martedì 3 novembre 2009
lunedì 26 ottobre 2009
lunedì 19 ottobre 2009
Alberto Gianquinto - Mutazioni. Su Boris Porena.
Se la società tende a conservare tutti i suoi codici interpretativi, la creazione culturale ha la funzione di rimetterli in discussione, non attraverso un sincretismo di idee, ma attraverso individuali atti creativi, che solo quando introiettati nella cultura di una società divengono terreno di unificazione: non è da una pluralità di culture che si setacciano gli ingredienti del nuovo: questo nuovo deve essere creato individualmente rompendo gli schemi storici delle diverse culture e da questi fondamenti infine riproposto alla società, che deve riappropriarsene.
Se il linguaggio della coscienza non è il solo possibile, se il percorso dal sapere al pensare non è diretto, ma deve rompere gli schemi del sapere, per poter pensare (o meglio: per poter esprimere contenuti in forme linguistiche) in modo nuovo (in modo che lo scarto prodotto nella creazione possa essere poi ricondotto a nuova norma), ciò non accade soltanto attraverso un confronto paritario di opinioni e di competenze diverse, e quindi attraverso il loro azzeramento, ma, al contrario, attraverso lo sforzo creativo, che intende rompere gli schemi che si propongono nel confronto, con l’intenzione di portare questo e solo questo atto creativo al vaglio della società, che decide quale sia in grado di sussumere e di conservare come sua norma, fino al successivo atto che ancora una volta scarta dalla nuova norma. La ricerca di parametri culturali tramite il confronto deve consistere nel sostenere, certo, che la continuità di ciascuno sta nel diverso da sé, ma non che questa debba risolversi in sincretismo, in una media democratica di opinioni. Indagare tutti i dinamismi, latenti o meno nelle diverse culture, significa semplicemente ripensarli ex novo, per capire a quali possa essere consentita una nuova e ri-creata rappresentazione.
lunedì 12 ottobre 2009
Amico

Amico
mercoledì 7 ottobre 2009
Epistola a Serge Latouche

È difficile dialogare efficacemente con qualcuno di cui si condividono le idee. Normalmente non si fa che ripeterle, ma non sempre repetita iuvant, può anzi capitare che in bocca a un altro le idee di quel qualcuno risultino sfocate, invecchiate, indebolite. Che fare allora? Contestarle solo per il piacere di affermare sé stessi? Meglio mi sembra di ribadirle da un punto di vista che non può essere quello che le ha generate, per poi tentare di derivarne delle altre e così via.
Caro Latouche,
i tredici anni che ci dividono mi permettono forse di darti del ‘tu’, anche se la tua voce, benché scomoda, ha certo più ascolto della mia. Non sono un buon lettore e di te conosco più per ciò che circola per l’aria che per conoscenza diretta. Leggere di più ...
Ciononostante mi sono accorto che molte delle cose che ritenevo di pensare con la mia testa in realtà. le stavo pensando con la tua, ma la cosa non mi è per nulla dispiaciuta. Sono convinto, ormai da anni, che una tête bien faite (come dice Morin) non tanto pensa individualmente quanto coglie il pensiero fluttuante nel suo tempo. Ma chi ci garantisce di aver colto quello giusto? Per parte mia, avendo colto quello tuo, ne sono convinto.
Che il mondo vada incontro alla sua rovina mi sembra incontestabile. Mi occupo, da dilettante, di entomologia e vedo di anno in anno le specie di insetti, anche le più comuni, contrarsi fin quasi alla sparizione. Intere famiglie coleotteri, lepidotteri, imenotteri, per citare quelle più conosciute, stanno scomparendo, almeno dalle nostre parti, ma notizie altrettanto sconfortanti mi giungono da altre parti del mondo. TV e giornali non ne parlano, la cosa non sembra interessare nessuno, ma il sintomo è là, sotto i nostri occhi e non escluderei che di qui a qualche tempo il ‘sintomo’ coinvolga anche noi.
Sento invece quotidianamente e con fastidio le soddisfatte dichiarazioni dei politici, economisti, imprenditori che la crisi l’abbiamo passata, che l’economia ha ripreso a crescere e la ricchezza a rifluire nelle tasche degli uni e a defluire da quelle degli altri. Anche se questo fosse vero, per quanto tempo il flusso continuerà? Fino alla prossima crisi, peggiore di quella da cui dicono che siamo usciti, a meno … a meno che il capitale non accenda un terzo conflitto mondiale che non risparmierebbe tuttavia nessuno, neppure quelli che l’hanno acceso.
Non c’è bisogno che io ricordi a eventuali lettori di questa epistola politica i capisaldi della tua analisi del mondo contemporaneo: l’inganno di una crescita economica illimitata su un pianeta a risorse limitate, la trappola dello sviluppo sostenibile, il primato dell’economia, l’appiattimento culturale sul modello occidentale con conseguente perdita della diversità, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del terreno, il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci, l’imbarbarimento dei costumi ecc. ecc. Sono tutte cose che osserviamo quotidianamente ma è come se non le vedessimo, accecati come siamo dalla ricerca di welfare anch’esso in crescita illimitata come il nostro desiderio di tenergli dietro. Eppure sono anni, decenni che tu e altri le andate ripetendo e che la storia recente vi dà ragione, come anche l’attuale crisi dimostra. Immaginiamo per un attimo che la classe politica o parte di essa, in Europa, in America o nei maggiori paesi emergenti vi dia ascolto, come per esempio Obama sembra che faccia. Sappiamo benissimo che non sono i partiti o i governi a decidere delle nostre sorti, ma le multinazionali, le lobbies del potere economico e finanziario … Ma la democrazia, il diritto alla scelta, che il cittadino ha conquistato in secoli di lotta per la ‘libertà’? Appena ha potuto lo ha deposto ai piedi dei miglior promettenti che, per semplificargli le cose, si sono autoridotti in molti paesi a due schieramenti scarsamente distinguibili.
La ‘democrazia’ … l’ultimo –in ordine di tempo– degli inganni che il capitale ci ha intessuto attorno, eppure il male minore tra quanto abbiamo saputo escogitare a salvaguardia di noi stessi.. La democrazia non regala la libertà, ma la presuppone. Voglio dire che, per realizzarla con un minimo di credibilità, la mente deve essere ‘libera’, cioè autonoma nella scelta. Mentre nelle democrazie reali tutto concorre, dalle campagne elettorali agli spot televisivi, a confondere mente e scelta, per lo più non opponendo verità a verità ma menzogna a menzogna. Ma tutto questo non sarebbe grave se l’autonomia l’avessimo ereditata come un cane ha ereditato l’attaccamento al branco (impersonato dal suo padrone), o se fossimo stati educati ad essa. Ma nessuna delle due cose si è verificata e non siamo né ‘liberi’ né autonomi, pur professandoci ‘democratici’.
Il nostro CMC (Centro Metaculturale) proprio di questo si occupa da 35 anni : di rendere quanto è possibile libero e autonomo il pensiero. A dire il vero, inizialmente si trattava piuttosto di capire come funzionava un pensiero ancora non o poco plasmato dalla cultura. E, quanto a verginità, quale territorio più vergine di quello musicale nella scuola elementare di un piccolo paese interno del Lazio? E qui, a Cantalupo in provincia di Rieti abbiamo cominciato il nostro lavoro di ricerca e sperimentazione sulla composizione di suoni in assenza di codici sintattici, grammaticali, lessicali. Più tardi un analogo lavoro è stato ‘trasferito’ nei territori adiacenti al visivo, del verbale, man mano estendendo a tutte le discipline rappresentate nella scuola. La nostra sperimentazione si è limitata a un livello di base, indagato però anche sui ragazzi più grandi e su adulti. I risultati ottenuti hanno largamente confermato la nostra fiducia nella mente umana, chiunque ne sia il portatore. Quando poi anche noi ci siamo imbattuti nei grandi problemi legati alla sopravivenza, la strada da seguire ci è sembrata quella di rendere le menti consapevoli al di là di quanto ci dicono le culture ufficiali, rese cieche da ben altri interessi. La consapevolezza non può tuttavia essere insegnata con una qualsiasi disciplina scolastica. Non consta di nozioni, dati, teoremi, ma è per così dire l’attività primaria del cervello umano, che non solo registra nozioni e dati e comprende i teoremi che li legano, ma raccorda le informazioni ricevute dall’esterno agli stati interni della mente, riflette cioè il ‘fuori’ nel dentro. Questo fondamentale passaggio che ci permette di lavorare, anziché con oggetti fisici, con rappresentazioni mentali riconosciute come tali, viene solitamente gestito dalla cultura. Ciò vuol dire che è la cultura –o meglio sono le culture nella loro variabilità– a determinare che cosa viene riconosciuto e come. Abbiamo chiamato questo tipo di riflessione ‘riflessione culturale’ in quanto interna a un sistema di valutazioni preordinato dagli UCL (Universi Culturali Locali). Noi però per sopravvivere abbiamo bisogno di un tipo di riflessione quanto più possibile indipendente dagli UCL. Un livello di autonomia totale e probabilmente irraggiungibile per una specie sociale come la nostra; le esperienze condotte dal nostro Centro ci fanno tutta via ritenere possibile una riflessione metaculturale, in certo qual modo più vicina a un ipotetico livello preculturale quale l’abbiamo riscontrato nella nostra esperienza di ‘base’ con la musica.
Le dimensioni standard di queste ‘epistole politiche’ non mi permettono di illustrarti più in dettaglio il nostro lavoro, documentato in numerosi scritti, peraltro non pubblicati e ottenibili solo dietro richiesta diretta. Come vedi, il nostro progetto formativo è propedeutico al tuo nel senso che mira da un lato alla destrutturazione della mente acculturata passivamente, dall’altro alla ricostruzione di una mente aperta –metaculturalmente– alla pluralità culturale. Il passaggio da una riflessione ‘culturale’ a una ‘ metaculturale’ non porta a nessun aggravio conoscitivo, non c’è bisogno di ulteriori studi e approfondimenti. È sufficiente che riconosciamo la natura ‘culturale’ di tutto ciò che pensiamo, diciamo, facciamo, il ché vuol dire che siamo in grado, se necessario, di dichiararne l’UCL di riferimento, fuori del quale nessuna valutazione è possibile senza una verifica nel nuovo UCL. Anche gli ‘assoluti’ sono metaculturalmente accettabili purché riferiti a uno o più UCL. Così le vostre analisi (da noi condivise) sono probabilmente ‘vere’ in tutti gli UCL che includano tra i loro principi quello della sopravivenza. Un UCL che non lo contenesse potrebbe tranquillamente lasciar andare le cose come vanno. Non basta tuttavia che esistano sulla terra delle persone capaci di pensare metaculturalmente. Occorre che diventino la maggioranza in tutti i paesi. Se in uno qualsiasi dei paesi che possiedono la bomba atomica una persona o un gruppo con accesso agli arsenali non avesse tra gli ingredienti del suo UCL il principio della sopravvivenza, non ci sarebbe da scommettere due soldi sul futuro di Homo sapiens sapiens. Con l’intento di promuovere la riflessione metaculturale, il che è come dire il linguaggio-macchina del cervello, ho approntato lo scorso anno una raccolta di Metaparole che altro non sono che parole di uso comune su cui un breve testo introduttivo invita a riflettere fuori dai binari del suo uso convenzionale. Finalità analoga si propongono queste Epistole politiche, diverse solo per una maggiore ampiezza e un tono più colloquiale.
Tra le due raccolte un’altra ve n’è, Parabole, di impostazione didattico-narrativa. L’intento è lo stesso e l’uso che vorrei ne venisse fatto è di lettura pubblica come invito a un commento collettivo anche e sopratutto divergente dal testo letto.
Caro Latouche, se fossi più giovane, ti chiederei una collaborazione più duratura, ma, pur essendo musicista, non posso più decidere della durata.
B.
Cantalupo, 30 IX 2009
domenica 27 settembre 2009
Buon compleanno!
sabato 26 settembre 2009
All'America di Obama - Epistola Politica

America, America … Quale America? Quella di Bush o quella di Obama? Ma non è sempre la stessa? Sono cambiati gli elettori? E ora, stanno cambiando un’altra volta? I numeri cosa ci dicono? Ma: possono i numeri dirci qualcosa? Possono, in democrazia, cambiare le sorti di un paese o addirittura del mondo, decidere se pace o guerra, stabilire chi vivrà nell’abbondanza e chi morirà di fame …, ma ci informeranno realmente come pensa la popolazione, come pensano i singoli individui?
Obama non fa che tentar di realizzare quanto ha promesso in campagna elettorale e per cui lo avete votato. Eppure i numeri ci dicono che la sua popolarità è in calo. Come pensavate che avrebbe agito? Lasciando le cose come stavano, semplicemente riverniciando la facciata della Casa Bianca? Lui, per metà nero?
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Ma che America siete, che oggi scendete in piazza, non per chiedere l’assistenza sanitaria per tutti, ma per lasciare che sia un ‘affare’ finanziato da coloro che non se la possono pagare?
È vero che non bisogna generalizzare e che quelle decine di migliaia che hanno protestato contro la riforma sanitaria voluta da Obama non sono l’America. È però abbastanza sintomatico che la protesta avesse due punti di forza: la ‘minaccia’ di una deriva socialista e l’altra, che la progettata riforma sia ‘di colore’. Ancora e sempre la paura del comunismo e il razzismo.
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Chi vi scrive è per metà italiano come milioni e milioni di vostri padri e nonni, per metà tedesco come altri milioni di vostri antenati. Siamo tutti di razza caucasica, ma quale differenza! Certo, anche noi siamo capaci di vistosi voltafaccia −ci lo dicevano anche i tedeschi alla fine della Seconda Guerra Mondiale−; ieri votavamo in massa Berlinguer, oggi Berlusconi. Forse qualche traccia di razzismo la si riscontra anche da noi quando lasciamo che si respingano in mare barconi di disperati in cerca di salvezza. “La salvezza se la cerchino a casa loro” si dice e chi tace acconsente. Da noi il colore della pelle non conta, dicono, conta però la latitudine: “e noi i terroni non li vogliamo, anzi, non vogliamo neppure convivere con loro in uno stesso stato.” Il ché, tradotto dal padano, vuol dire “giù la mani dai nostri soldi!” Ma noi la sanità, almeno, ce l’abbiamo per tutti. Solo che al sud gli ospedali o vanno in pezzi o sono inquinati dalla mafia o tutt’e due le cose. Quanto al buon esempio del resto d’Europa, è meglio che non andiamo troppo indietro nel tempo …
Nell’insieme noi europei siamo certo gli ultimi che possono dare a voi americani lezioni di democrazia. Nella sua veste moderna l’avete inventata voi e tuttora ne incarnate la forma meglio riuscita. Tanto più vorremmo che la svolta ‘sociale’ −non socialista− voluta da Obama apportasse alla vostra nazione il cambiamento di mentalità indispensabile alla sua realizzazione. Vorremmo anche che la forza trainante da voi esercitata a livello mondiale non dipendesse più dal vostro arsenale atomico o dal vostro strapotere economico, ma dal perfezionamento di un modello politico rimasto senza concorrenti sul piano internazionale. Obama sembra avviato proprio su questa strada very american, sempreché lo lasciate lavorare senza rimpianti per una fase imperialistica, si spera, definitivamente tramontata.
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Non essendo io un politico di professione, non voglio entrare in merito a quanto Obama dice e fa in questo campo. Anche perché le sue parole e azioni andrebbero riferite a un contesto ideologico che non è il nostro. Vorrei tuttavia tentare un accostamento alle sue posizioni riguardo all’istruzione, se non altro per capire qual’è il peso che la scuola e i processi formativi in genere hanno nella vita di un cittadino medio americano. È chiaro infatti che nella sua qualità di Presidente democraticamente eletto dai cittadini Obama, per mantenere il consenso tributatogli al momento dell’elezione, non può che attenersi a quanto gli suggerisce la mentalità del cittadino medio. È una delle aporie della democrazia: qualsiasi progetto di affinamento intellettuale deve ottenere il consenso di coloro che non ne sentono alcun bisogno. Anche tenuto conto di questa illibertà del Presidente della nazione che della ‘libertà’ ha fatto il suo cavallo di battaglia, il discorso di Obama agli studenti il giorno di apertura dell’anno scolastico suona a una prima lettura come irrimediabilmente paternalistico e benpensante. Era stato atteso da un gran numero di genitori, che, se il discorso non fosse stato sufficientemente pattriotico e immune da colorature socialiste, avrebbero preferito tenere i figli a casa anziché esporli al terribile contagio. Per molti di noi è difficile capire una tale mentalità. Per Obama evidentemente no, in ogni caso era suo compito mostrare di condividerla. Proviamo ora noi, provvisoriamente, a condividerla e, partendo da essa, a leggere il discorso di Obama.
Anzitutto si rivolge direttamente agli studenti e non all’istituzione o agli insegnanti. Le famiglie sono sì più volte nominate, ma soprattutto in funzione del domani dei loro figli. Già questo fatto può far nascere nelle suddette mentalità il sospetto che si voglia ‘indottrinarli’ scavalcando scuola e famiglia. Obama deve fare molta attenzione a mantenersi sulle generali e a non entrare in dettagli sui contenuti e sulle finalità dell’istruzione. Deve semmai far frequenti riferimenti alla storia americana e all’impegno di coloro che hanno fatto grande l’America. Deve quindi puntare sull’individuo e sul successo, ma lo fa in direzione della collettività. “Ognuno di voi sa far bene qualcosa, ha qualcosa da offrire.” E abilmente coniuga queste due priorità americane: il successo individuale e il futuro dell’America. E per avvalorare questo connubio cita, con discrezione e senza millanteria, sé stesso. Quale maggior successo che essere diventato Presidente degli Stati Uniti, notoriamente la più grande nazione del mondo, e quanto più esemplare per l’ideologia del self made man una carriera che vi sia arrivata partendo da una condizione famigliare modesta con una madre single “che lottava ogni giorno per pagare i conti”. L’esempio traversa tutti i livelli sociali e al tempo stesso –ma Obama non vi fa cenno– le differenze razziali del suo paese. Lo accuseranno poi di aver parlato da uomo di colore, mentre è evidente che a parlare secondo il colore sono i suoi accusatori. Obama promette indirettamente maggiori finanziamenti alla scuola: “Mi sto dando da fare per garantirvi classi e libri e accessori e computer, tutto il necessario al vostro apprendimento.” E qui chiede che anche gli studenti facciano la loro parte impegnandosi al massimo: “mi aspetto grandi cose da ognuno di voi …”. E, per chiudere, un richiamo al suo slogan elettorale: “So che potete farlo”.
Un discorso ben calibrato, da ‘buon padre di famiglia’ come è stato detto, forse poco significativo da un punto di vista pedagogico, eppure anche troppo sbilanciato in senso sociale per l’individualismo spinto di un elettore repubblicano. Forse persino tra i democratici qualcuno avrà percepito odor di socialismo e si sarà pentito del suo voto.
Se qualcosa possiamo imparare anche noi da questo tenue e prudente discorso, è la tattica con cui Obama porta avanti il suo discorso. Ma è una tattica: o è il limite della mentalità di Obama? Non so e allo stato attuale non credo sia necessario saperlo. Spesso è più facile coltivare un pensiero radicalmente innovativo o addirittura fare una rivoluzione che muovere un piccolo passo in direzione di una meta neppure chiaramente individuata, ma non più interna a un’ideologia in disfacimento.
B
Cantalupo, 16-IX-09
lunedì 14 settembre 2009
Parabola - 'Una Donna'
lunedì 24 agosto 2009
Evoluzione dell'evoluzione

Oggi ci colleghiamo con la bellissima pagina di Ben Fry, uno scienziato-artista o artista-scienziato, che ha progettato e realizzato la seguente risorsa per visualizzare/leggere/ammirare l'evoluzione, appunto, del testo seminale di Darwin, L'origine delle specie (1859), attraverso le sue sei edizioni.
Vivissimamente consigliata a chiunque ami non soltanto la scienza, ma anche l'analisi testuale. Nonché le realizzazioni grafiche strabilianti.
Godetevila gente!
lunedì 17 agosto 2009
Zia Ipa

(Ipazia, figlia di Teone, era nata ad Alessandria d’Egitto verso il 370 d C. Fu barbaramente assassinata l’8 marzo 415, vittima del fondamentalismo religioso che vedeva in lei una nemica del cristianesimo).
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Ipazia rappresenta il simbolo per l’amore della verità, per la ragione, per la scienza, che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio comincia quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tenta di soffocare la ragione....
Il fondamentalismo non è morto. Ancora oggi si uccide e ci si fa uccidere in nome della religione.
Anche nei nostri civili e materialistici paesi industrializzati ci sono assurde manifestazioni di oscurantismo, come alcuni strati della civilissima America in cui si proibisce di insegnare nelle scuole la teoria dell’evoluzione di Darwin e si impone l’insegnamento del creazionismo.
Su questa strada di ritorno al medioevo si è messa anche la nostra ministro dell’Istruzione (o dovremmo dire della distruzione?) tentando di cancellare la teoria darwiniana dalle scuole elementari e medie.
Perché? Per ignoranza?
Per accontentare una chiesa cattolica che non mi sembra ingaggi più queste battaglie perse in partenza.
Questa storia romanzata ma vera di Ipazia, ci insegna ancora oggi quale e quanto pervicace possa essere l’odio per la ragione, il disprezzo per la scienza.
È una lezione da non dimenticare......
Margherita Hack
Trieste, febbraio 2005
lunedì 10 agosto 2009
Seconda a Thomas

... questa non è una ‘vera’ lettera, di cui, da quando c’è Skype, non abbiamo più bisogno. È un’ ‘epistola politica’, destinata a una, anche se improbabile, pubblicazione. Ha quindi quel tanto di ‘artificiale’ che un genere letterario impone. Tenterò quindi di fare qualche considerazione di carattere politico sul rapporto tra l’attuale società (eterodiretta dal capitalismo mondiale) e la sua parte più giovane, quella da cui un poco alla volta ti stai allontanando.
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Nonostante la mia età cerco, per quanto mi è possibile, di conservare quel rapporto, che certamente giova assai più a me che all’altro termine. Al di là dei giovani con cui sono effettivamente in contatto c’è la grande massa di quelli di cui ci informano quotidianamente la tv, i giornali, internet. E non penso tanto alle cronache, ai gossip e agli infiniti pettegolezzi di cui ci giunge notizia, ma soprattutto al taglio che caratterizza l’attuale informazione, a ciò che viene considerato rilevante e ciò di cui non si ritiene opportuno neppure parlare. Così, nel campo di mia specifica competenza, la musica, non c’è giorno che non veniamo informati del numero di dischi venduti dal nuovo gruppo rock o dalla giovanissima cantante emergente. O – in campi apparentemente altri ma regolati dagli stessi meccanismi – a quanto è stato acquistato dalla squadra x il calciatore y. O ancora qual è l’ultima moda in fatto di tatuaggi o di capigliatura. E non è tanto ciò di cui si parla quanto è ciò che si mostra a imprimersi nelle menti impreparate a una ricezione selettiva; perfino ciò che apertamente si condanna diventa stimolo alla passiva emulazione, così l’assunzione di droghe, comprese quelle a effetto letale, la violenza contro le donne, i lavoratori stranieri, i barboni, le insulse prove di coraggio come la guida contromano e così via.
“Tu non fai che invocare indirettamente una censura che i regimi democratici rifiutano” potrebbe rinfacciarmi qualcuno. Non è certo il ripristino della censura che risolverebbe i problemi di un’informazione sottomessa agli interessi di chi la gestisce. Il discorso è ‘politico’ e va affrontato fuori dalla sfera del ‘ritorno economico’. L’informazione credo non sia mai politicamente neutra. Andrebbe quindi vagliata e diffusa in rapporto
- alla sua pubblica utilità
- alla capacità media dei riceventi di penetrarla criticamente.
Quanto alla ‘pubblica utilità’, quale commissione, come composta, la giudicherebbe? Certo una commissione ‘politica’ ma non legata ai partiti. E’ possibile una politica non partitica? Lascio aperto il problema, per riprenderlo però tra poco.
Analogo, anche se apparentemente di più facile soluzione, il secondo punto: la penetrazione critica del pensiero medio dipende dalla formazione ricevuta. Questa è oggi ancora fortemente ideologizzata anche se la scuola non vuole o non può ammetterlo. La società stessa è ideologizzata nonostante i suoi vertici politici si affannino a negarlo: basterebbe a dimostrarlo l’acritico discorso sui valori –di libertà, democrazia, cristianità ...– che gli stessi vertici, quali che siano i partiti, continuano a fare. E fin quando l’autocritica non raggiungerà i più o meno nascosti presupposti ideologici di ciò che viene detto, l’ipotesi di una politica non partitica resterà perdente. Sappiamo che una tale autocritica è alla portata di tutti, purché indotta da una formazione adeguata. Ma, perché nella società venga praticata una tale formazione, è necessaria una già formata volontà politica, e perché questa vi sia, occorre appunto la stessa volontà politica che la formi. È noto che i bruchi della ‘processionaria’, se avviati lungo il bordo di un vaso circolare, continuano a marciare in tondo fino a che qualcuno cade per esaurimento e il cerchio si rompe ‘liberando’ i singoli individui. Anche noi possiamo ancora sperare nella rottura del circolo vizioso su cui si è incamminata la politica. Il punto è: la rottura avverrà in tempo utile? C’è modo di provocarla? Il circolo vizioso ha avuto inizio nel momento in cui la società mercantile addita se stessa a modello risolutivo per uscire dalla crisi che la sta soffocando e con lei l’intera biosfera. Analoga impasse aveva incontrato il modello comunista, che tuttavia ha avuto ancora a disposizione, come via di uscita, il modello concorrente con il quale tentare, per esempio in Cina, un’improbabile fusione. Al modello nostro non ci sono più alternative disponibili. C’è solo da costruirne una ex novo. Ci sta provando Obama, forte del fatto di non appartenere che in parte alla ‘razza dominante’, responsabile di ambedue i modelli storici. Se questo è il suo progetto –ma ne siamo sicuri?-, riuscirà a realizzarlo contro le gigantesche forze che gli si opporranno?
Tradizionalmente i cambiamenti epocali –e quello che oggi si richiede lo sarebbe sicuramente– avvenivano tramite le grandi rivoluzioni; oggi anche queste, come le guerre, sarebbero troppo pericolose perché potrebbero trascinarci in un conflitto nucleare. Conviene cercare altre vie. ma chi dovrebbe farlo?
Non certo la mia generazione o quella che immediatamente la segue. La cosiddetta ‘generazione di mezzo’ è troppo impegnata e compromessa con il modello consumistico-concorrenziale per rischiare il salto nel buio. Non restate che voi, oggi intorno ai 20-30 anni, voi stessi vittime inconsapevoli del degrado culturale cui la forma estrema del capitalismo mondiale ci ha condotto. Se qualche speranza è ancora possibile, è in voi, o meglio in quelli di voi che usciranno più o meno indenni dal condizionamento omologante della cultura dei consumi. E qui il discorso torna a farsi personale.
Non intendo con questo scaricare su di te delle responsabilità che non ho saputo sostenere. A mia discolpa ripeto a me stesso –ma con scarsa convinzione– che prima c’era bisogno di costruire e sperimentare nella pratica i fondamenti teorici su cui basare una concreta azione politica. Ora penso di averli trovati, questi fondamenti, non più sul versante economico come Marx, ma su quello formativo. Inoltre non credo che ci siano altre vie d’uscita dal pericolo di estinzione se non un cambiamento generalizzato di mentalità, una vera mutazione antropologica che ci faccia transitare, con un minimo di traumi possibile, dall’era delle culture (e delle guerre) all’era metaculturale della pace. Non so se ci riuscirete. La cosa non mi riguarda più ma sono spaventato dall’inerzia che mi circonda. Oggi alcuni strumenti per intervenire ci sono. Appropriatevene, ampliateli, modificateli, ma soprattutto servitevene. Questa non è la paternale di un padre preoccupato per il futuro di suo figlio. È un ‘epistola politica’.
B.
Cantalupo 10-8-09
sabato 1 agosto 2009
Alla Donna

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No, non penso così, non ho un’opinione così negativa della specie umana con il sesso maschile solo ottuso e violento e quello femminile irrimediabilmente guastato. Né credo in una gerarchia tra i sessi con l’uno dominante sull’altro. Ma neppure credo nella loro uguaglianza che li svaluterebbe entrambi. Le cose stanno bene come stanno, solo che il buon dio non c’entra niente. Mettiamo pure che qualcosa come un dio esista. Tutt’al più potrebbe aver dato una spintarella iniziale, aver disequilibrato qualcosa che prima era in equilibrio, al resto ci ha pensato Darwin, o meglio l’evoluzione come lui l’ha intesa. E ora, noi che ci stiamo a fare? Forse a cercare di ristabilire l’equilibrio perduto? Ma per questo dobbiamo farci da parte, autodistruggerci. Ed è ciò cui stiamo alacremente lavorando. Non è possibile un’altra strada? Per esempio quella di creare un nuovo equilibrio o, meno presuntuosamente, di reinserirci in quello, dinamico, che gli altri viventi hanno costruito in un paio di miliardi di anni. Può darsi che sia proprio questo equilibrio così faticosamente raggiunto a reclamare la sparizione di Homo sapiens, nel qual caso la via che stiamo attualmente percorrendo sarebbe proprio quella giusta, anche se il prezzo da pagare per gli altri viventi sembra essere troppo alto. La sparizione della nostra specie implicherebbe infatti la contestuale sparizione di tutte o quasi tutte le altre, e non so se Gaia potrebbe sopportarla. Il rischio di vedere fallito l’intero progetto ‘vita’ per colpa di una sola sua specie è tale che converrebbe ad ambedue, Gaia e l’umanità, venire a patti. Nel qual caso le trattative sarebbe bene le conduceste voi, donne, visti i pessimi risultati ottenuti nei millenni di predominio maschile. Ma non è solo questione di rappresentanza, è il concetto stesso di ‘predominio’ che va eliminato.
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Ho aperto questa ‘epistola politica’ indirizzata a te con una piccola ‘fantasia allegorica’ fin troppo trasparente della situazione in cui ci troviamo. Anche l’auspicio finale –che a fare il grande tentativo di rappacificazione tra i popoli e con la terra siate voi donne– rappresenta un trend degli ultimi decenni: ne fa fede la crescente presenza dell’elemento femminile nei Parlamenti e negli organi di governo di molti stati. Siamo ancora lontani da una condizione di equilibrio, ma il processo sembra avviato. C’è però un fattore limitante che ha fatto sì che questo processo non abbia finora prodotto i frutti sperati: la ‘mascolinizzazione’ della partecipazione femminile.
Ti chiedo scusa per quanto appena detto, che non vuole essere una critica a quanto state facendo o tentate di fare, ma la constatazione di un’evidente difficoltà cui vi trovate di fronte. L’intera rete mondiale di rapporti culturali, economici, finanziari, rapporti dominati dall’idea del Potere, è stata costruita nei millenni dall’elemento maschile, di cui conserva l’impronta competitiva. Nella maggior parte dei mammiferi (classe a cui apparteniamo) la funzione sessuale del maschio è quella di selezionare i gameti con maggiore probabilità di sopravvivenza (questo ci dicono i biologi). Per raggiungere tale scopo i maschi hanno istituito forme di lotta, più o meno ritualizzate, dalle quali uscirà vincitore il più forte, il più dotato fisicamente, il miglior garante di capacità riproduttive. Anche in altre classi animali la competizione sessuale è affidata soprattutto ai maschi, cosicché il meccanismo stesso è risultato vincente su larga scala. Nella specie umana, come già in certe forme associative dei mammiferi, la competizione sessuale si è estesa a competizione per il Potere, e da questa è nata un poco alla volta una strutturazione sociale basata sulla supremazia del maschio, violenta quindi e altamente competitiva a tutti i livelli ... Di qui la guerra, la conquista, la sopraffazione culturale; di qui il governo esclusivamente maschile della cosa pubblica, religione compresa. Essendo siffatta la società umana, non ti è restato altro, quando ti sei avvicinata ai luoghi del Potere, che assumere per quanto potevi un habitus maschile. E questo hai per lo più fatto, anche nel momento in cui sopra questo travestimento maschile hai pensato di gettarne un secondo, di femminismo coatto.
Non credo sia questa, nuovamente competitiva, la via più tua, la via che potrebbe –forse, chissà– sottrarre la specie umana alla precoce fine cui l’ha condannata la competitività maschile. Penso lo sia piuttosto un passaggio di consegne dall’uomo alla donna, o meglio dalla mascolinità alla femminilità. Sappiamo infatti che, in termini biologici, la separazione fra i sessi non è così drastica come certi orientamenti culturali vorrebbero far credere. In ogni individuo è riscontrabile una mescolanza di mascolinità e femminilità in varia percentuale, cui partecipano attivamente anche gli ormoni. E il sesso emergente non è neppure detto sia quello biologicamente dominante. I caratteri sessuali secondari, pure evidentissimi, possono non essere indicatori sufficienti di eterosessualità. Il ‘passaggio di consegne’ di cui sopra potrebbe non riguardare la sessualità manifesta, ma la componente femminile, quale che ne sia il portatore. Il problema non è tanto biologico quanto culturale. È possibile spostare l’asse della culturalità umana dal maschile al femminile?
In altre parole: il Potere al femminile?
Penso non sia neppure questo. Vedo il concetto di ‘potere’ strettamente legato a quello di ‘competizione’. Se nessuno lottasse per il potere, questo non sarebbe tale e coinciderebbe tutt’al più con una ‘funzione interna’ alla società come l’hanno le ‘regine’ tra le api e le formiche o i ‘soldati’ tra le formiche e le termiti. Nessun particolare ‘potere’ in queste società di insetti, se non quello rappresentato da tutto il corpo sociale, ma utilizzato solo da alcune specie nei confronti di specie diverse (come se noi l’utilizzassimo solo nei confronti di gorilla e oranghi, cosa che peraltro facciamo anche questa). È quindi possibile –visto che c’è– una società perfettamente anarchica là dove il regolatore supremo dei rapporti sociali è l’istinto, o meglio la programmazione genetica. Dove invece all’istinto è subentrata la ragione, alla programmazione la libertà di scelta, la complessità è tale che l’anarchia non è più un’opzione proponibile. Il concetto di ‘potere’, anziché abolito, va quindi ripensato; va ricercato per lui un modello che non sia quello disegnato dalla competitività maschile. E a ridisegnarlo sarebbe bene fosse la componente femminile della nostra specie, chiunque, uomo o donna, voglia metterla a disposizione.
Ho aperto questa ‘epistola politica’ con una ‘fantasia antropologica’. Vorrei ora chiuderla, simmetricamente, con una seconda ‘fantasia’, cui prego il lettore o la lettrice di non dare maggior credito che all’altra. Tutte e due non vogliono essere che una finzione letteraria buona tutt’al più per indurre qualche riflessione.
Nell’inseguire le conseguenze di IMC –ipotesi metaculturale– mi è capitato di immaginare la storia della specie umana come divisa in due fasi: la prima dal suo affacciarsi –non si sa bene quando– sulla scena biologica fino ad oggi o poco oltre, ed è la fase che possiamo chiamare ‘culturale’, dominata dallo scontro tra popoli, culture diverse e nemiche; la seconda che ancora non conosciamo, basata sulla coesistenza pacifica di popoli e culture diverse. Chiameremo questa seconda: fase ‘metaculturale’. Così come la fase metaculturale non cancella i preesistenti elementi culturali, così questi contenevano già in precedenza l’enzima metaculturale non ancora riconosciuto.
Vedrei la ‘fase culturale’ determinata dalla componente maschile; auguro alla ‘fase metaculturale’, se mai riuscirà a istaurarsi, di essere determinata dalla componente femminile.
B.
Cantalupo, 1–VIII–09
giovedì 30 luglio 2009
Al Ministro della Pubblica Istruzione
Come vede, evito la personalizzazione di questa mia ‘epistola’ perché non è nei miei intenti rivolgerLe una critica per una riforma che non condivido –come non condividevo tutte quelle successive ai Nuovi Programmi della Commissione Brocca ma che riconosco essere funzionale al modello di società in cui viviamo. Non ho neppure da proporLe una ‘controriforma’ che Lei non potrebbe prendere in considerazione e che io non ho la presunzione di ritenere più valida della Sua, anche perché per pronunciarsi nell’un senso o nell’altro occorrerebbe un congruo periodo di sperimentazione sul campo. Vorrei solo rendere partecipe Lei, e chi come Lei ha a cuore la formazione dei cittadini del nostro paese, di alcune considerazioni nate da trentacinque anni di sperimentazione pedagogico-didattica condotta nelle più diverse situazioni educative dagli operatori del Centro di Ricerca e Sperimentazione Metaculturale.
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Queste considerazioni, come le linee metodologiche seguite e i risultati ottenuti sono ovviamente esposti in numerosi scritti, solo in minima parte pubblicati, e qui non potrò che tentarne una sintesi, o piuttosto accennare ai punti che distinguono il nostro orientamento formativo ‘metaculturale’ da quelli culturali tuttora dominanti nella scuola.
Alla base dell’orientamento metaculturale sta la riflessione su alcuni concetti assunti acriticamente dalla maggior parte degli insegnanti, soprattutto della fascia primaria, quella che più ci interessa. Ne nomino quattro:
• il concetto di sapere,
• il concetto di nozione,
• il concetto di disciplina,
• il concetto di cultura.
Quanto al primo, il sapere, è da secoli privilegiato da una cultura, come la nostra, attenta alla ‘patrimonializzazione’ delle conoscenze e al loro ‘rendimento’ pratico. ‘Il sapere per il sapere’, ma anche ‘sapere per produrre’: in ambo i casi il sapere viene assimilato a una forma di ricchezza, il che, specialmente se paragonato con la ricchezza in denaro, va benissimo. Ma prima del sapere o –se si vuole, accanto– c’è ciò che lo genera: il pensiero. Si dirà: piuttosto l’osservazione. Giusto, ma l’osservazione interpretata attraverso il pensiero. Forse che a scuola non si impara a pensare?
Direi che si impara –quando lo si fa– più di quanto non si pensi. E nell’imparare c’è un fondo di passività che non c’è nel pensare.
“Neppure quando si ripensano cose già pensate milioni di volte?”
“Vuoi dire quando si ripensano cose ‘imparate’?”
“Ma è pensabile un pensiero che non poggi su cose imparate?”
“Forse no, ma ciò che conta è il pensiero nuovo che ne nasce.”
… (continua)
A scuola –intendo la primaria e ancor più la media– il pensiero, se non coincide con ciò che l’insegnante e i libri considerano il sapere, viene di regola censurato come errore. L’interrogazione, l’esame, il compito scritto servono anzitutto a misurare l’acquisizione di sapere e a rilevare l’errore. Raramente incentivano il pensiero. In un recente libretto intitolato Dal sapere al pensare (2003) ho ipotizzato una riforma che sposti il baricentro formativo senza ovviamente trascurare l’acquisizione di sapere, ma rifunzionalizzandolo all’incentivazione del pensiero.
Strettamente collegato al sapere è il concetto di nozione. Nella scuola tradizionale –ma anche in quella odierna– la nozione, pur se criticata quando genera il ‘nozionismo’, la fa ancora da padrona. Più che altro per l’impreparazione degli insegnanti: è molto più facile ‘valutare’ un allievo domandandogli quando è morto Napoleone anziché chiedendogli che ne pensa dei rapporti tra Napoleone e la Rivoluzione dell’89, oppure, in prima elementare, quanto fa 2+2, anziché come mai fa 4.
Attualmente la nozione è fortemente svalutata dalla facilità con cui possiamo reperirla. Fino a pochi anni fa per sapere la successione delle ere geologiche o dei papi nel Rinascimento era necessario consultare testi specializzati o enciclopedie pesanti e costose; oggi basta un ‘clic’ e la nozione ci appare, pulita e garantita, su un display formato trasportabile. Recentemente mi è capitato di leggere un elaborato di scuola superiore interamente composto di nozioni ricavate da Wikipedia. Sì, c’era da tener conto del lavoro di ricerca e di assemblaggio, ma di un apporto di pensiero originale neppure l’ombra. Un altro elaborato, più sconnesso e impreciso, ma contenente embrioni di pensiero non convenzionale, ho saputo poi essere stato decisamente rifiutato dall’insegnante.
Come è noto, le ‘nozioni’ si collegano tra loro secondo criteri culturalmente predeterminanti a formare le discipline, anche queste dominanti negli istituti scolastici. Probabilmente la parcellizzazione del sapere in discipline, separate tra loro da transenne pressoché invalicabili, si deve più a esigenze di specializzazione professionale che a utilità pratica. Per esempio una disciplina –o ‘materia’– come l’italiano non si vede perché si configuri nella scuola come un insegnamento autonomo, visto che costituisce il veicolo linguistico di molte altre discipline, matematica compresa. Da lungo tempo si sono individuate anche molte transdiscipline tra cui la semiotica, la linguistica, la logica; stranamente alcune di esse, per ottenere titolo di accesso all’universo del ‘sapere’, hanno dovuto assumere lo statuto disciplinare. Mi rendo ben conto che restituire alle transdiscipline la loro trasversalità rischia di comprometterne l’integrità metodologica, ma, nella scuola primaria almeno, la loro funzione unificante delle discipline nel ‘pensiero’ umano ritengo meriterebbe maggiore attenzione. Lo stesso concetto di ‘cultura’, nonostante la sua grande complessità, può gradualmente entrare nel campo osservativo di un alunno di scuola primaria. Osservarlo non vuol dire semplicemente viverci dentro, ma assumere punti di vista esterni e variabili. Secondo IMC, Ipotesi metaculturale, da noi adottata da una trentina d’anni “ogni nostro pensiero o atto, se non altro in quanto comunicabile, ha una componente ce va relativizzata alla cultura che l’ha prodotta”; di qui la conseguenza che non esistono secondo IMC punti di vista extraculturali, esterni a ogni cultura, ma solo riferibili a culture diverse, che si tratta volta per volta di riconoscere e dichiarare. Sempre secondo IMC non sono culturalmente raggiungibili certezze assolute, ma solo relative a Universi Culturali Locali (UCL). Dicono alcuni pedagogisti e studiosi di psicologia infantile che i bambini hanno bisogno di certezze per costruire la propria individualità. Le esperienze da noi condotte (come Centro Metaculturale) non confermano questa tesi, anzi dimostrano la possibilità di una formazione ‘metaculturale’, relativistica. La variante ‘metaculturale’ del relativismo ne corregge la forma assolutizzante –tutto è relativo– ammettendo le certezze, purché localizzabili entro un qualche UCL. Pedagogicamente ciò significa che fin da bambini è bene che ci abituiamo a circoscrivere le nostre ‘certezze’ entro sistemi osservativi, conoscitivi, il più possibile definiti, tali però da conservare la disponibilità di aprirsi ad altri sistemi, altre ‘certezze’. La certezza di 2+2=4 è tale solo se si definisce ‘numero’ in un certo modo, se si stabiliscono certe regole operazionali ecc. E anche allora, ha dimostrato Gödel, la matematica non è un sistema chiuso e completo.
IMC comunque è stata avanzata, non per amor di teoria né per ambizioni filosofiche, ma solo per ragioni ‘pratiche’, cioè per la sopravvivenza. È abbastanza evidente che, fin quando ci si poteva permettere il ‘lusso’ di guerre con alcune decine di milioni di morti (come la seconda guerra mondiale), si poteva anche rischiare di far prevalere le proprie ragioni. Oggi il rischio è troppo grande: ne va della sopravvivenza della specie homo sapiens. Forse il primo capo di stato che l’ha visto con chiarezza è Obama, almeno così si spera. Ma non basta un Obama. Occorre che un po’ alla volta tutti lo diventiamo, compreso Ahmadinejad. Ma occorre soprattutto che lo diventino i nostri figli e nipoti. E perché ciò accada è necessaria una formazione adeguata alla nostra condizione di esseri pensanti e capaci di riflessione, viventi su un pianeta con risorse abbondanti ma limitate. Per parte nostra abbiamo individuato in IMC uno dei possibili punti di partenza per una tale formazione e ne abbiamo inseguito le conseguenze per un certo tratto nelle più diverse direzioni, Finora non ci siamo imbattuti in evidenti controindicazioni, il che non esclude naturalmente che ciò possa accadere domani.
Per questa ragione, Signor Ministro, ci rivolgiamo virtualmente a Lei perché prenda in considerazione la possibilità di adeguare una futura ennesima riforma della scuola alle esigenze di una società che abbia voglia di sopravvivere anziché di accapigliarsi su chi ha ragione o torto.
B.
Cantalupo, 12.VII.2009
martedì 21 luglio 2009
Poesia: 'Isolde - Isotta'
lunedì 6 luglio 2009
Poesia: 'Tristan - Tristano'
Tristano è uno dei protagonisti dell'opera di Richard Wagner Tristan und Isolde. La storia a cui Wagner abbinò la musica risale comunque al medioevo. Il nostro amico Fernando Sanchez ci legge la traduzione italiana mentre Boris recita in tedesco.