giovedì 21 maggio 2009

Parla Serge Latouche - La catastrofe produttivistica

Oggi abbiamo il piacere di presentarVi, con l'autorizzazione del prof. Serge Latouche una conferenza pronunciata dal medesimo negli incontri di Malagar il 23 Maggio 2008. Qui la si pubblica in italiano per la prima volta.




LA CATASTROFE PRODUTTIVISTICA [*]
Serge Latouche,
professore emerito di economia nell’Università d’Orsay, obiettore della crescita


«La presa di coscienza della catastrofe produttivistica è troppo lenta per evitare il peggio».
Yves Cochet
[1].

Negli anni Sessanta, l'umorista Pierre Dac osservava: «È ancora troppo presto per dire se sia già troppo tardi». Disgraziatamente oggi giorno non è più questo il caso. Dopo il quarto rapporto del Foro Intergovernativo sul Mutamento Climatico (IPCC) del 2007, e ancora di più dopo il suo aggiornamento da parte dei climatologi nella riunione di Copenhaguen del marzo 2009, sappiamo che ormai è troppo tardi. Anche se blocchiamo da un giorno all'altro tutto ciò che contribuisce a oltrepassare la capacità di rigenerazione della biosfera (emissioni di gas a effetto serra, polluzioni e atti predatori di ogni natura) o, detto altrimenti, se riduciamo la nostra impronta ecologica fino al livello sostenibile, avremo due gradi in più prima della fine del secolo. Ciò significa regioni costiere sotto l'acqua, decine se non centinaia di milioni di rifugiati ambientali, gravi problemi alimentari, scarsità di acqua potabile per molte popolazioni ecc. Oramai la questione sta nel limitare la catastrofe e soprattutto nel chiedersi come gestirla.

Leggere di più ...


Cos'è una catastrofe? Secondo il dizionario Larousse: «Disgrazia repentina e funesta che colpisce una persona o un popolo. Incidente che causa la morte di un grande numero di persone: una catastrofe ferroviaria, aerea. Letteralmente, evento decisivo che comporta il compimento di una tragedia». È necessario andare oltre nelle precisazioni macabre? È stata proposta una classifica delle catastrofi secondo il numero di morti: “Tra 1 e 999 morti, un fenomeno sarebbe denominato "incidente", ma diventerebbe un disastro tra mille e un milione di morti, persino una catastrofe se si va oltre il milione …”[2].

Alla catastrofe, presentata come un fenomeno fatale, si unisce spesso l'aggettivo «naturale». Essa diventa allora un destino, un evento fatidico. Ciò nonostante, come ha dimostrato J. J. Rousseau a proposito del terremoto di Lisbona, essa non è mai così naturale quanto sembra. Anche se solo fosse perché c'è bisogno di uno sguardo umano per decidere che veramente di catastrofe si tratta. Ciò che capita nella natura non diventa un «disastro» se non quando degli umani ne subiscono le conseguenze. Ciò è particolarmente vero per questa catastrofe incombente.

La catastrofe ha a che vedere con la tragedia dalla quale ricava il suo nome. Se essa è umana come la nakba o la shoah (parole dalle quali si sa che il senso originale è catastrofe…), essa viene pensata come un cataclisma naturale. Se si tratta di un fenomeno di origine geofisica, tsunami, terremoto, inondazione, eruzione vulcanica ecc., essa viene pensata come un destino che prende posto nella storia. Ci si trova in una relazione speculare tra natura e cultura.

Le catastrofi che ci concernono sono quelle dell'antropocene, cioè quelle originate dalla dinamica di un sistema complesso, la biosfera, alterato dall'attività umana e in coevoluzione con essa. Si tratta della straordinaria crescita (ex-crescita, non tanto lontana dall'escrescenza) exosomatica dell'uomo che, essendosi innamorato del cambiamento a tasso geometrico, iscrive le conseguenze materiali del suo modo di vita sulle curve esponenziali del degrado della biosfera (gas a effetto serra, sparizione delle energie fossili, accumulo di veleni, distruzione di specie …).

La catastrofe (la nakba, la shoah) ha a che vedere con lo sfondamento (collasso), argomento popolarizzato da Jared Diamond. Una civiltà sparisce perché ha distrutto il suo ecosistema. La catastrofe produttivistica è il destino implacabile di una società di crescita che rifiuta il mondo reale, prediligendo invece la sua artificializzazione. La ricerca della crescita ad ogni costo implica che non si faccia troppa attenzione ai metodi per ottenerla. La ricerca sfrenata della potenza e le limitazioni economiche sono all'origine della maggior parte degli incidenti. La cecità e l'arroganza dei saggi, degli esperti, dei responsabili, degli ingegneri e dei tecnici, supportate dal culto della scienza, dalla fede nel progresso, giocano una parte complementare ma essenziale in questo concerto infernale. Qui non è tanto la soggettività apparente ad essere messa in causa, quanto la logica medesima del sistema, la quale crea le condizioni per la catastrofe, includendovi la produzione di certi fattori soggettivi. Ciò che colpisce di più nello studio delle indagini che seguono alla maggior parte degli incidenti importanti, è il numero incredibile di negligenze, d'inosservanze dei regolamenti in vigore (con la complicità delle autorità incaricate di farli rispettare), di infrazioni alla legislazione nazionale o internazionale. Queste frodi, eccessi ed inganni si devono in essenza a tre fattori: la sete di ricchezza, il desiderio di potere e la vanità.

La catastrofe (kata-strophè: ribaltamento, sconvolgimento, conclusione) indica nella tragedia greca[3] «la scrittura dell'ultima strofe». La catastrofe che ci minaccia si collega con la fatalità della tragedia, punisce l’hybris dell'eroe, la sua dismisura. Come lui, noi sappiamo perfettamente ciò che ci minaccia e, come lui, sembra che siamo paralizzati dalla logica implacabile di un destino che ci impedisce di agire.


I Cronaca di una catastrofe annunciata

Il rimpianto Pierre Thuillier aveva pubblicato in 1995 «La grande implosione». Questo libro premonitore si presentava nell'edizione originale come un dossier intitolato: Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002[4]. L'Autore immaginava una commissione di indagine che nel 2070 si sforzava a comprendere come mai era stato possibile questo crollo, essendoci stati tanti avvertimenti. E infatti, senza bisogno di andare più indietro, già nel 1922 il grande Svante Arrhenius, in una conferenza dettata nell'università di Parigi, dichiarava: «Lo sviluppo è stato, per modo di dire, esplosivo, e corriamo verso una catastrofe»[5]. Dopo "Primavera silenziosa" (Silent Spring, 1962) di Rachel Carson, tante voci di autorità si sono fatte sentire; fingere ignoranza non è più possibile. Il famoso primo rapporto del club di Roma (1972), "Alto alla crescita" ci ha avvertito che la continuazione indefinita della crescita era incompatibile con i "fondamentali" del pianeta[6]. Nel 1974, René Dumont dichiarava: «Se manteniamo fino al prossimo secolo i tassi odierni di espansione della popolazione e della produzione industriale, questo non si concluderà senza il crollo completo della nostra civiltà»[7]. Tutti i giorni o quasi, nuove e pesanti testimonianze, pervenute dagli orizzonti più diversi, confermano questa diagnosi di buon senso del Club di Roma e i pronostici allarmisti di Dumont. Così, dopo la dichiarazione di Wingspread del 1991[8], l'appello di Parigi del 2003[9], il Millennium Assessment Report[10], ci troviamo davanti a una vera valanga di allarmi: l'ultimo rapporto del Foro Intergovernativo sul Mutamento Climatico (IPCC), quelli delle ONG specializzate (WWF, Greenpeace, Amici della Terra, Worldwatch Institute ecc.), quelli semisegreti del Pentagono del 2003, quello più confidenziale della Fondazione Bilderberg, il rapporto di Nicolas Stern al governo britannico ecc. Senza parlare di dichiarazioni di maggior o minor autorità, da quella del Presidente Chirac a Johannesburgo, fino a quella di Nicolas Hulot durante la campagna presidenziale del 2007[11], senza dimenticare il vicepresidente Al Gore e la sua scomoda verità ... Ed eccoci oggi tra il crack e il crash

Sicuramente «i nostri figli ci accuseranno», per riprendere il titolo del bel film di Jean-Pierre Jaud, perché ne siamo tutti responsabili. A cominciare dalle nostre élites politiche ed economiche, più pronte a salvare la Banca che non le banchise, ma anche dai comuni cittadini, più preoccupati del loro livello di vita che di quello raggiunto dagli oceani.
Oggi, la catastrofe è alle porte. Viviamo ciò che gli specialisti denominano la sesta estinzione delle specie[12]. La quinta, che si è prodotta nel Cretaceo, sessantacinque milioni di anni fa, aveva visto la fine dei dinosauri e di altri grandi animali, probabilmente in seguito all'impatto di un asteroide. Tuttavia, la nostra presenta tre differenze non trascurabili in rapporto alla precedente. In primo luogo, le specie (vegetali e animali) spariscono ad una velocità tra le cinquanta e le duecento al giorno[13]; cioè a un ritmo tra 1.000 e 30.000 volte superiore a quello delle ecatombi dei tempi geologici passati[14]. In secondo luogo, l'uomo è diretto responsabile di questo "esaurimento" odierno delle forme di vita. In terzo luogo, l'uomo potrebbe benissimo diventarne la vittima … Se dobbiamo dare retta ad alcuni, la fine dell'umanità dovrebbe arrivare persino più velocemente di quanto previsto, verso l'anno 2060, per sterilità generalizzata dello sperma maschile sotto l'effetto di pesticidi e altri contaminanti organici persistenti, cancerogeni, induttori di mutazioni o reprotossici[15]. L’astronomo di Sua Maestà Sir Martin Rees, autore di «Our Final Century», concede all'umanità una possibilità su due di sopravvivere al secolo ventunesimo.

Possiamo certo essere scettici davanti ai lavori di futurologia, ma quelli del Club di Roma hanno il merito di essere infinitamente più seri e solidi delle abituali proiezioni sulle quali si appoggiano i nostri governanti e le organizzazioni internazionali. Or bene, secondo l'ultimo rapporto[16], tutti gli scenari che non mettano in questione i fondamenti della società della crescita portano al crollo. Il primo scenario situa il crollo verso il 2030, dovuto alla crisi delle risorse non rinnovabili; il secondo lo situa verso il 2040, dovuto alla crisi dell'inquinamento; il terzo lo situa verso 2070, dovuto alla crisi dell'alimentazione. Gli altri scenari sono varianti di questi tre. Tra di essi, uno solo risulta nel contempo credibile e sostenibile, quello della sobrietà che corrisponde ai fondamenti della via della decrescita.


II Le cause: il totalitarismo produttivistico

Avvicinandosi pericolosamente il tempo del crollo, è quindi arrivato quello della decrescita! La società della sobrietà scelta, che sorgerà dalle sue tracce, permetterà di lavorare di meno per vivere meglio, consumare meno ma meglio, produrre meno rifiuti, riciclarne di più. In breve, permetterà di ritrovare il senso della misura e un'impronta ecologica sostenibile. Concepire la felicità nella convivialità piuttosto che nell'accumulazione frenetica suppone una seria decolonizzazione dei nostri immaginari, ma le circostanze possono aiutarci. Tale è la sfida di fronte alla quale ci troviamo.

Si potrebbe raccontare il destino della nostra società alla maniera di una fiaba de La Fontaine:
«Un giorno in uno stagno, e non sappiam' da dove,
Arriva l'alga verde, dilaga e tutto muore …
»,

Questo succedeva verso il 1850. L'utilizzo eccessivo di concime chimico per gli agricoltori del circondario favorisce che la piccola alga venga a diffondersi su un grande lago. Anche se la sua crescita annuale è veloce, seguendo una progressione geometrica di ragione due, nessuno se ne preoccupa. Infatti, se il raddoppio è annuo e la superficie del lago viene coperta in 30 anni, alla fine del 24esimo anno soltanto è colonizzato un 3% dell'estensione del lago! Senz'altro ci si comincia ad impensierire quando essa ha invaso la metà della superficie, facendo pesare, da quel momento, una minaccia di eutrofizzazione, cioè di asfissia della vita subacquea. Ma anche se essa ci ha messo diversi decenni per arrivare fin lì, ne basterà un solo anno addizionale per produrre la morte irrimediabile del sistema lacustre.

Abbagliato dalla proporzione geometrica che presiede la crescita economica, l'uomo occidentale ha rinunciato ad ogni misura; noi viviamo adesso precisamente l'istante nel quale l'alga verde ha colonizzato tra un terzo e la metà del nostro lago. Se non agiremo con molta velocità e decisione, la morte per asfissia ci aspetta. Adagiandosi sulla via «termo-industriale», secondo l’espressione di Jacques Grinevald[17], l'Occidente ha potuto dare corpo al suo sogno di sposare la proporzione geometrica. Il desiderio della crescita infinita si manifesta da almeno il 1750 con la nascita del capitalismo occidentale e dell'economia politica. Tuttavia, fino all'utilizzo delle energie fossili (prima del carbone, successivamente del petrolio) che mettono a disposizione di ciascuno di noi l'equivalente energetico di tra 50 e 100 schiavi, la crescita non era che quella del capitalismo, e si limitava ad un processo di distruzione della civiltà contadina e artigianale, e all'attività predatoria del capitalismo sul resto del mondo. Malgrado l'arrivo del sistema termo-industriale, la crescita ha incontrato grandi tensioni passeggere, che hanno generato crisi periodiche di sovrapproduzione. Soltanto a partire del 1950, con l'invenzione del marketing e la successiva nascita della società di consumo, il sistema ha potuto liberare tutto il suo potenziale creatore e distruttore. Ciò facendo, ha costruito le strutture della catastrofe. Ciò che si potrebbe anche chiamare il teorema dell'alga verde[18].

Assai opportunamente, il nostro tasso di crescita non è del 100% all'anno come quello dell'alga verde, ma solamente del 2 o 3%, ciò che situa il crollo e la fine della società della crescita non l'anno venturo, ma tra il 2030 e il 2070 secondo il modello sistemico del Club di Roma. Il sogno diventerà un incubo. L'hybris del padrone e proprietario della natura, la sua dismisura, ha sostituito l'antica saggezza di un inserimento in un ambiente utilizzato in modo ragionato. Il delirio quantitativo ci condanna a precipitare nell'insostenibile trascinati dall'effetto del "terrorismo degli interessi composti", secondo la bella espressione di Giorgio Ruffolo[19]. Con un incremento annuo del PIL pro capite del 3,5%, (progressione media per la Francia tra il 1949 e il 1959), si arriva a una moltiplicazione per 31 in un secolo e per 973 in due secoli, per più di 30.000 in tre secoli! Con il tasso del 10% col quale cresce oggigiorno la Cina, si otterrebbe una moltiplicazione per 13.781 in un secolo[20]! Se prendiamo in considerazione il lungo termine, con un 2% di tasso annuale di crescita –ritenuto come minimo necessario da tutti coloro che prendono le decisioni–, in 2000 anni il PIL si moltiplicherebbe per 160 milioni di miliardi! Sullo stesso periodo, con un tasso annuo di crescita del 7 per mille, ritenuto ridicolo dalle persone serie, il PIL verrebbe già moltiplicato per più di un milione; sul primo secolo sarebbe già raddoppiato, ciò che probabilmente supera quello che gli ecosistemi possono sopportare[21]. Da tempo dovremmo vivere in un vero paradiso, se la crescita producesse meccanicamente il benessere. Ma è piuttosto l'inferno ad attenderci, perché questa crescita vertiginosa è soprattutto crescita dello sfruttamento delle energie fossili, delle risorse non rinnovabili, crescita dei rifiuti e dell'inquinamento, insomma crescita della distruzione del nostro ecosistema. Persino se il tasso di crescita diminuisce, partendo da un PIL de 1000 miliardi di Euro, un magro 1% di crescita fa comunque 10 miliardi, cioè il 10 % della crescita d'un paese il cui PIL non sia ancora che 100 miliardi di Euro (ordine di grandezza di quello dei paesi del Sud). È ancora troppo poco per la rigenerazione della biosfera …

Conclusione

Se vogliamo sopravvivere alle «catastrofi del presente», è urgente riscoprire la saggezza della lumaca. Essa ci insegna non soltanto la necessaria lentezza (slowfood, slowcities) ma una lezione ancora più necessaria. "La lumaca –ci spiega Ivan Illich– costruisce la delicata architettura della sua conchiglia aggiungendo dei segmenti spirali sempre più larghi, uno dopo l'altro, fino al punto nel quale si arresta bruscamente e comincia con circonvoluzioni questa volta decrescenti. Infatti, un singolo giro addizionale della spirale farebbe la conchiglia sedici volte più grande. Anziché contribuire al benessere dell'animale, lo sovraccaricherebbe. A partire di questo momento, ogni aumento della sua produttività servirebbe soltanto per contenere le difficoltà generate da questo ingrandimento della conchiglia al di là dei limiti fissati dalla sua finalità. Oltrepassato il punto limite d'ingrandimento della spirale, i problemi della sovraccrescita si moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca non può andare oltre, al massimo, di una progressione aritmetica"[22]. Questo divorzio tra lumaca e progressione geometrica, che anch'essa aveva abbracciato per un periodo, ci mostra la via per pensare una società di "decrescita", serena e conviviale nella misura del possibile[23].


NOTE

[*] Traduzione all'italiano: Rigobaldo van der Mispel, maggio 2009.
[1] Anti-manuel d’écologie, ed. Boréal, Paris 2009.
[2] Anthony Michaelis, Impact, Science et société, n° 1 Unesco, 1982, p. 113.
[3] Dictionnaire des risques, diretto da Yves Dupont, A. Colin, Paris 2007.
[4] Fayard, Paris 1995.
[5] Citato da Grinevald Jacques, La Biosphère de l’Anthropocène. Climat et pétrole, la double menace. Repères transdisciplinaires (1824-2007), Georg, Genève 2007. p. 81
[6] Il Club di Roma ha prodotto a continuazione, sempre sotto la direzione di Dennis Meadows: Beyond the limits. Confronting Global Collapse, Envisioning a Sustainable Future, Chelsea Green Publishing 1992 e Limits to Growth : the 30 year Update, Chelsea Green Publishing 2004.
[7] René Dumont, À vous de choisir, L’écologie ou la mort, Pauvert, 1974.
[8] Dichiarazione di ventidue biologhi, nella loro maggior parte statunitensi, denunciando i pericoli dei prodotti chimici.
[9] Dichiarazione internazionale istigata dal professore Belpomme, per dare l'allerta sui pericoli sanitari generati dalla crescita economica.
[10] Millennium Assessment Report, Living Beyond Our Means: Natural Assets and Human Well-Being, http://www.miellenniumassessment.org. Si tratta di un rapporto delle Nazioni Unite basato sui lavori di 1360 specialisti di 95 nazioni, pubblicato a Tokyo il 30 marzo 2005, che dimostra che l'attività umana eccede la capacità di rigenerazione degli ecosistemi fino al punto di compromettere gli obiettivi economici, sociali e sanitari fissati dalla comunità internazionale per il 2015.
[11] Hulot Nicolas (Fondation), Pour un pacte écologique. Calmann-Lévy, 2006.
[12] Richard Leakey e Roger Levin, La Sixième Extinction: évolution et catastrophes, Flammarion, Paris 1997 .
[13] Edward O. Wilson stima che siamo responsabili della sparizione ogni anno di tra 27.000 e 63 000 specie. The diversity of Life, Belknap Press, Harvard, 1992 (La diversité de la vie, Odile Jacob Paris, 1993).
[14] François Ramade, Le grand massacre. L'avenir des espèces vivantes. Hachette, Paris, 1999.
[15] Dominique Belpomme, Ces maladies créées par l'homme, Albin Michel, 2004.
[16] Vedasi Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorden Randers, Limits to Growth The 30-year Update, Chelsea Green Publishing, 2004 e Christian Araud, Modèliser le monde, prévoir le futur, Entropia, Revue théorique et politique de la décroissance n°4, Parangon, Lyon 2008.
[17] Grinevald Jacques, La Biosphère de l’Anthropocène. Climat et pétrole, la double menace. Repères transdisciplinaires (1824-2007), Georg, Genève 2007.
[18] Variante del paradosso della ninfea di Albert Jacquart. Albert Jacquart, L'équation du Nénuphar (Calmann-Levy, 1998).
[19] Ruffolo Giorgio, Crescita e sviluppo: critica e prospettive. Falconara/Macerata 8/9 novembre 2006.
[20] Bertrand de Jouvenel, Arcadie, Essai sur le mieux vivre. Paris, Sedeis, 1968. Jean-Pierre Tertrais, op. cit, p. 14.
[21] André Lebeau, L’engrenage technique, (Gallimard) pp. 154-155.
[22] Ivan Illich, Le genre vernaculaire, in Oeuvres complètes tome 2, Fayard 2005. p. 292.
[23] Vedasi il nostro libro «Petit traité de la décroissance sereine» Mille et une nuits, Paris 2007.

2 commenti:

Boris Porena ha detto...

Caro Latouche,

Anche personalmente La ringrazio del Suo scritto che mi sembra non solo cogliere i problemi che ci stanno davanti ma anche sondarli con notevole profondità. Non possiamo non essere d’accordo con la Sua analisi, anche se le prospettive di uscita dalla crisi che Lei indica non sono certo di facile attuazione, anche perché sono molti coloro che per abitudine culturale e per ragioni di comodo non le condividono nell’effettiva pratica quotidiana. Anzi, probabilmente è molto difficile attuare ciò che dovrebbe essere attuato per garantire la sopravvivenza. Occorre un radicale cambiamento del modo di pensare, una riformulazione di tutti i nostri valori, per dirla à la Nietzsche, cui ben pochi sarebbero disposti. E anche ben comprensibile che le cose stiano così. Un conto infatti sono le conoscenze, le nozioni, che ci dovrebbero guidare, un conto è la reazione culturale e comportamentale che ad esse dovrebbe conseguire.

Ritengo quindi necessario lavorare insistentemente e approfonditamente nel sociale, affinché si produca un nuovo stile di pensiero che ancora non possiamo neppure immaginare ma che ci dovrebbe portare a sostanziare le Sue previsioni e proposte di uscita dall’impasse. C’è poi il problema che a questa mentalità dovrebbero accedere anche quelle popolazioni che attualmente sono in più che giustificabile attesa di raggiungere il welfare oggi dominante nell’Occidente. Non abbiamo nessun diritto di imporre loro una mentalità che noi non ci siamo mai sognati di sviluppare. Ovviamente nessuno ha la soluzione in tasca, ma sarebbe già molto se riuscissimo a rendere una buona parte dell’umanità consapevole dei problemi che Lei così intelligentemente segnala.

In attesa di incontrarLa personalmente, La saluto cordialmente,

Il Signor A. ha detto...

Salve a tutti dal Signor A.

Ho letto con entusiasmo l'articolo del Professor Latouche. L'allarme è assolutamente giustificato! Scuotere l'opinione pubblica è sempre più una necessità! Attività di questo tipo hanno a mio avviso quindi un'importanza fondamentale.

Non si può, penso, rimanere indifferenti davanti a parole di questo tipo, a dati così schiaccianti. Non si può! Eppure gran parte della gente lo fa. In un certo senso non si pone proprio il problema.

Probabilmente questo dipende da più fattori: da una parte vi è una 'ignoranza cronica' prodotta da un disinteresse verso 'i problemi' e magari verso una non conoscenza dei dati, dall'altra probabilmente troviamo una fiducia assoluta nella nostra cultura, nella nostra scienza e tecnologia, nelle nostre abitudini, nel nostro ordinamento sociale che vede compito di pochi -gli scienziati- la ricerca della Soluzione definitiva (soluzione che garantisca il nostro standard di abitudini ovviamente!)

Si, in un certo senso sembra proprio questa fiducia, questa fede verso non si sa bene cosa, a rendere la specie umana una massa quasi indistinta che con disinteresse si dirige verso un grosso muro!

Ho un ricordo di quando ero piccolo...

Ero in macchina e vedevo le macchine sfrecciare nella direzione opposta a grossa velocità. La strada era a due sole corsie e pensavo: 'Certo che noi non stiamo semplicemente andando in macchina, non ci stiamo solo preoccupando di rimanere nella nostra corsia e di essere accorti nella guida. Noi ci fidiamo di quelli che arrivano dall'altra parte, diamo per scontato che non siano dei pazzi suicidi o semplicemente disattenti che ci potrebbero venire addosso. Abbiamo una grossa 'fiducia nascosta' verso i loro comportamenti, verso il codice della strada: la legge!, verso qualcosa che non capisco e che non so definire del tutto!'

Il pensiero che facevo era più o meno questo.

Con il passare del tempo confesso che sono rimasto piuttosto scettico rispetto 'il codice della strada' rispetto 'la Legge' e pure verso questo 'collante impercettebile' fatto di norme, comportamenti acquisiti, abitudini, etc.

Io credo insomma che il nostro cervello non abbia un'intelligenza e una percezione esclusivamente individuale della realtà, poichè contempla, più o meno consapevolmente, un 'ordinamento esterno più grande di lui'. In questa visione delle cose il singolo trova sicurezze e facilitazioni nella sua analisi proprio grazie alla 'colletività\cultura' che risolverebbe di per se una serie di problemi. In altre parole 'la massa che rassicura...se gli altri non sono preoccupati perchè dovrei esserlo io?'

Il problema quindi potrebbe risiedere proprio nel vivere in una collettività incosapevole di esserlo? Possiamo realmente cambiare? Abbiamo la forza di cambiare qualcosa che è più grande di noi e che al contempo ci costituisce e ci unisce, che qualcuno chiama 'cultura'?

Porgo cordiali saluti a tutti,
Il Signor A.