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Ma –mi sento di dire e mi dico io
stesso– se nessuna forma di governo, neppure la democrazia o la meritocrazia ti
vanno bene, come pensi vadano governati i 7 miliardi di individui che popolano
oggi la Terra (e che tra breve saranno 8, 9…)? E che in qualche modo vadano
governati, non essendo pensabile che lo facciano da soli, magari ciascuno per
proprio conto…
Certo, qualche passo
in direzione dell’autogoverno e di una maggiore responsabilità personale e
collettiva nella gestione delle cose di questo mondo lo si dovrebbe pure fare,
dubito però che questi passi possano risolvere il problema della nostra
sopravvivenza, che noi stessi giorno per giorno non facciamo che aggravare. Non
credo infatti, stando a ciò che vediamo accadere da migliaia di anni, che la
specie umana sia a tal punto perfettibile da raggiungere, nei pochi decenni che
il processo tecnologico ci concede, quel grado di perfezione che la
sopravvivenza richiede. È, credo, più saggio, anziché inseguire
un’inafferrabile perfezione, contentarci dell’instabilità che da sempre ci
appartiene e che, bene o male, abbiamo imparato a gestire. In altre parole,
quale che sia il fondamento che intendiamo dare alla nostra società, manteniamo
la disponibilità al cambiamento, unica garanzia di stabilità. Il meccanismo ci
è ben noto da ciò che vediamo in natura, dove legge universale sembra essere la
trasformazione.
Tornando quindi al
problema della forma di governo più idonea ai miliardi di nostri conterranei
(in senso astronomico), ritengo pericoloso ogni tentativo di bloccare su
un’unica scelta la pluralità delle alternative in gioco. A questa apertura al
molteplice virtuale penso però sia necessario associare la consapevolezza di
una scelta contingente ma vincolante nella misura in cui si conservano le
condizioni che l’hanno determinata. Quest’ultima precisazione lega in qualche
modo una contingenza a una stabilità procedurale. E questo spero valga a
tranquillizzare i timorosi (come me) della precarietà.
Fine delle 19
riflessioni su politica, potere, formazione.
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