lunedì 25 maggio 2009

Un diario di bordo (1):

Giorni di intenso lavoro da parte di Boris Porena e del gruppo di lavoro Rigobaldo.
Una settimana ricca di avvenimenti, di discussioni e riflessioni.


Il gruppo continua ad occuparsi della digitalizzazione delle opere di Boris, aggiunte infatti diverse metaparole, girati numerosi video che proporremo su questo Blog nel prossimo futuro.
Si sono inoltre svolte numerose interviste musicali a cura del nostro Oliver Wehlmann, interviste mirate ad analizzare le partiture del Porena.
Giorni vissuti con 'sguardo retrospettivo', archiviando, digitalizzando ciò che già esiste, ma non solo, giorni spesi a progettare nuove iniziative, a coordinare nuove attività.
Si è riflettuto sull'articolo di Serge Latouche pubblicato recentemente qui su questo Blog: ' La crisi produttivistica ' e si è lavorato a nuove parole da proporre al sito della Decrescita felice nella nostra rubrica ' Dentro la parola... '.
Non si può negare che oltre a tutto questo lavoro ci siamo pure divertiti! Qualcuno di noi direbbe che questo divertimento, questo piacere è indispensabile, e come dargli torto?
Ovviamente c'è ancora tanto da fare e tanti spunti da alimentare e da ricercare, e per questo ricordiamo a chiunque fosse interessato o semplicemente incuriosito che le porte non sono aperte ma spalancate per qualsiasi contaminazione e\o collaborazione.
Un saluto a tutti!

giovedì 21 maggio 2009

Parla Serge Latouche - La catastrofe produttivistica

Oggi abbiamo il piacere di presentarVi, con l'autorizzazione del prof. Serge Latouche una conferenza pronunciata dal medesimo negli incontri di Malagar il 23 Maggio 2008. Qui la si pubblica in italiano per la prima volta.




LA CATASTROFE PRODUTTIVISTICA [*]
Serge Latouche,
professore emerito di economia nell’Università d’Orsay, obiettore della crescita


«La presa di coscienza della catastrofe produttivistica è troppo lenta per evitare il peggio».
Yves Cochet
[1].

Negli anni Sessanta, l'umorista Pierre Dac osservava: «È ancora troppo presto per dire se sia già troppo tardi». Disgraziatamente oggi giorno non è più questo il caso. Dopo il quarto rapporto del Foro Intergovernativo sul Mutamento Climatico (IPCC) del 2007, e ancora di più dopo il suo aggiornamento da parte dei climatologi nella riunione di Copenhaguen del marzo 2009, sappiamo che ormai è troppo tardi. Anche se blocchiamo da un giorno all'altro tutto ciò che contribuisce a oltrepassare la capacità di rigenerazione della biosfera (emissioni di gas a effetto serra, polluzioni e atti predatori di ogni natura) o, detto altrimenti, se riduciamo la nostra impronta ecologica fino al livello sostenibile, avremo due gradi in più prima della fine del secolo. Ciò significa regioni costiere sotto l'acqua, decine se non centinaia di milioni di rifugiati ambientali, gravi problemi alimentari, scarsità di acqua potabile per molte popolazioni ecc. Oramai la questione sta nel limitare la catastrofe e soprattutto nel chiedersi come gestirla.

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Cos'è una catastrofe? Secondo il dizionario Larousse: «Disgrazia repentina e funesta che colpisce una persona o un popolo. Incidente che causa la morte di un grande numero di persone: una catastrofe ferroviaria, aerea. Letteralmente, evento decisivo che comporta il compimento di una tragedia». È necessario andare oltre nelle precisazioni macabre? È stata proposta una classifica delle catastrofi secondo il numero di morti: “Tra 1 e 999 morti, un fenomeno sarebbe denominato "incidente", ma diventerebbe un disastro tra mille e un milione di morti, persino una catastrofe se si va oltre il milione …”[2].

Alla catastrofe, presentata come un fenomeno fatale, si unisce spesso l'aggettivo «naturale». Essa diventa allora un destino, un evento fatidico. Ciò nonostante, come ha dimostrato J. J. Rousseau a proposito del terremoto di Lisbona, essa non è mai così naturale quanto sembra. Anche se solo fosse perché c'è bisogno di uno sguardo umano per decidere che veramente di catastrofe si tratta. Ciò che capita nella natura non diventa un «disastro» se non quando degli umani ne subiscono le conseguenze. Ciò è particolarmente vero per questa catastrofe incombente.

La catastrofe ha a che vedere con la tragedia dalla quale ricava il suo nome. Se essa è umana come la nakba o la shoah (parole dalle quali si sa che il senso originale è catastrofe…), essa viene pensata come un cataclisma naturale. Se si tratta di un fenomeno di origine geofisica, tsunami, terremoto, inondazione, eruzione vulcanica ecc., essa viene pensata come un destino che prende posto nella storia. Ci si trova in una relazione speculare tra natura e cultura.

Le catastrofi che ci concernono sono quelle dell'antropocene, cioè quelle originate dalla dinamica di un sistema complesso, la biosfera, alterato dall'attività umana e in coevoluzione con essa. Si tratta della straordinaria crescita (ex-crescita, non tanto lontana dall'escrescenza) exosomatica dell'uomo che, essendosi innamorato del cambiamento a tasso geometrico, iscrive le conseguenze materiali del suo modo di vita sulle curve esponenziali del degrado della biosfera (gas a effetto serra, sparizione delle energie fossili, accumulo di veleni, distruzione di specie …).

La catastrofe (la nakba, la shoah) ha a che vedere con lo sfondamento (collasso), argomento popolarizzato da Jared Diamond. Una civiltà sparisce perché ha distrutto il suo ecosistema. La catastrofe produttivistica è il destino implacabile di una società di crescita che rifiuta il mondo reale, prediligendo invece la sua artificializzazione. La ricerca della crescita ad ogni costo implica che non si faccia troppa attenzione ai metodi per ottenerla. La ricerca sfrenata della potenza e le limitazioni economiche sono all'origine della maggior parte degli incidenti. La cecità e l'arroganza dei saggi, degli esperti, dei responsabili, degli ingegneri e dei tecnici, supportate dal culto della scienza, dalla fede nel progresso, giocano una parte complementare ma essenziale in questo concerto infernale. Qui non è tanto la soggettività apparente ad essere messa in causa, quanto la logica medesima del sistema, la quale crea le condizioni per la catastrofe, includendovi la produzione di certi fattori soggettivi. Ciò che colpisce di più nello studio delle indagini che seguono alla maggior parte degli incidenti importanti, è il numero incredibile di negligenze, d'inosservanze dei regolamenti in vigore (con la complicità delle autorità incaricate di farli rispettare), di infrazioni alla legislazione nazionale o internazionale. Queste frodi, eccessi ed inganni si devono in essenza a tre fattori: la sete di ricchezza, il desiderio di potere e la vanità.

La catastrofe (kata-strophè: ribaltamento, sconvolgimento, conclusione) indica nella tragedia greca[3] «la scrittura dell'ultima strofe». La catastrofe che ci minaccia si collega con la fatalità della tragedia, punisce l’hybris dell'eroe, la sua dismisura. Come lui, noi sappiamo perfettamente ciò che ci minaccia e, come lui, sembra che siamo paralizzati dalla logica implacabile di un destino che ci impedisce di agire.


I Cronaca di una catastrofe annunciata

Il rimpianto Pierre Thuillier aveva pubblicato in 1995 «La grande implosione». Questo libro premonitore si presentava nell'edizione originale come un dossier intitolato: Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002[4]. L'Autore immaginava una commissione di indagine che nel 2070 si sforzava a comprendere come mai era stato possibile questo crollo, essendoci stati tanti avvertimenti. E infatti, senza bisogno di andare più indietro, già nel 1922 il grande Svante Arrhenius, in una conferenza dettata nell'università di Parigi, dichiarava: «Lo sviluppo è stato, per modo di dire, esplosivo, e corriamo verso una catastrofe»[5]. Dopo "Primavera silenziosa" (Silent Spring, 1962) di Rachel Carson, tante voci di autorità si sono fatte sentire; fingere ignoranza non è più possibile. Il famoso primo rapporto del club di Roma (1972), "Alto alla crescita" ci ha avvertito che la continuazione indefinita della crescita era incompatibile con i "fondamentali" del pianeta[6]. Nel 1974, René Dumont dichiarava: «Se manteniamo fino al prossimo secolo i tassi odierni di espansione della popolazione e della produzione industriale, questo non si concluderà senza il crollo completo della nostra civiltà»[7]. Tutti i giorni o quasi, nuove e pesanti testimonianze, pervenute dagli orizzonti più diversi, confermano questa diagnosi di buon senso del Club di Roma e i pronostici allarmisti di Dumont. Così, dopo la dichiarazione di Wingspread del 1991[8], l'appello di Parigi del 2003[9], il Millennium Assessment Report[10], ci troviamo davanti a una vera valanga di allarmi: l'ultimo rapporto del Foro Intergovernativo sul Mutamento Climatico (IPCC), quelli delle ONG specializzate (WWF, Greenpeace, Amici della Terra, Worldwatch Institute ecc.), quelli semisegreti del Pentagono del 2003, quello più confidenziale della Fondazione Bilderberg, il rapporto di Nicolas Stern al governo britannico ecc. Senza parlare di dichiarazioni di maggior o minor autorità, da quella del Presidente Chirac a Johannesburgo, fino a quella di Nicolas Hulot durante la campagna presidenziale del 2007[11], senza dimenticare il vicepresidente Al Gore e la sua scomoda verità ... Ed eccoci oggi tra il crack e il crash

Sicuramente «i nostri figli ci accuseranno», per riprendere il titolo del bel film di Jean-Pierre Jaud, perché ne siamo tutti responsabili. A cominciare dalle nostre élites politiche ed economiche, più pronte a salvare la Banca che non le banchise, ma anche dai comuni cittadini, più preoccupati del loro livello di vita che di quello raggiunto dagli oceani.
Oggi, la catastrofe è alle porte. Viviamo ciò che gli specialisti denominano la sesta estinzione delle specie[12]. La quinta, che si è prodotta nel Cretaceo, sessantacinque milioni di anni fa, aveva visto la fine dei dinosauri e di altri grandi animali, probabilmente in seguito all'impatto di un asteroide. Tuttavia, la nostra presenta tre differenze non trascurabili in rapporto alla precedente. In primo luogo, le specie (vegetali e animali) spariscono ad una velocità tra le cinquanta e le duecento al giorno[13]; cioè a un ritmo tra 1.000 e 30.000 volte superiore a quello delle ecatombi dei tempi geologici passati[14]. In secondo luogo, l'uomo è diretto responsabile di questo "esaurimento" odierno delle forme di vita. In terzo luogo, l'uomo potrebbe benissimo diventarne la vittima … Se dobbiamo dare retta ad alcuni, la fine dell'umanità dovrebbe arrivare persino più velocemente di quanto previsto, verso l'anno 2060, per sterilità generalizzata dello sperma maschile sotto l'effetto di pesticidi e altri contaminanti organici persistenti, cancerogeni, induttori di mutazioni o reprotossici[15]. L’astronomo di Sua Maestà Sir Martin Rees, autore di «Our Final Century», concede all'umanità una possibilità su due di sopravvivere al secolo ventunesimo.

Possiamo certo essere scettici davanti ai lavori di futurologia, ma quelli del Club di Roma hanno il merito di essere infinitamente più seri e solidi delle abituali proiezioni sulle quali si appoggiano i nostri governanti e le organizzazioni internazionali. Or bene, secondo l'ultimo rapporto[16], tutti gli scenari che non mettano in questione i fondamenti della società della crescita portano al crollo. Il primo scenario situa il crollo verso il 2030, dovuto alla crisi delle risorse non rinnovabili; il secondo lo situa verso il 2040, dovuto alla crisi dell'inquinamento; il terzo lo situa verso 2070, dovuto alla crisi dell'alimentazione. Gli altri scenari sono varianti di questi tre. Tra di essi, uno solo risulta nel contempo credibile e sostenibile, quello della sobrietà che corrisponde ai fondamenti della via della decrescita.


II Le cause: il totalitarismo produttivistico

Avvicinandosi pericolosamente il tempo del crollo, è quindi arrivato quello della decrescita! La società della sobrietà scelta, che sorgerà dalle sue tracce, permetterà di lavorare di meno per vivere meglio, consumare meno ma meglio, produrre meno rifiuti, riciclarne di più. In breve, permetterà di ritrovare il senso della misura e un'impronta ecologica sostenibile. Concepire la felicità nella convivialità piuttosto che nell'accumulazione frenetica suppone una seria decolonizzazione dei nostri immaginari, ma le circostanze possono aiutarci. Tale è la sfida di fronte alla quale ci troviamo.

Si potrebbe raccontare il destino della nostra società alla maniera di una fiaba de La Fontaine:
«Un giorno in uno stagno, e non sappiam' da dove,
Arriva l'alga verde, dilaga e tutto muore …
»,

Questo succedeva verso il 1850. L'utilizzo eccessivo di concime chimico per gli agricoltori del circondario favorisce che la piccola alga venga a diffondersi su un grande lago. Anche se la sua crescita annuale è veloce, seguendo una progressione geometrica di ragione due, nessuno se ne preoccupa. Infatti, se il raddoppio è annuo e la superficie del lago viene coperta in 30 anni, alla fine del 24esimo anno soltanto è colonizzato un 3% dell'estensione del lago! Senz'altro ci si comincia ad impensierire quando essa ha invaso la metà della superficie, facendo pesare, da quel momento, una minaccia di eutrofizzazione, cioè di asfissia della vita subacquea. Ma anche se essa ci ha messo diversi decenni per arrivare fin lì, ne basterà un solo anno addizionale per produrre la morte irrimediabile del sistema lacustre.

Abbagliato dalla proporzione geometrica che presiede la crescita economica, l'uomo occidentale ha rinunciato ad ogni misura; noi viviamo adesso precisamente l'istante nel quale l'alga verde ha colonizzato tra un terzo e la metà del nostro lago. Se non agiremo con molta velocità e decisione, la morte per asfissia ci aspetta. Adagiandosi sulla via «termo-industriale», secondo l’espressione di Jacques Grinevald[17], l'Occidente ha potuto dare corpo al suo sogno di sposare la proporzione geometrica. Il desiderio della crescita infinita si manifesta da almeno il 1750 con la nascita del capitalismo occidentale e dell'economia politica. Tuttavia, fino all'utilizzo delle energie fossili (prima del carbone, successivamente del petrolio) che mettono a disposizione di ciascuno di noi l'equivalente energetico di tra 50 e 100 schiavi, la crescita non era che quella del capitalismo, e si limitava ad un processo di distruzione della civiltà contadina e artigianale, e all'attività predatoria del capitalismo sul resto del mondo. Malgrado l'arrivo del sistema termo-industriale, la crescita ha incontrato grandi tensioni passeggere, che hanno generato crisi periodiche di sovrapproduzione. Soltanto a partire del 1950, con l'invenzione del marketing e la successiva nascita della società di consumo, il sistema ha potuto liberare tutto il suo potenziale creatore e distruttore. Ciò facendo, ha costruito le strutture della catastrofe. Ciò che si potrebbe anche chiamare il teorema dell'alga verde[18].

Assai opportunamente, il nostro tasso di crescita non è del 100% all'anno come quello dell'alga verde, ma solamente del 2 o 3%, ciò che situa il crollo e la fine della società della crescita non l'anno venturo, ma tra il 2030 e il 2070 secondo il modello sistemico del Club di Roma. Il sogno diventerà un incubo. L'hybris del padrone e proprietario della natura, la sua dismisura, ha sostituito l'antica saggezza di un inserimento in un ambiente utilizzato in modo ragionato. Il delirio quantitativo ci condanna a precipitare nell'insostenibile trascinati dall'effetto del "terrorismo degli interessi composti", secondo la bella espressione di Giorgio Ruffolo[19]. Con un incremento annuo del PIL pro capite del 3,5%, (progressione media per la Francia tra il 1949 e il 1959), si arriva a una moltiplicazione per 31 in un secolo e per 973 in due secoli, per più di 30.000 in tre secoli! Con il tasso del 10% col quale cresce oggigiorno la Cina, si otterrebbe una moltiplicazione per 13.781 in un secolo[20]! Se prendiamo in considerazione il lungo termine, con un 2% di tasso annuale di crescita –ritenuto come minimo necessario da tutti coloro che prendono le decisioni–, in 2000 anni il PIL si moltiplicherebbe per 160 milioni di miliardi! Sullo stesso periodo, con un tasso annuo di crescita del 7 per mille, ritenuto ridicolo dalle persone serie, il PIL verrebbe già moltiplicato per più di un milione; sul primo secolo sarebbe già raddoppiato, ciò che probabilmente supera quello che gli ecosistemi possono sopportare[21]. Da tempo dovremmo vivere in un vero paradiso, se la crescita producesse meccanicamente il benessere. Ma è piuttosto l'inferno ad attenderci, perché questa crescita vertiginosa è soprattutto crescita dello sfruttamento delle energie fossili, delle risorse non rinnovabili, crescita dei rifiuti e dell'inquinamento, insomma crescita della distruzione del nostro ecosistema. Persino se il tasso di crescita diminuisce, partendo da un PIL de 1000 miliardi di Euro, un magro 1% di crescita fa comunque 10 miliardi, cioè il 10 % della crescita d'un paese il cui PIL non sia ancora che 100 miliardi di Euro (ordine di grandezza di quello dei paesi del Sud). È ancora troppo poco per la rigenerazione della biosfera …

Conclusione

Se vogliamo sopravvivere alle «catastrofi del presente», è urgente riscoprire la saggezza della lumaca. Essa ci insegna non soltanto la necessaria lentezza (slowfood, slowcities) ma una lezione ancora più necessaria. "La lumaca –ci spiega Ivan Illich– costruisce la delicata architettura della sua conchiglia aggiungendo dei segmenti spirali sempre più larghi, uno dopo l'altro, fino al punto nel quale si arresta bruscamente e comincia con circonvoluzioni questa volta decrescenti. Infatti, un singolo giro addizionale della spirale farebbe la conchiglia sedici volte più grande. Anziché contribuire al benessere dell'animale, lo sovraccaricherebbe. A partire di questo momento, ogni aumento della sua produttività servirebbe soltanto per contenere le difficoltà generate da questo ingrandimento della conchiglia al di là dei limiti fissati dalla sua finalità. Oltrepassato il punto limite d'ingrandimento della spirale, i problemi della sovraccrescita si moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca non può andare oltre, al massimo, di una progressione aritmetica"[22]. Questo divorzio tra lumaca e progressione geometrica, che anch'essa aveva abbracciato per un periodo, ci mostra la via per pensare una società di "decrescita", serena e conviviale nella misura del possibile[23].


NOTE

[*] Traduzione all'italiano: Rigobaldo van der Mispel, maggio 2009.
[1] Anti-manuel d’écologie, ed. Boréal, Paris 2009.
[2] Anthony Michaelis, Impact, Science et société, n° 1 Unesco, 1982, p. 113.
[3] Dictionnaire des risques, diretto da Yves Dupont, A. Colin, Paris 2007.
[4] Fayard, Paris 1995.
[5] Citato da Grinevald Jacques, La Biosphère de l’Anthropocène. Climat et pétrole, la double menace. Repères transdisciplinaires (1824-2007), Georg, Genève 2007. p. 81
[6] Il Club di Roma ha prodotto a continuazione, sempre sotto la direzione di Dennis Meadows: Beyond the limits. Confronting Global Collapse, Envisioning a Sustainable Future, Chelsea Green Publishing 1992 e Limits to Growth : the 30 year Update, Chelsea Green Publishing 2004.
[7] René Dumont, À vous de choisir, L’écologie ou la mort, Pauvert, 1974.
[8] Dichiarazione di ventidue biologhi, nella loro maggior parte statunitensi, denunciando i pericoli dei prodotti chimici.
[9] Dichiarazione internazionale istigata dal professore Belpomme, per dare l'allerta sui pericoli sanitari generati dalla crescita economica.
[10] Millennium Assessment Report, Living Beyond Our Means: Natural Assets and Human Well-Being, http://www.miellenniumassessment.org. Si tratta di un rapporto delle Nazioni Unite basato sui lavori di 1360 specialisti di 95 nazioni, pubblicato a Tokyo il 30 marzo 2005, che dimostra che l'attività umana eccede la capacità di rigenerazione degli ecosistemi fino al punto di compromettere gli obiettivi economici, sociali e sanitari fissati dalla comunità internazionale per il 2015.
[11] Hulot Nicolas (Fondation), Pour un pacte écologique. Calmann-Lévy, 2006.
[12] Richard Leakey e Roger Levin, La Sixième Extinction: évolution et catastrophes, Flammarion, Paris 1997 .
[13] Edward O. Wilson stima che siamo responsabili della sparizione ogni anno di tra 27.000 e 63 000 specie. The diversity of Life, Belknap Press, Harvard, 1992 (La diversité de la vie, Odile Jacob Paris, 1993).
[14] François Ramade, Le grand massacre. L'avenir des espèces vivantes. Hachette, Paris, 1999.
[15] Dominique Belpomme, Ces maladies créées par l'homme, Albin Michel, 2004.
[16] Vedasi Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorden Randers, Limits to Growth The 30-year Update, Chelsea Green Publishing, 2004 e Christian Araud, Modèliser le monde, prévoir le futur, Entropia, Revue théorique et politique de la décroissance n°4, Parangon, Lyon 2008.
[17] Grinevald Jacques, La Biosphère de l’Anthropocène. Climat et pétrole, la double menace. Repères transdisciplinaires (1824-2007), Georg, Genève 2007.
[18] Variante del paradosso della ninfea di Albert Jacquart. Albert Jacquart, L'équation du Nénuphar (Calmann-Levy, 1998).
[19] Ruffolo Giorgio, Crescita e sviluppo: critica e prospettive. Falconara/Macerata 8/9 novembre 2006.
[20] Bertrand de Jouvenel, Arcadie, Essai sur le mieux vivre. Paris, Sedeis, 1968. Jean-Pierre Tertrais, op. cit, p. 14.
[21] André Lebeau, L’engrenage technique, (Gallimard) pp. 154-155.
[22] Ivan Illich, Le genre vernaculaire, in Oeuvres complètes tome 2, Fayard 2005. p. 292.
[23] Vedasi il nostro libro «Petit traité de la décroissance sereine» Mille et une nuits, Paris 2007.

lunedì 18 maggio 2009

A Rigobaldo van der Mispel − una epistola politica

Jacob in stoel / Jacob on a chair, 2003, di Maarten Wetsema (http://www.maartenwetsema.nl/)

Caro Rigobaldo, Cari Rigobaldo,

qui cominciano subito le difficoltà, perché tu sei uno e plurimo come il buon dio. Inoltre, a differenza di lui, sei in numero variabile e per giunta capita talora che faccia parte di te anche lo scrivente, cioè io, nel qual caso mi troverei a corrispondere per lettera −per ‘epistola politica’− con me stesso. Nell’accezione più ristretta, Rigobaldo è uno di noi, in un’altra un ente astratto e sarebbe ancora più strano scrivergli una lettera. Ma le stranezze non finiscono qui. Che cosa avrei da scrivergli che lui già non sappia o che non potrei dirgli a voce? E una cosa che pensassi per conto mio, sarebbe pensata anche da lui o no? E una cosa che pensasse lui, la penserei anch’io? Leggere di più ...

Il problema è di natura alquanto generale: è pensabile un pensiero pensato dal singolo che non sia pensabile o già pensato dal pensiero umano? In altre parole è l’individuo a pensare o la specie attraverso di lui?

Ho forse ampliato la pluralità di Rigobaldo oltre il lecito. Mi ritiro ora entro gli abituali confini, riservandomi ogni tanto una sbirciatina al di là di essi.

.......

Stiamo da qualche tempo lavorando insieme, noi Rigobaldo, e, se lo facciamo, vuol dire che sappiamo perché, per qual fine. Ma questo fine è unico, fermo, immutabile? Oppure è ampliabile come la pluralità di Rigobaldo?

Inizialmente si era inteso fare un poco d’ordine in un certo archivio e dare visibilità a una produzione che, a detta di alcuni, lo meriterebbe. Poi ci si è accorti che questa produzione conteneva spunti condivisibili, anzi utili forse ad affrontare parte dei problemi che l’attualità ci pone. Il progetto primo è andato quindi assumendo una coloratura politica non necessariamente partitica, che ha portato Rigobaldo a ricercare un dialogo, il più partecipato possibile, con la società. Ne sono nate alcune iniziative mediatiche che lo hanno avvicinato a movimenti, in Italia e fuori, che cercano di promuovere, nella generale acquiescenza al consumismo irriflesso, una coscienza socialmente ed ecologicamente critica. Parallelamente a ciò, Rigobaldo ha coltivato rapporti di buon vicinato con il Centro di Ricerca e Sperimentazione Metaculturale, cui lo lega un comune componente e un comune indirizzo politico (nel senso sopraricordato). Dico questo, ovviamente, non a uso interno ma per informare gli eventuali lettori esterni (se questa lettera dovesse essere pubblicata su internet) di cose che Rigobaldo conosce benissimo.

Ora però vorrei proporre una riflessione interna −per altro aperta anche a contributi esterni− sul nostro immediato domani. Perché ‘immediato’? Semplicemente perché personalmente non posso permettermi il lusso −data l’età− di partecipare a progettazioni di lungo termine. Queste spetteranno a una diversa composizione di Rigobaldo entro una società che spero profondamente cambiata.

Presumo che nell’immediato domani −di cui peraltro non è prescritta la durata− Rigobaldo si muova ancora nell’ambito di IMC (dell’Ipotesi Metaculturale). Ne consegue che anche le successive riflessioni, per essere correttamente intese, vadano riferite a quell’ipotesi, fuori della quale potrebbero apparire addirittura prive di senso.

È probabile che lo staff Rigobaldo, per variabile che sia, sappia perché sta dando credito a IMC nonostante le evidenti difficoltà che quest’ipotesi incontra nella sua diffusione. Queste difficoltà dipendono:
− da intrinseca debolezza?
− da poca chiarezza nella formulazione?
− da scarsa aderenza ai problemi dell’attualità?
− da incapacità nostra e del Centro Metaculturale a incentivarne la diffusione?
da un radicale rifiuto da parte della società?

Non è la prima volta che ci poniamo queste domande. Come Centro Metaculturale ce le poniamo anzi da una trentina di anni. Ciò non toglie che sarebbe bene continuare a farlo, se non vogliamo che IMC da ipotesi critica si trasformi in dogma, per giunta inascoltato. Credo che, come per il passato, IMC abbia bisogno di una continua verifica, sia attraverso la pratica culturale di base sia nel confronto teorico con altre posizioni filosofiche ed epistemologiche. Finora le verifiche hanno dato esito positivo e hanno registrato innumerevoli convergenze anche in ambiti specialistici, ma la vita di IMC, come di qualsiasi ipotesi, dipende dalle verifiche di domani, non da quelle di ieri. Va anche detto che la più disinteressata delle fiducie ha dei limiti di sussistenza, oltre i quali resta inerte, avviata alla sclerotizzazione ideologica. Il problema della diffusione resta quindi vitale per IMC. Ma perché le diamo credito? Perché affannarci a diffonderla?

Che l’ipotesi sia debole siamo i primi a saperlo. Pensiamo anzi −e già molte anni fa era apparso chiaro− che IMC rappresenta il punto più basso del cosiddetto ‘pensiero debole’. Si tratta tuttavia di una ‘debolezza’ assai più resistente ai colpi del relativismo assoluto (‘tutto è relativo’) che non la ‘forza’ di un pensiero ‘forte’. Non è quindi la debolezza di IMC a preoccuparci, ché anzi è una delle ragioni per cui vorremmo fosse sperimentata su più larga scala. In tempi recenti il Centro Metaculturale le ha aperto nuovi campi applicativi e anche tu, Rigobaldo, ne stai promuovendo la conoscenza oltre i confini nazionali. Forse ciò che ci manca, e a me in particolare, è la pazienza. Il rivolgimento culturale collegato con l’accettazione, benché provvisoria, di IMC non è di quelli che avvengono in un giorno, un anno o un decennio. È anche possibile che lo stiamo vivendo già da un secolo o più ancora, per esempio da quando Darwin ha enunciato la sua teoria evolutiva o Nietzsche ha proclamato la morte di Dio o Einstein ha formulato la teoria della relatività. Nel gergo che ci è abituale parliamo, per la specie umana, di ‘transizione dallo stadio culturale a uno stadio metaculturale, caratterizzato, appunto, da riflessività metaculturale’.

Non è questo il luogo per richiamare alla mente cose che sappiamo benissimo e tanto meno per tentare maldestramente di illustrarle a chi non le sa. C’è invece da chiedersi se non vi sia, da parte della società, un rifiuto di principio, contro il quale nessuna ragione potrebbe alcunché. Una domanda che oggi rischierebbe effettivamente di spiazzarci: “qual è il ‘valore di mercato’ di IMC?”

Qui casca l’asino, perché il valore di mercato di IMC è prossimo allo zero. E oggi avere un valore di mercato prossimo allo zero equivale a non esistere. A chi ci domandasse a ché si deve il fatto che IMC ha un valore di mercato così basso risponderemmo: per la semplice ragione che per noi è il mercato ad avere un valore assai basso. Forse perché è alto il suo valore ideologico e noi siamo diffidenti verso i valori ideologici? Ma il mercato è ideologico solo in seconda battuta; in prima il suo valore è economico, pecuniario: produce ricchezza e oggi è questa che sta soffocando il nostro pianeta e chi lo abita. Si obietterà che non siamo noi (quella parte di noi che lo è) a essere ricchi (è proprio la Terra con ciò che ha e produce). Na ciò che ha e produce non è ‘ricchezza’; lo diventa solo quando ce ne appropriamo noi, e sta a noi farlo diventare un’altra cosa, un altro ‘valore’. Esistono valori che non siano ideologici e neppure economici? Per IMC uno ve n’è, anch’esso ideologico ed economico, tuttavia irrinunciabile per la maggior parte degli uomini, e per cui IMC è stata formulata: la sopravvivenza. E con questa ovvietà vi/ci saluto con affetto,

Cantalupo, 16-V-2009

lunedì 11 maggio 2009

Cosa vedi quando fai una passeggiata pomeridiana nel sentierino davanti a casa tua?

Eccoci di nuovo, vi proponiamo questo articolo scritto da Boris pubblicato sul sito della Decrescita Felice in data 28 Aprile 2009.


di
Boris Porena

Il guaio è che vedo sempre meno cose. Le montagne stanno sempre lì, le case degli uomini, ahimé, sono sempre di più, gli insetti, ahinoi! tendono a scomparire. Seguo il fenomeno da molte decine di anni in quanto sono collezionista di coleotteri dal 1940. Questa sparizione si è fatta catastrofica - almeno per quanto posso vedere - negli ultimi tre anni. Sia io che i miei colleghi ne parliamo invero da una trentina di anni ma la rarefazione degli individui e delle specie ha seguito un andamento esponenziale che appunto negli ultimi anni è diventato preoccupante. Lo sarebbe già se riguardasse solo il mondo degli insetti - di cui la nostra cultura non si preoccupa granché, anzi, ha contribuito allo sterminio nei modi che sappiamo-.

Sarebbe già un sintomo assai grave di deterioramento dell’ambiente ma un attimo di riflessione ci porta a concludere che questa sola sparizione finirà per avere vistose conseguenze negative anche in altri campi (impollinazione, biodiversità, alimentazione di uccelli, rettili, mammiferi ecc.).
Per quanto le nostre osservazioni siano state e siano alquanto accurate, non posso essere sicuro che il fenomeno non sia limitato alle poche aree visitate dagli entomologi di mia conoscenza. Sarei quindi, o meglio saremmo assai grati a chiunque volesse confermare o smentire questa nostra non superficiale impressione.

Boris Porena
borisporena@gmail.com

mercoledì 6 maggio 2009

Metaparola "Aggressione"

Continua sul blog specifico delle Metaparole l'aggiunta di nuove elementi di questa opera recente di Boris, di prossima pubblicazione integrale.

Proponiamo oggi qui -con una videoillustrazione un tantino dissacrante- la metaparola aggressione.




Con una stessa parola designiamo comportamenti alquanto diversi. Un leopardo 'aggredisce' un’antilope per nutrirsi. Un essere umano ne aggredisce un altro, ma raramente per mangiarlo. Semmai per derubarlo. Il che peraltro in certi casi equivale all'azione del leopardo, in quanto gli permette di sopravvivere. Ci sarebbe da domandarsi chi o che cosa gli impedisce la sopravvivenza; e si scoprirebbe che sono altri uomini. E la sua aggressione sembrerebbe allora più giustificata di quella del leopardo, cui l’antilope non impedisce nulla, semmai gli si offre come preda.
Leggere di più ...Comunque non diremmo che un uomo 'aggredisce' un piatto di insalata o una capra l'erba di un prato. Tutt'al più si tratterebbe di un'espressione metaforica per significare la voracità del comportamento nutrizionale. Se quindi compariamo la parola con l'azione che essa designa, vediamo che la parola è una, cui corrispondono però azioni diverse e diversamente interpretabili. È un fatto di tutta normalità, ma non sempre riconosciuto. Usiamo le parole essenzialmente per capirci ma non di rado sono le parole stesse che fanno sì che non ci capiamo. Quando vediamo dei banditi aggredire una banca, percepiamo la violenza dell'azione, ma non ne comprendiamo il senso: è necessità di sopravvivenza, è voracità di chi, avendo, vuole di più, è sete di giustizia sociale, è fanatismo politico? L'aggressione resta sempre aggressione come parola, ma il fatto significato può essere di volta in volta un altro. Anche la legge non si ferma alla parola e cerca di andare oltre. IMC* può darle una mano, come può dare una mano ogni volta che le parole ci impediscono di capirci.

* IMC: Ipotesi Metaculturale

Ringraziamo Eva Serena per il cortese contributo editoriale.

lunedì 4 maggio 2009

Cinquant'anni or sono ...

Proponiamo oggi un articolo del giovane Porena di più di mezzo secolo fa. Gli amatori della musica apprezzeranno le testimonianze degli incontri con Adorno, Stockhausen … ma anche la solida valutazione, allora non del tutto condivisa, che esprime su Hindemith, Nono, Webern. Gli amatori del pensiero apprezzeranno le maniere dell’articolo, già inizialmente metaculturali, dove spicca la sobrietà critica con la quale un compositore ancora alle prime armi 'agisce e reagisce' davanti ad un incontro altocolto, di enorme prestigio.


I Ferienkurse di Darmstadt

Si sono svolti quest’anno a Darmstadt, dal 16 al 28 luglio, per la dodicesima volta, i Ferienkurse für Neue Musik. I corsi, istituiti nell’immediato dopoguerra dal Dott. Wolfgang Steinecke e posti sotto l’egida del Kranichsteiner Musikinstitut, hanno potuto ancora arricchire, rispetto agli anni precedenti, il loro programma grazie alla fusione di essi con l’iniziativa dell’Ente radiofonico dell’Assia: «Tage für Neue Musik».
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La magnifica organizzazione che ha regolato l’andamento delle manifestazioni, ha permesso a più di quattrocento musicisti di ogni nazione e continente di assistere, liberi da ogni preoccupazione materiale riguardante il vitto e l’alloggio, nella sicurezza che solo una grossa busta piena di biglietti, tagliandi, marche e contromarche può dare, ad una serie di concerti e manifestazioni così suddivise: 2 concerti orchestrali, 7 da camera, 10 tra conferenze e dibattiti; tutto ciò oltre i normali corsi di pianoforte, violino, flauto, composizione.

Nei varii concerti, sia orchestrali che da camera, sono state eseguite tra l’altro anche molte musiche di autori italiani e precisamente di Luciano Berio, Aldo Clementi, Franco Evangelisti, Giacomo Manzoni, Camillo Togni. A queste esecuzioni effettive vanno aggiunte l’audizione di una registrazione del Canto sospeso di Luigi Nono (di gran lunga la più bella cosa che si sia potuta udire quest’anno a Darmstadt, comunque un’opera di primo piano che meriterebbe di essere largamente conosciuta anche da noi) e l’audizione di musiche elettroniche dei Maestri Berio e Maderna, composte nello Studio di Fonologia della radiotelevisione italiana a Milano.

Ad un uditore profano, l’aspetto fonico complessivo dei concerti di Darmstadt sarebbe apparso forse poco differenziato, monocolore, di un «grigio topo» insomma, ma è un fatto che gli uditori profani a Darmstadt non sono rappresentati. Le musiche eseguite, a parte i due concerti dedicati a grandi autori della generazione passata (con severa esclusione di Paul Hindemith), erano tutte di giovani autori seguaci della tecnica seriale, soprattutto della corrente dei postweberniani. Il panorama della situazione della musica contemporanea è stato presentato così, non nella sua interezza, ma in modo assolutamente bastevole a caratterizzare un determinato settore.

Tra le conferenze erano particolarmente attese quelle del Prof. Theodor Wiesengrund Adomo. Quattro conferenze di due ore l’una, tenute a braccio e con incredibile bravura, hanno ampiamente soddisfatto l’attesa del colto pubblico. L’illustre Professore ha riconfermato la sua diffidenza verso gli esperimenti più estremi dei giovani seriali, non tanto per il loro estremismo, quanto per l’assenza messi di quella intima forza dello spinto che aveva spinto a suo tempo Arnold Schoenberg ad opporre alla tradizione il suo tragico no; i giovani seriali postweberniani avranno avuto sicuramente i loro dubbi sulla genuinità del no di Schoenberg alla tradizione, comunque non hanno osato cimentarsi con la scaltrissima dialettica di Adorno.

La parte più interessante dei Ferienkurse era rappresentata però dai corsi stessi. Mi è impossibile qui accennare anche brevemente a tutti i cicli di lezioni che sono stati tenuti quest’anno a Darmstadt; mi limiterò così ai corsi per compositori e, anche tra questi, solo ai più caratteristici.

Luigi Nono, il già ricordato autore del Canto sospeso, ha dedicato le sue lezioni ad un’analisi più che accurata, direi quasi scientifica, delle Variazioni op. 31 di A. Schoenberg; Hermann Scherchen e Henry Pousseur (un giovane compositore belga di cui si è potuta ascoltare tra l’altro anche una strana ed un po’ equivoca composizione elettronica) hanno analizzato l’opera di Anton Webern integrando il loro dire con audizioni di musiche di questo grande autore, in Italia considerato assai a torto come un più o meno pedissequo seguace di Schoenberg. Ma la personalità che più si è imposta all’attenzione di tutti, colui che è ormai da considerarsi come il Führer dei musicisti dell’estrema seriale, il compositore che, un po’ per il suo fascino personale, un po’ per il fascino delle sue teorie filosofico-fisico-matematico-musicali, riusciva sempre a riempire fino all’ultimo posto l’aula riservata alle sue lezioni, costui è Karlheinz Stockhausen. Dovendo rinunciare per ragioni di spazio a soffermarmi oltre sulle sue affermazioni teoriche, accennerò solamente alla musica frutto dell’applicazione dei teoremi stockhauseniani. Oltre il già noto pezzo elettronico Gesang der Jünglinge, si son potuti udire di lui il quintetto Zeitmasse per strumenti a fiato, eseguito in maniera superlativa dal quintetto a fiati della Radio di Colonia e accolto quasi trionfalmente dal pubblico internazionale di Darmstadt, e il Klavierstück XI che ha riscosso alquanto minori simpatie.

In ambedue questi lavori la libertà dell’interprete o degli interpreti, propugnata come ultima scoperta da Stockhausen, si spinge fino alla soglia dell’arbitrarietà non più controllabile, anzi non esita talvolta a sorpassarla. Il risultato fonico può sembrare, al solito profano, assai simile a quello dei pezzi composti dallo stesso autore con il calcolo più preciso.

Comunque si voglia valutare il fenomeno Darmstadt, non è però da disconoscergli un posto di primaria importanza nella civiltà musicale contemporanea, non solo per la sua “azione” sulle giovani generazioni, ma anche per la “reazione” che non può mancare di suscitare forse anche nelle medesime giovani generazioni.

Pubblicato in
Ricordiana
Rivista mensile di vita musicale
Anno III, N. 9 Novembre 1957, pp. 514-515

mercoledì 29 aprile 2009

Dentro la parola ... crisi:

Il Gruppo di lavoro Rigobaldo colpisce ancora, l'ultimo articolo pubblicato il 17 Aprile sul sito della Decrescita Felice conferma un'attività costante e partecipativa! Invitiamo tutti i nostri amici del Blog a commentare sia qui sia sul sito della Decrescita Felice, gli argomenti sono tanti ed interessanti.

Dentro la Parola ... Crisi:

Crisi d’identità, crisi economica, crisi finanziaria, … crisi di coppia, rapporti in crisi … crisi demografica, crisi creativa, crisi esistenziale. Crisi come momento di difficoltà, o presunto tale. Individuale o collettiva, fisica o emotiva; naturalmente un aspetto influenza l’altro. “Sono in crisi”: espressione comunissima che può derivare anche da piccole difficoltà della vita quotidiana. In essa c’è qualcosa che non va, che ci fa sentire a disagio: da una crisi si vuole uscire, e al più presto.

Gli universi, le società, gli individui sono complessi, e i costituenti di questa complessità non sono coordinati tra loro, cosicché c’è sempre qualche parte dell’uno o dell’altro che è in crisi: una supernova in una galassia, una rivoluzione in una società, un individuo con 40 di febbre.
Localmente considerate le crisi sono quindi situazioni transitorie, dalle quali spesso si esce, in un modo o nell’altro. Se le consideriamo invece nella totalità delle cose, sono probabilmente continue; anche se sono assenti da un luogo , stanno capitando in altri.
Oggi parlando di crisi, è quasi inevitabile un sussulto, una sensazione di angosciante unicità. Ma sfogliando un qualsiasi giornale o libro di storia, la parola ‘crisi’ la troviamo dappertutto: crisi dell’Ancien Régime, crisi della borghesia, delle ideologie, del commercio mondiale, dell’industria tessile in Brianza, del dollaro, dell’acqua …
Ma che vuol dire ‘crisi’ ?

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Dal latino crisis, indica un punto di svolta, un cambiamento di rotta in un processo fino a quel punto unidirezionale. Esempio: in una crescita economica ritenuta inarrestabile, un improvviso arresto seguito da inversione. Il lettore avrà capito che l’esempio non è stato scelto a caso.

Sembrerebbe che qualcosa vada in crisi quando non è più come prima: “stavo con Gigi, ora Gigi mi ha lasciato, sono in crisi”. Implicita nel sentirsi in crisi c’è quindi una valutazione positiva dello stato precedente. Nella crisi ci siamo cascati all’improvviso -tante volte ci sono dei segnali, ma non li vogliamo proprio ascoltare. Stiamo male! Vorremmo tornare a com’era prima, o se non è proprio possibile comunque a qualcosa di meglio!

Se avviene un mutamento incontrollato il malessere è inteso come perdita di ciò a cui siamo abituati, e che vorremmo rimanesse uguale. I punti fermi stanno venendo meno, viviamo una situazione di difficoltà, non riusciamo a formulare nuove ipotesi, a riaggiornarci, e rimaniamo legati alla nostra idea che però non trova riscontro nella realtà. “Crisi” sembra legata all’incertezza: una situazione di grande difficoltà ma nel contempo a noi molto chiara, ben definita nell’analisi e nei possibili sviluppi, difficilmente la descriveremmo come crisi.

Nel caso della ‘nostra’ crisi attuale la situazione pare chiara, le voci si levano numerose: così non si può andare avanti, colpa di una finanza scellerata, del liberismo, colpa dei cinesi, delle banche… Soluzioni: ci vogliono più ammortizzatori sociali, incentivi al consumo, bisogna alzare i salari, fare più figli per rimpolpare il sistema previdenziale, creare occupazione, investire sulle infrastrutture per rilanciare il sistema-Paese. Da molte parti si levano soluzioni definitive per uscire dalla crisi. Finalmente. Funzionerà?

Bisogna dare nuova linfa al sistema così come lo conosciamo? Forse stiamo ancora pensando a Gigi!?

nche l’Europa degli anni ‘30 del secolo scorso entrò in crisi e sappiamo come ne uscì: buttiamo due bombe e ricostruiamo. Oggi il mondo intero è in crisi, l’avvertiamo nel nostro stesso modo di pensare, nel nostro vivere quotidiano, e un’uscita analoga a quella di ieri potrebbe non essere auspicabile (ammesso che ieri lo sia stato). E’ difficile, dopo due guerre mondiali come le abbiamo sperimentate a casa nostra e osservate altrove, non essere catastrofisti. Ma la via attraverso la catastrofe non è una strada obbligata. Durante una crisi, un momento di difficoltà, possono esserci atteggiamenti differenti. Ci si omogeneizza, unendosi e coalizzandosi. Si amplifica l’egoismo e si esasperano le differenze tra le diverse parti, essa infatti può anche imbarbarire: “mi hanno privato di qualcosa, adesso che posso averla la ingurgito senza limiti, morte tua vita mia”.

C’è chi dà un’interpretazione positiva, ottimistica al concetto di crisi. Essa produrrebbe una sana sofferenza che fortifica, tempra il carattere, rafforza la determinazione sociale o individuale. In questa visione sarebbe la sofferenza di per sé a migliorare le cose. Allora viva la sofferenza?!

Per quanto ci riguarda essa può avere una componente formativa, ma non di per sé: necessita un momento di riflessione. Non vi è dubbio che una crisi metta alle strette, con le spalle contro al muro, costringendoci a rivedere alcuni punti fermi. Forse solo in queste situazioni riusciamo a mettere in discussione, riesaminare, relativizzare principi e abitudini fino a quel momento indiscutibili.

Un’evoluzione del pensiero dovrebbe svilupparsi proprio in questa direzione, per non giungere a situazioni estreme tentando di uscirne all’ultimo: un giochino piuttosto rischioso. Crisi allora come riconoscimento del continuo mutamento di tutto quanto ci sta attorno, e di noi stessi?

Alla prossima puntata!

Gruppo di lavoro Rigobaldo (Valentina Aveta, Alessandro De Rosa, Francesco De Rosa, Gianfranco De Rosa, Boris Porena, Fernando Sánchez)

lunedì 27 aprile 2009

Ricordi di una città nel cielo ...

Ci segnala la nostra amica Claude Cazalé-Berard un articolo della professoressa Laura Benedetti sul Washington Post che ha fatto il giro della blogosfera, Memories of a Town in the Sky. In questo articolo l'autrice descrive le sue emozioni come aquilana, dalla distanza degli Stati Uniti, nei giorni del recente terremoto.


Lo proponiamo -in versione originale- sottolineando alcuni aspetti che secondo noi sono degni di attenzione. I punti di riferimento che diamo per scontati; il fatto che la realtà venga data per scontata, addirittura non percepita, se non arriva qualche disastro che ce la metta in evidenza; la visione dell'Italia da una realtà lontana come gli USA ...

Sembra che ci rendiamo conto che le cose esistono solo quando ci sconvolgono completamente! Evviva il terremoto, allora? Cosa ne pensate?

venerdì 24 aprile 2009

Salvator mundi


Fin da piccolo suo chiodo fisso era stato salvare il mondo.
Salvarlo da chi?, da che?
Da Dio.
Da un dio prepotente, vendicativo, sempre adirato eppure corruttibile e parziale, capace di condannare intere generazioni per il furto di una mela, o di affogare i popoli della terra salvo un gruppetto di amici suoi disposti ad adularlo senza limiti ...
Un dio che pochi amavano ma di cui tutti avevano paura.
Salvare il mondo ... affare non semplice con un dio di quel genere. Ma non era tanto Dio l’ostacolo da superare. In fin dei conti, le malefatte che gli si attribuivano potevano non essere tutte opera sua. Gli uomini vi avevano certamente la loro parte. Forse la storia della mela non era neppure vera e, quanto al diluvio, vi avevano certo contribuito anche le deità vicine, Baal, Marduk, Ahura Mazda ecc. Leggere di più ...

Ne parlava sempre a tavola, con mamma e papà. Loro però non sapevano bene che dirgli, lui un semplice falegname, lei una donna del popolo, intelligente sì ma senza istruzione. Fu comunque la madre a mandarlo a chiedere consiglio al Sinedrio: “Quelli se ne intendono” gli aveva detto. Lui però si accorse subito che quelli non avevano nessuna intenzione di aiutarlo. E fu così che si ritirò per un lungo periodo di studi e riflessioni. “E’ andato nel deserto” dicevano i genitori agli amici che venivano a cercarlo. Ma lui se ne stava in stanza sua a studiare e riflettere. Sembra che di tanto in tanto venisse un tale, un buon diavolo, a tenergli compagnia. Dopo lungo studiare e riflettere, un bel giorno se ne uscì dalla sua stanza, bello e vigoroso come un dio. “Eureka!” −gridò (aveva anche imparato un po’ di greco)− “sono pronto a salvare il mondo”. “E come farai?” domandarono impauriti i genitori. “Lo vedrete” −fu la risposta− “il mondo vedrà et stupebit” (un po’ di latino lo masticavano tutti nella colonia romana).
Il progetto era stato pensato in tutti i dettagli.
Per prima cosa si trattava di attirare l’attenzione di vasti strati della popolazione e per questo servivano i miracoli. Con l’aiuto di qualche amico −ne aveva una dozzina− non doveva essere difficile farne in un paese abituato a credere nei prodigi di qualsiasi tipo. Serviva poi una capillare attività di predicatore per città e campagne, che però non si limitasse a convincere la gente semplice e illetterata, ma irritasse anche la casta sacerdotale, custode di una ‘verità’ ormai stantia e ammuffita.
Ma il vero colpo di genio fu questo: per fare fuori il vecchio Dio e gli altri suoi pari non c’era che prendere il loro posto e farsi uccidere dagli stessi fedeli, che con quell’atto avrebbero conquistato −questa era la sua convinzione− la loro autonomia.
[Il narratore apre a questo punto una breve parentesi. Quasi duemila anni più tardi ci fu chi rinnovò il tentativo prendendo in prestito una figura ancora più antica, poi sostituendosi ad essa in un Ecce homo crocifisso dalla follia.]
Il piano fu realizzato con scrupolosa precisione. Tutto andò per il meglio. Si trovò anche tra gli amici uno disposto a sacrificare, per i secoli a venire, il suo buon nome nella parte del ‘traditore’. Il clero cadde nella trappola e si pronunciò per la condanna a morte. Per un attimo tutto sembrò naufragare per una energica opposizione dell’esecutivo politico, costretto poi a cedere alla piazza, ormai inconsapevolmente coinvolta nell’astuto piano.
Certo l’esecuzione di quel piano non fu una passeggiata per il kamikaze ante litteram, obbligato a fare i conti con una giustizia crudele e vendicativa (come crudele e vendicativo si era mostrato per secoli il Dio che il libero arbitrio e la volontà di un uomo stavano ora eliminando ...). Le leggi e il costume dell’epoca imponevano un trattamento a cui nessun odierno kamikaze si sottoporrebbe per sua scelta. Lui però ‘sapeva’ e aveva messo in conto ogni cosa fino alla famosa ‘hora nona’.
Factum est. Realizzato il grande progetto. Gott ist tot ... nil factum. Fallito il grande progetto. Abbiamo un nuovo Dio. Anzi, come Lui stesso ha detto, è il Figlio di Dio.
Tradimento! E chi è il traditore? Non certo quel poveretto che, prevedendo come sarebbero andate le cose, si è impiccato. Traditori gli altri undici, o semplicemente incapaci di comprendere − traditori gli uomini, tutti, che hanno rifiutato il più grande dei doni: il dono dell’autonomia?

25-VIII-008

lunedì 20 aprile 2009

Ma la utilizziamo, quest'intelligenza?

Sentiamo quello che Boris pubblicava sull'Unità trentun'anni or sono ...



L’articolo di Zorzoli, pubblicato sull’Unità del 15 giugno [1978] con il titolo "L’intelligenza che utilizziamo", offre buoni motivi di riflessione non solo a chi si occupa di ricerca e programmazione scientifica, ma anche a tutti coloro che lavorano dentro l’attuale crisi culturale e sociale, attenti agli orientamenti evolutivi che in essa si vanno delineando. “L’utilizzazione ottimale di tutta l’intelligenza disponibile” è uno degli obiettivi cui cominciano a tendere le metodologie di ricerca, di programmazione e conseguentemente le didattiche di base che a quelle devono fornire il necessario sostegno. Leggere di più ...

Questo non per acquetare la cattiva coscienza del privilegio con populistica elargizione di cultura e di strumenti culturali né per un astratto ossequio all’idea –all’ideologia– democratica, ma per una spinta trasformazionale inerente allo stesso sistema in cui viviamo e di cui –ci piaccia o meno– siamo parte. Non la benevola disponibilità degli uomini di scienza sta oggi inducendo il “nuovo sviluppo” di cui parla Zorzoli, ma la stessa struttura dei problemi sul tappeto, la loro interna articolazione sociale e il concorso dì competenze che essi reclamano. Scrive Zorzoli che la “meritoria funzione di supplenza” –esercitata dallo scienziato, ma si potrebbe dire dall’intellettuale in genere– “non basta più”; ciò che oggi appare indispensabile è il “coinvolgimento, fin dal momento della definizione degli obiettivi, non solo del mondo scientifico ma anche dei potenziali committenti ed utilizzatori dei prodotti della ricerca stessa (imprenditori, lavoratori e loro organizzazioni, regioni, enti locali ecc.)”, giacché “non esiste un ‘prima’ e un ‘poi’, la soluzione ottimale consistendo nella contemporanea e continua interazione e confronto fra scelte programmatiche nazionali ed elaborazioni dì domanda ed offerta di ricerca nelle sedi specifiche (tecniche, economiche, sociali, istituzionali)”.

Il discorso di Zorzoli, che in qualche modo implica una revisione dei tradizionali ruoli fondati su specifiche competenze, appare accettabile senza grossi traumi per il lettore medio come per lo specialista di un qualche settore produttivo dell"industria, salvo poi scontrarsi con ovvie resistenze nel mondo imprenditoriale e del privilegio, p.es. universitario. Proviamo tuttavia a trasferirlo in un ambito assai diverso, non direttamente legato a fatti economici e per tradizione inteso come “sovrastrutturale”, cioè solo mediatamente partecipe delle trasformazioni sociali. Proviamo a trasferirlo nell’ambito della cultura, patrimonio ‘spirituale’ dell’individuo e della collettività, sede elettiva (anzi ‘eletta’) di processi di rispecchiamento –di ‘sublimazione’– del reale. Prendiamo ad esempio la musica: quanti operatori del settore, quanti musicisti sono oggi disposti, non si dice a deporre ma solo a verificare nel sociale ima delega di rappresentatività che non si sa bene quando e come gli sia stata conferita? Si adducono a difesa di questa rappresentatività le peculiarità tecniche, l’alta specializzazione del discorso musicale, come se tecnica e specializzazione non si siano sviluppati proprio in funzione della rappresentatività o privilegio, a delineare una figura quasi magica di musicista, unico depositario del simbolo musicale e dei suoi modi di organizzazione.

Ma la scienza nei suoi vari rami –dalla fisica alla biologia alle attuali discipline orizzontali (semiotica, cibernetica, teoria dei sistemi)– è forse meno specializzata, meno tecnicamente complessa della musica? Eppure la pressione determinata dall’esigenza di una programmazione a largo concorso di competenze –utilizzante cioè tutti i cervelli disponibili– rende oggi plausibili ipotesi come quella espressa da Zorzoli. L’autogestione della scienza non è più un modello di sviluppo attendibile, così come non lo è l’autogestione dì un qualsiasi settore della cultura, musica compresa. Ma le ipotesi oggi emergenti, fondate sul coinvolgimento, richiedono, per diventare concreti modelli alternativi, una consapevolezza culturale di base non più compatibile con l’immagine –marxianamente classica– di una cultura sovrastrutturale, riflettente (caratteristica probabilmente soltanto della fase matura dell’era borghese-industriale). Esperimenti condotti in varie parti del mondo industrializzato rispondono positivamente alle ipotesi leggibili nelle richieste di partecipazione che la società non si stanca di avanzare a tutti i livelli. Le stesse ricerche di semiotica musicale, addirittura di tecnica compositiva, non sono più attuabili come pura attività di laboratorio, ma reclamano, in connessione con quella, l’utilizzazione sul campo di tutte le capacità analitiche e organizzative di tutte le intelligenze –e sono in numero sempre crescente– che vorranno rendersi disponibili.

In un modello di società che subordina al discorso economico tutti gli altri con vario grado di essenzialità, l’autogestione dei singoli settori della cultura può ancora avere un senso, soprattutto se serve di copertura a chi gestisce il discorso principale; in un modello diverso, fondato sull’integrazione organica ed “ecologica” di tutti i sistemi relazionali e comunicazionali che la società istituisce in sé stessa e con l’ambiente, in un tale modello anche la cultura non potrà che raccordare i suoi più alti livelli di competenza con la base (base analitica e sociale a un tempo) e su questa fondare adeguate metodologie di intervento e di scambio informativo. Il problema è, al solito, politico, un problema su cui si registrano pericolosi ritardi, ma che ancora siamo in tempo ad affrontare dovunque si manifesti, a cominciare dalla scuola.
Raccolto in "Per una pianificazione culturale del territorio", pubblicato dal Gruppo Ricerca Culturale di base Università e Territorio", pp. 91-93, Roma 1978.

martedì 14 aprile 2009

Parabola ' Ruoli '

Appuntamento del lunedì? Questa settimana di martedì...

Proponiamo una delle parabole di Boris in formato audio: Ruoli .





'Gliel'avevano ammazzato proprio sotto casa e lei aveva visto tutto ...'

'... assoluzione per ragionevole dubbio ...'

'... coltivare ogni giorno il suo odio scuro, implacabile, tenere l'assassino prigioniero di quell'odio ...'

mercoledì 8 aprile 2009

Record di ascolti per il Tg1!!!

Corvi venite...



Rimanendo appollaiati batteranno il nuovo record di ascolti??!

lunedì 6 aprile 2009

Parabola ' Terremoto '

6-IV ore 3:32, l’Aquila
Terremoto

Questa notte: qualcuno deve aver urtato il letto, anzi, lo sta muovendo ancora, ma chi? Accendo la luce: non c’è nessuno. Deve essere stato il ‘ terremoto ’. Dopo poco devo essermi riaddormentato.
Alla stessa ora all’Aquila e in chissà quanti paesi dell’Abruzzo le case crollano, la gente muore o perde tutto. Vengo a saperlo la mattina dopo, questa mattina, pochi minuti fa.
Un conto è la notizia di un ‘ terremoto ’, un altro il ‘ terremoto ’. Per me questo non era stato che un lieve ondular del letto, quasi un invito a non interrompere il sonno. L’altra, la notizia, un assalto alla mente che non riesce a vedere un rapporto tra quel blando dondolio e le immagini che la televisione continua a trasmettere: di morte, di desolazione, di smarrimento.
Cose accadute a poche decine di chilometri da casa.
E se ci spostassimo a qualche centinaio o migliaio di chilometri per esempio in Afganistan o nell’Africa centrale o sulle vie percorse dagli emigranti per giungere fino a noi, magari all’Aquila...
Eppure questa sera ci addormenteremo nuovamente nel nostro letto, forse più attenti a percepire il minimo dondolio o il minimo tintinnio dei vetri alle finestre.

Boris Porena

giovedì 2 aprile 2009

Il Centunesimo post...

Il Blog supera oggi i 100 post di attività, ne approfittiamo per ringraziare i nostri lettori che ci seguono e ci sostengono con i loro commenti e le loro idee.

Grazie!
Lo staff del Blog di Boris Porena

lunedì 30 marzo 2009

Parabola - ' Il Nobel del salto con l'asta '

Appuntamento del lunedì...eccoci!
Quest'oggi Boris ci racconta una delle sue parabole: Il Nobel del salto con l'asta.

Boris Porena - ' Il Nobel del salto con l'asta'