizione, indipendentemente da ciò che dicono, una ‘tecnica’ del come dirlo, e di questa sarebbe bene fossero consapevoli anche i riceventi. Se non altro per mantenere la propria indipendenza mentale. La scuola provvede a questo? La società ha interesse all’indipendenza mentale dei suoi membri? La democrazia ne ha bisogno?

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